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Si tratta di impressioni scritte e raccolte quasi cinquant’anni fa, racchiuse nella struttura letteraria di una settimana come fosse uno specchio ridotto della vita. Immagini, sogni improvvisi, ricordi, associazioni di pensiero, avendo alla lontana il modello dell’Ulisse joyceano e del suo flusso di coscienza.

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Si dice spesso che i cristiani con i loro valori, se davvero testimoniati e vissuti, creerebbero un mondo migliore. E ancora si dice che, al contrario, siano valori impraticabili, utopici, eccessivamente difficili da realizzare, astratti dalla vita reale con le sue problematiche e difficoltà. In questo modo, in entrambi i casi, l’annuncio evangelico è trattato come un’utopia sociale, un diverso orizzonte politico e culturale che rivolterebbe il mondo e le sue regole laddove venisse applicato anche un minimo di valori annunciati da Gesù. Questi sono annunciati per superare la dimensione puramente generativa e riportarci al piano della creazione. Se infatti è la dimensione generativa ad esserne l’orizzonte, questo amore non può assurgere a valore in quanto radicato nella precarietà, nel transeunte, nella interscambiabilità, nella soggettività opinabile. L’amore può essere valore se non è opinabile, se è assoluto, cioè se supera il livello orizzontale della generazione. Per questo motivo Gesù ce lo ha rivelato. L’amore cristiano è valore assoluto. Se sul piano orizzontale della generazione sono accettabili entrambi in quanto equivalenti, amare o non amare (è persino possibile l’ossimoro “uccidere per amore!”), un cristiano non può che amare. Per lui l’amore è valore assoluto, trascendente, sovrastorico, sovrannaturale (di qui l’indissolubilità del matrimonio, non imposta, ma condizione conseguente). L’amore, per il cristiano, è prima di noi, ci fonda e ci orienta: l’amore non esiste perché l’uomo sa amare, ma l’uomo ama perché l’Amore ci pre-esiste e dà senso autentico al nostro amore. In un certo senso, il cristiano non può scegliere di amare o non amare: l’amore gli è consustanziale. Per chi non è credente, l’amore è un fatto soggettivo, una scelta privata, storicamente, sentimentalmente o altro fondata, ma equivalente, -per le stesse ragioni- a chi “sente” o “prova” sentimenti opposti.

(brano tratto da Hegel-Rosmini, Biblioteca di Studi Rosminiani, Stresa 2015, vol. 2°, pp. 307-342).

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Per Hegel la bellezza e l’arte sono, per un verso qualcosa di prossimo al vero, per un altro una sua forma ancora provvisoria ed inadeguata. L’essenza dell’arte, in qualunque sua forma (anche se il pensatore tedesco le distingue e le caratterizza con la consueta geniale acutezza), si caratterizza precisamente in questo particolarizzarsi da parte dell’universale dell’Idea: essa, così, diviene immagine sensibile, rappresentazione del concetto. Nell’estetica hegeliana, in base al suo convincimento che tutto quel che è spirituale deve essere considerato superiore ad ogni prodotto naturale, l’essenza della bellezza risiede nell’arte in quanto prodotto dello spirito: dunque, l’opera d’arte è tale solo in quanto, originata dallo spirito, appartiene al campo dello spirito, ha ricevuto la sua identità spirituale e manifesta solo ciò che è formato secondo la risonanza dello spirito. Nell’arte, lo Spirito assoluto, l’infinito, si rende visibile nel finito, rappresentandosi e contemplandosi in una forma particolare; l’arte diventa dunque la raffigurazione sensibile dell’Idea. L’estrinsecarsi dell’arte è la sua effettualità storica e l’arte è da concepire come avviene per ogni manifestazione dello Spirito, come storia, come una storia dell’arte, ovvero come sviluppo delle forme artistiche, via via sempre più capaci di far raggiungere allo Spirito la propria consapevolezza. Hegel era convinto della futura “morte dell’arte”. Tale conclusione è intesa, nella sua prima accezione, nel senso che il suo ruolo, di mediazione intuitiva dell’Assoluto, era destinato ad essere superato dalla religione e poi dalla filosofia, la sola che possa cogliere l’Assoluto nel suo elemento proprio, cioè la ragione speculativa, la razionalità dialettica.

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È il testo della relazione tenuta al Convegno Nazionale ASUS, presso l’Università Roma Tre, nei giorni 25-26 ottobre del 2013. Il Convegno prevedeva la presentazione del tema “bene e male” delle varie visioni religiose (Induismo, Buddhismo, Ebraismo, Taoismo, Religioni cosiddette “animiste”, ecc. come visibile nella brochure) da parte di esperti.

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Si tratta di pensieri raccolti nell’arco di un anno su temi e personaggi diversi. Non hanno alcuna pretesa che far riflettere, non certamente di richiedere assensi.

(in “Rivista Rosminiana”, fasc. III-IV,  luglio-dicembre 2020, pp. 205-294).

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M’interessava e m’interessa ripensare la filosofia e l’insegnamento della Raschini, partendo da questo testo così “anomalo” come Le Cerebroteche e, dialogando a distanza di tempo con esso, proporre un’opera complementare all’altra mia monografia sulla pensatrice di Broni, Maria Adelaide Raschini. L’intelligenza della carità, pubblicato, nel 2003, per i tipi della Marsilio di Venezia. E il testo della Raschini ti induce a raggiungere una prospettiva fuori gravità, al di là di ogni particolarismo, di ogni tributo da pagare al proprio tempo, come se ci si potesse liberare del tempo e lo potessimo osservare standoci dentro e visitandolo. È come se prendesse vita e parola ed immagine e concetti la condizione veritativa della pienezza, non più attenta alle divisioni, non più schierata per un versante rispetto ad un altro, non più reattiva di fronte all’avversario, né agguerrita contro qualcuno o qualcosa.

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Dio ci ha creati, non generati. Per questo non ha creato la morte. Ne è superiore perché è superiore su ogni cosa finita e la morte è il trionfo del finito. Ma il fatto che Dio sia superiore alla morte non significa che Dio sia la causa della morte. Pensare il finito come una serie di accadimenti provvidenziali da accettare è concezione pagana, ben compresa dallo stesso Nietzsche, peroratore dell’amor fati, quale risposta anticristiana al καιρός dell’annuncio evangelico. Lo stoicismo, entrato a pieno titolo nel patrimonio culturale greco-romano e dunque occidentale, ha amplificato e sdoganato sul piano di una giustificazione filosofica e teologica, quanto psicologicamente l’ignoranza del popolo aveva da sempre in sé come sua convinzione: ciò che accade è scritto e non può che accadere ed ognuno ha, nella sua esistenza, il proprio destino da compiere. La differenza omessa è tra finito e infinito, tra relativo e assoluto, tra uomo e Dio, tra generazione e creazione. Tutto è schiacciato sull’orizzontalità come se questa fosse il valore, quando, invece, deve rincorrerlo e darselo. Dio ha già fatto la Sua parte e l’ha fatta in modo unico, irripetibile e compiuto: Gesù incarnato. È Lui che ci ha indicato la strada del giusto, del bene e del vero. Se riteniamo possibile che Dio intervenga qui o là per risolvere le nostre debolezze, miserie, nefandezze, stiamo togliendo valore all’evento dell’Incarnazione, evento centrale della storia dell’uomo, evento perfetto, che non ammette cloni, ripetizioni, succursali d’intervento. Dio Padre è, ed è in quanto Vita Eterna, Essere, Creazione. È il Creatore. Dio Figlio è creatore che ha scelto per amore di far parte della generazione: per questo senza peccato originale. È generato, non creato. Gli angeli sono stati creati non generati. L’uomo è generato e creato.

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(conferenza tenuta a Bocca di Magra al XIV Corso “Cattedra M. F. Sciacca”; 6-7 settembre 2011).

Nell’àmbito storico-religioso l’assolutizzazione della vita è stata paradigmaticamente interpretata ed attuata dal panteismo induista, mentre l’assolutizzazione della morte è nel paradigma nichilista buddhista. La problematizzazione della vita e della morte sono pertinenti, invece, alla tradizione ebraico-cristiana. Nelle visioni immanentiste e materialiste l’immortalità è confusa con quella che è definita sciacchianamente perpetuità storica, con la sola continuità quantitativa, temporalmente senza fine, dove si allude ad un approdo mondano che renderà l’uomo, finalmente, appagato e fuori da ogni alienazione, felice e liberato da ogni forma di costrizione. Laddove poi il nichilismo valoriale è diffuso, mancando uno scopo da raggiungere, l’immortalità può ridursi soltanto al trasmettere il ciclo della vita. La richiesta di immortalità non è una domanda che possa essere ascrittta e risolvibile sul piano naturale, a livello di processo evolutivo: un animale evoluto che ponesse, infatti, la sua unica certezza di vivente, cioè la morte, al vaglio di una richiesta di senso, rinnega ontologicamente la sua appartenenza al mondo animale e di questo non può essere, certo, dichiarato superiore gradino evolutivo.

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Ho preso un anno liturgico, il 2016-2017, per commentare l’ascolto della Parola e, soprattutto, le omelie connesse. Ci sono, di conseguenza, constatazioni, domande, confronti. Nessuna pretesa teologica, ma costante interpellanza della mia coscienza.

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(brano tratto dal libro Lineamenti per una filosofia dell’intersoggettività, con prefazione di Markus Krienke, Aracne, Roma 2021, pp. 33, 34, 36).

È l’inter–soggettività che l’idealismo ha trascurato quasi completamente e che già Hölderlin oppose a Fichte e al suo idealismo soggettivo, che qui si intende proporre quale fondamento. L’intersoggettività non può essere soltanto oggetto di un sapere, giacché in questo, essa resterebbe ingiustificata e, come tale, anche soltanto possibile. Essa deve risultare viceversa fondamento del sapere, anzi, in senso stretto, la relazione stessa che è conoscenza e che si esplica soltanto come relazione al fondamento, come rapporto tra distinti. L’io non si scopre come io se non in relazione ad un tu. La coscienza è dunque vuota infinita forma di sé: essa deve conformarsi alla sostanza che è spirito: essa deve diventare soggetto.

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(sintesi lezioni del corso accademico di Introduzione alla filosofia tenuto alla PUL, online, durante il periodo della pandemia)

Si tratta di lezioni che sono state ideate per chi non ha mai fatto o ha fatto in modo non adeguato lo studio della filosofia. Ovviamente il corso, che è annuale, prevede una chiave di lettura che pone la filosofia tra quelle attività “inutili” e per questo libere da vincoli pragmatici. Come tale la filosofia fa parte di quel patrimonio tutto umano, che non trova spiegazioni naturalistiche, legate ad una connessione sempre utilitaristica. Inoltre, c’è, nel rapporto con la natura, un corto circuito con la filosofia, visto che ogni idea evoluzionistica non potrebbe spiegare una modalità, quella del pensare filosofico, che metta in discussione proprio la natura! Come se questa partorisse quale sua evoluzione un “prodotto” che le vada contro! Per questo motivo l’essenza della filosofia è sempre metafisica.

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(brano tratto da Hegel-Rosmini, Biblioteca di Studi Rosminiani, Stresa 2015, vol. 2°, pp. 240-270).

Il bene morale coincide, per Rosmini, con l'essere conosciuto dall'intelletto e riconosciuto, cioè amato, dalla volontà secondo il grado dell'essere stesso. Questa possibilità di partecipare all'ordine dell'essere fornisce all'uomo quella dignità che lo innalza al di sopra di ogni altra cosa creata da Dio, perfezionandolo. La morale ha, dunque, per il Roveretano quale suo oggetto il bene. Il bene coincide con l’essere in quanto amato dalla volontà: la morale si fonda, allora, interamente sull’amore per l’essere, conosciuto grazie all’idea dell’essere. L’essere, cioè il bene, possiede un ordine, secondo il quale l’essere supremo, il più degno di essere amato, è Dio, poi vengono le persone, che hanno valore di fini, e infine vengono le cose, che hanno valore di mezzi.

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(in “Rivista Rosminiana”, I-II, 2021, pp. 79-90).

L’alterità è conservata e conservabile soltanto se il particolare è preceduto e, dunque, fondato dall’universale: soltanto in questo modo è presente l’autentica dialettica. Se, viceversa, si ha la pretesa di pervenire all’universale secondo gli antichi dettami aristotelici del metodo induttivo poi sperimentale, non si esce dal quantitativo e dal particolare: lo si estende soltanto, lo si ampia ad libitum decretando, ad un certo punto, dogmaticamente, che esso è sufficiente per dichiarare che può bastare, che è un limite così ampliato da diventare senza limiti. Le scienze vanno, nell’ottica rosminiana, inserite in uno scibile dove unità e totalità siano conciliate e capaci di ricondurre all’idea dell’essere che ha guidato quella ricerca. Riconosco l’errore non in base ad altre presunte certezze, anch’esse passibili di errore, ma alla luce della Verità. Dunque, l’universale non segue, non scaturisce dal particolare. Lo precede e lo fonda, illuminandolo ed orientandolo. Dal particolare all’universale non si giunge. Il post rem nel grande tema degli Universali, non è realizzabile. Non esiste l’induzione perfetta. Le pretese dell’induzione, fondatrice del metodo sperimentale della scienza e di ogni scientismo e neopositivismo, sono quelle di approdare all’universale e alla fedele ricostruzione concettuale della realtà a partire dal particolare esperito. L’universale, in quanto possibile è “prima” ed agisce sulla quidditas empirica, conoscibile solo dopo il processo di universalizzazione.

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(conferenza tenuta a Bocca di Magra, XX Corso “Cattedra M. F. Sciacca”, 1-4 settembre 2017 poi in Annali Fondazione Sciacca, vol. VII, pp. 3-18).

Le prospettive sull’uomo e la storia che i nostri tempi, -con cadenze mercantili da consumo-, partoriscono in serie, pur nella loro variegata abbagliante democratica esposizione sui banconi dei media, sono tutte accomunate da uno stato confusionale crescente, perché cade ogni differenza: differenza tra opinione e verità, tra bene e male, tra generalità e universalità, tra umanità ed animalità, tra maschile e femminile, tra uomo e Dio. Un indistinto ed equivalente (accennavo prima alla definizione del caos) che è, appunto, la liquidità, la vittoria effimera del transeunte, vero regno, unico possibile, per far trionfare una eternità senza significato come anticipato da Nietzsche. La storia, perduto il senso, è identificata oggi con il ripetersi della natura, come avviene in buona parte dell’Oriente, e questa natura viene divinizzata, più o meno esplicitamente. Il fatto è che gli stessi concetti di democrazia e pluralismo ai quali siamo abituati, hanno un fondamento ed una struttura a base storicista. Se è la storia che detta legge, tutto passa e tutto vale perché niente davvero vale in modo definitivo: ognuno ha diritto a fare la sua parte, a parlare e opinare. Domina l’opinione, il soggettivo, dove ognuno può dire la sua al medesimo titolo di chi ha motivato, invece, quella sua proposta con anni e anni di studio e approfondimento. Tutti possono dire tutto e tutto vale egualmente: non c’è differenza tra l’opinione di chi ignora e di chi sa. Tutto passa senza lasciare traccia. Ancora una volta democraticamente. Unici paletti ineffabili ed indiscutibili alcuni tabù di moda, con oscillazioni nel tempo: la mafia, il fascismo, il razzismo, l’aborto, ecc.

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Queste riflessioni vanno lette in modo speculare. La seconda parte riprende e ri-orienta la prima, paragrafo per paragrafo. Si può dire che nella prima parte si cerca, senza compiacimenti, senza consolazioni, luoghi comuni e timori, un’osservazione e valutazione radicale, estrema, spietatamente realista della vita, di ciò che la essenzializza, dove l’avverbio “spietatamente” vuole indicare un’attenzione non distratta né distraibile. Nella seconda parte, ci si apre a una nuova lettura. Che risponda alla domanda: come mai per i cristiani e per l’intera umanità, la Salvezza, la Redenzione (anche per colui che non crede) è stata così cruenta sino a passare attraverso il dolore e la morte? E per quale motivo quel Sacrificio si rinnova ogni volta nel mangiare e bere eucaristico? C’è una recondita possibilità al logos umano, pur così imperfetto, di intercettare almeno in parte il significato di quel mistero?

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La pretesa di questo dialogo a tre è quella di affrontare tematiche diffuse e complesse in modo semplice, anche se non esauriente. Tuttavia, se si legge con attenzione, per ogni problema che viene proposto e analizzato viene fornita una chiave di lettura che può essere autonomamente utilizzata dal lettore in un suo eventuale personale approfondimento. Ringrazio per la collaborazione nella composizione del dialogo Luca Reggio e Mario Balzano.

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(brano tratto da Hegel-Rosmini, Biblioteca di Studi Rosminiani, Stresa 2015, vol. 2°, pp. 140-172).

Hegel, attraverso Lutero, ha reso sempre più funzionale il Cristianesimo alla propria dottrina. . I principi della sola fides, sola gratia, liberano l’uomo luterano dalla dipendenza proporzionalmente diretta (tanto faccio, tanto da Dio ricevo) che è quel concetto di remunerazione che, s’è visto, Hegel annovera fra gli elementi più evidentemente superstiziosi ed antropomorfi. La visibilità, la mediazione storica vanno superati nell’interiorizzazione soggettiva del fedele che può liberamente aderire alla fede e rendersi, così consapevole della propria essenza divina: Dio è in lui. Bene ha compreso Hegel la portata culturale e spirituale del Luteranesimo: soggettivismo gnoseologico, laicità etica perché fondata sull’autonomia morale soggettivista e fede razionalizzata. Per il Maestro di Stoccarda, quella di Lutero fu la vera rivoluzione, perché rivoluzione dello spirito e che costituì la base della sua concezione dello stato etico. Del resto Lutero fu ritenuto l’apice, il culmine, il punto di arrivo del Cristianesimo.

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È una nuova raccolta che può aggiungersi a quella precedente di “Brevi riflessioni”. Saranno anche in seguito inseriti nuovi contributi del genere, scaturiti da riflessioni quotidiane o scambi di idee con alunni, ex alunni, amici o interlocutori occasionali. Sono tentativi di provocare riflessioni laddove siamo obbligati oggi a non riflettere.

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Il cristiano non ha come modello Barabba, il liberatore terreno, politico-sociale ed economico, ma Gesù. Se il mondo fosse trasformato come sopra, dall’agire di un cristiano, di cristiano non ci sarebbe nulla e nulla avrebbe fatto come cristiano! Anzi, si è percorsa la strada della precarietà e transitorietà storica per assegnarle risposte appaganti! L’errore idolatrico di ogni ateo. Rincorrere una perfettibilità orizzontale con riferimenti orizzontali! È stata proprio questa la tentazione serpentina dell’Eden: “sarete come Dio!”. La storia la scrive l’uomo, purtroppo. Il progetto di Dio nella storia dell’uomo c’è, e continua ad esserci. E’ il Cristo. È Lui la Provvidenza, è Lui la storia scritta da Dio. Chiunque, può seguire e costruire la storia secondo il progetto di Dio seguendo il Cristo. Quella è la strada. La Provvidenza è cristocentrica. È Cristo la Porta, la Via, la pietra fondante. Non ci sarà ricostruzione senza la chiarezza di questo fondamento. Allora non è il factum ad essere causato da Dio, ma la sua giustificazione e la possibilità di dotarsi di senso mediante il Cristo. Che Dio sia padrone del mondo non significa che ciò che accade è Lui a farlo accadere. Niente accade che Dio non voglia; ma ciò non significa che Dio voglia ciò che accade.

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(conferenza tenuta a Bocca di Magra, pubblicata in “Ricerche storiche” in “Rivista Rosminiana”, gennaio-giugno 2019, pp. 143-153).

Abbiamo scelto una fede soltanto consolatoria, che sappia rendere la propria condizione di vita più comoda, una fede sempre bella e appagante, oasi di emotiva felicità, sicuro rifugio aggregante, che ormai affida tutta la testimonianza e l’identità di essere cristiani a un mero livello esperienziale. Ci si dimentica di più di duemila anni di sforzi filosofici e teologici, s’ignora il contributo dei dottori della Chiesa, i nostri Padri, di chi ha pagato con la vita la difesa dottrinaria. Il fatto che il Cristianesimo non sia una filosofia non può e non deve significare che se ne possa fare a meno. Affidarsi alla mera esperienza di vita significa fondare la verità sul soggettivo, -dopo duemilacinquecento anni di filosofia almeno questo è chiaro-, affidandosi al particolare, in quanto l’esperienza è sempre inoggettivabile, contraria ed irriducibile ad ogni mediazione. E la mediazione, non lo si dimentichi, implica la relazione. Le preghiere dei fedeli, nella celebrazione dell’Eucaristia, sembrano talvolta edulcorate richieste sindacali, le omelie sono in grandissima parte fatte da un clero spaesato e confuso, spesso impreparato, (quanto vera ancora questa piaga ricordata da Rosmini!) sono spesso istruzioni per una spicciola felicità terrena, con i tanti, cosiddetti “cammini esperienziali”, presenti in tutte le nostre parrocchie, dove si invita il fratello indeciso e “separato” “a camminare insieme” o a “mettersi in cammino insieme”, empiricamente, “a condividere le stesse esperienze”, altrettanto empiricamente, come se la Verità del Cristo fosse esito empiricamente raggiungibile. Lutero è la cartina di tornasole. Si fa oggi del rapporto con la Verità un rapporto semplicemente sentimentale, sensistico, di condivisione emozionale, pronto tutto ad accettare, tutto ad ascoltare, tutto a giustificare, pur di facilitare questo cammino, minimizzando per se stessi e per il fratello inquieto o nell’errore, lo scandalo di una realtà odierna disorientata dal caos e priva di ogni senso fondante.

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Ho voluto definire la mia prospettiva filosofica “consistenzialismo”. La sua essenza sembra un ossimoro, in quanto è una consistenza dell’assenza, non della presenza come comunemente si crede. Se l’uomo, come qualunque altro organismo, vegetale o animale, fosse appagato della consistenza della presenza, tutto sarebbe rimasto immobile, statico, conservato nei millenni e difeso come propria condizione vitale. L’uomo, unico e paradossale organismo in natura, è attratto dall’assenza. Ciò che è importante è che la intercetta, la scopre, sa coglierla, segno evidente che ha in sé una pienezza, una presenza che gli permette quel riconoscimento. Ed è quella pienezza che induce l’uomo in quanto uomo alla ricerca, al progresso, a fare la sua storia, a creare le sue civiltà, a cercare il meglio, a colmare quell’assenza. Questa, dunque, ha una consistenza ben più evidente e certa che quella fisica, sperimentabile, che è, sì, consistente, ma di una consistenza abbandonata in nome di quella per il possibile che ancora non c’è.

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(Gli equivoci del dialogo interreligioso. Una rilettura dei documenti del Magistero, presentazione di Antonio Livi, Leonardo da Vinci, Roma 2018.

In questo volumetto ho cercato di correggere alcune affermazioni della Nostra Aetate, attraverso l’intervento del documento dottrinale Dominus Jesus, emesso il 6 agosto del 2000 da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede a firma dell’allora prefetto della Congregazione, il cardinale Joseph Ratzinger futuro Benedetto XVI. Le affermazioni di Nostra Aetate sono inficiate, come è visibile sin dal titolo, di quella radicazione storica di certe riflessioni che non poteva poi giustificarne l’identità d’insegnamento o approfondimento. Le sabbie mobili della storia hanno inesorabilmente relativizzato Nostra Aetate e dunque anche il suo valore magisteriale. Dominus Jesus ha voluto ripristinare la via maestra di fronte alle oscillazioni interpretative, spesso schierate secondo la moda, che erano state tratte dal documento conciliare Nostra Aetate.

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(conferenza tenuta a Bocca di Magra, al XXI Corso “Cattedra Sciacca”, 1-4 settembre 2018). 

Hegel attinge dalla Rivelazione cristiana, senza alcun atto di umiltà e fede, soltanto gli elementi che potrebbero avallare il suo sistema, dalla Trinità letta come legge dialettica triadica, sino all’Assoluto che si rivela e si compie, in Cristo, nella storia, indiretta giustificazione per le sue polemiche contro le “anime belle”, quelle che vivono con “turgido entusiasmo” la Spaltung. La figura di Cristo è solo formalmente la mediazione dell’Assoluto con e nella storia, ma, sul piano dei contenuti, il Suo, -quello di Cristo, intendo-, resta per Hegel un nobile tentativo, fallito storicamente con la Crocifissione. Hegel pur parlando del Cristo come Dio che si fa storia, ne parla per farne un uso estrinseco, funzionale al suo sistema, giacché se davvero avesse creduto al Salvatore, ogni Spaltung si sarebbe sciolta, risolta, ricucita. Definitivamente.

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(conferenza tenuta a Bocca di Magra, al XIX Corso “Cattedra M. F. Sciacca”, 1-4 settembre 2016, pubblicata in “Annali della Fondazione Sciacca”, vol. VI, pp. 33-48).

Il titolo, infatti, presenta due paradigmi, due modelli alternativi, senza mediazioni reciproche. Da una parte c’è un pensatore, -non casualmente oggi per lo più ignorato-, che testimonia la filosofia perenne e la visione cristiana della vita; dall’altra, c‘è l’assolutizzazione della storia, delle sue preoccupazioni ed urgenze, l’asservimento giustificatorio del logos al mutevole storico. L’alterità che Hegel oppone per poi risolverla nel processo dell’Idea è, come è noto, una alterità fittizia, denunciata, seppure in modo adombrato, nella figura della “coscienza infelice”, dove l’infelicità è risolta laddove la coscienza diventi consapevole che l’altro è semplicemente alter-ego, il “me” dall’io scisso che devo ricomporre. Si tratta di un processo dialettico autoreferente, che tutto include perché non c’è confronto autentico con l’alterità: non si esce dalla dimensione dell’omos. Senza un fondamento trascendente, ogni forma di altruismo decade a livello animale, come mera solidarietà a difesa della specie. Se perdiamo la necessità del fondamento non storico della storia ecco quell’oscuramento dell’intelligenza di cui parlava Sciacca.

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(conferenza tenuta all’ Università di Genova, 29 ottobre 2012)

È un giusto tributo all’amico Pier Paolo dell’Università di Genova, dove ho cercato di delineare la sua forte matrice rosminiana, quella matrice che gli svela e gli conferma il senso consapevole della differenza-analogia tra ente ed Essere, la dialettica necessaria di finitezza-irrepetibilità dell’esistenza personale e di assolutezza, la positività ontologica degli enti come finiti, nella differenza qualitativa tra ente-uomo ed ente-natura. La positività dell’uomo è radicata nell’Essere e lo stesso pensare ha il suo fondamento nella inizialità dell’essere. Dialettica dell’integralità della persona in linea con il maestro Sciacca, fondazione metafisica della persona secondo le indicazioni rosminiane, cultura come essenzialmente filosofia, filosofia come essenzialmente metafisica: queste le strutture portanti della teoresi di Ottonello.

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Lo scetticismo è la prima menzogna, quella di fondo, quella che nega la possibilità del vero, ma che pretende contraddittoriamente il vero per sé. Sembrerebbe un atto di umiltà, ma lo scetticismo nasce da una pretesa di assolutezza: non accetta il limite creaturale di fronte alla Verità e, per questo motivo, conclude assolutizzando il limite, spacciandolo per corretta risposta intellettuale e risposta onnicomprensiva. Pura astrattezza, giacché la vita impone scelte e non ammette per sua intrinseca natura che non si abbiano riferimenti e valori, magari discutibili, ma necessariamente presenti. Non è l’errore, dunque, ma la menzogna il vero avversario della Verità. L’errore come consapevole precarietà è analogo al sapersi limitati e incompleti: è la nostra sorte ed essenza. In più, l’errore è capace di essere riconosciuto come tale soltanto perché si confronta umilmente con la verità. La menzogna, invece, è tale perché froda il pensiero, lo rende illuso di assolutezza, lo riveste di una perfezione che non ha e non è. Errore e verità sono i nostri compagni di viaggio. La menzogna, come un ladro di notte, insidia e tenta e manipola verità ed errore, trasformando questo in quella. Quando l’errore viene contrabbandato per verità si ha la menzogna.

Roberto Rossi Filosofo

2023 by RobertoRossiFilosofo

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