Vorrei con questa prima riflessione, aprire una serie continuativa di approfondimenti su alcuni snodi centrali che l'uomo, credente e non, si pone e che, inevitabilmente portano a interrogarsi su Dio e sul significato dell'esperienza cristiana.
Sentiamo continuamente dirci che Gesù è morto liberandoci dal peccato e/o dai peccati. Lo ripetiamo come uno slogan, ma per quello che è stata sinora la mia esperienza, non c’è stato mai un sacerdote che abbia affrontato e chiarito quest’affermazione. Ed è facile per chi non è credente irridere un’affermazione così sterile: forse l’uomo non pecca più? È forse migliore? Siamo diventati per incanto puri e immacolati senza macchia del peccato? Il male è stato estirpato dal mondo? Ma, lo vediamo tutti purtroppo: continuano ad esserci guerre, egoismi, sopraffazioni, epidemie, morti e tragedie ovunque. E dunque?
Evidentemente c’è un errore di prospettiva che ci spinge a inquinare anche l’interpretazione. È la medesima cosa che è avvenuta quando Gesù era in vita: ha dato la vita al cieco, ma non ha guarito l’uomo dalla cecità; ha risuscitato Lazzaro, ma non ha dato la possibilità a tutti di rivivere in questa vita; ha guarito il lebbroso, ma non la lebbra; ha sfamato con pochi pani e pesci la gente che Lo ascoltava, ma non ha estirpato la fame dal mondo. Ed è proprio qui che non dobbiamo confondere i livelli interpretativi. Non è questo mondo e le sue infermità e debolezze lo scopo della Salvezza! Il mondo deve salvarsi proprio dalle sue debolezze e fragilità, dai suoi limiti, dai suoi errori, tutte particolarità che si ergono come decisive: infatti abbiamo sempre bisogno, bisogno di tutto, perché siamo limite, ma questo ci costringe a fare dei nostri bisogni particolari un assoluto, sino a farli convergere nel concetto di “benessere”. E quando si assolutizza il particolare (dall’ego sino ai tanti pseudovalori storici) non facciamo altro che creare idoli, cioè a peccare, perché il peccato (come lo stesso dolore fisico o mentale) è SEMPRE un particolare che pretende di ergersi ad assoluto, invadendo e diventando indebitamente riferimento centrale. Non a caso, come fosse una “prova del nove”, assolutizzare l’altro significa immediatamente concepire l’universale, cioè l’esatto contrario del particolare.
Il mondo è la realtà del particolare, è il particolare che è e si fa realtà: va redento, va portato a significato, giacché un significato particolare è, in quanto tale, opinabile e interscambiabile, sostituibile, alla pari, con il suo contrario. Il trionfo del particolare è illusione, tanto che tutto muore, precisamente perché particolare. Noi credenti con il Crocifisso ricordiamo il Suo fallimento storico, il Suo esser davvero altro dal mondo, ma la nostra fede è nel Risorto, cioè nella Sua vittoria nei confronti della morte.
E così comincia a chiarirsi l’affermazione poco chiara dalla quale si è partiti in questa breve riflessione. Vincendo la morte Gesù apre al superamento di ogni particolare, al superamento del peccato, del limite che pretende, che si fa idoli, che si mette al primo posto. I Suoi miracoli non sono per il mondo, ma affinché il mondo riconosca la Vera via, la vera Vita, il vero benessere che non è certamente quello mondano.
È proprio la speranza dell’eterno che non ci spinge ad assolutizzare questo mondo finito. Se questo mondo finito fosse l’unica realtà, perché non accaparrarsi quanto più possibile e avere dal mondo il massimo per se stessi? Sarebbe la cosa più logica, animalmente accettabile, comprensibile, giustificabile. Se questa vita fosse l’unica occasione, avrei tutto il diritto di badare a me stesso e ai miei interessi. Non esisterebbe neppure la possibilità della “gratuità”. È l’oltre che garantisce e giustifica, invece, sino in fondo un sano equilibrato distacco da ogni seduzione del mondo.