In questa seconda domenica d’Avvento la liturgia presenta alcune letture che vanno collegate e lette secondo un continuum che possa chiarire le ragioni della fede e della testimonianza. La riflessione filosofica ha il compito non soltanto di approfondire temi accademici, ma di mettersi al servizio di una visione della vita che dia senso e orientamento alla nostra umana condizione. Qui presento il punto 2 di questa rubrica “Capire per credere”. E la riflessione è, appunto, su queste letture della seconda domenica di Avvento. Seleziono i punti tematici che possono aiutarci a comprendere il motivo conduttore della specificità cristiana:
1. Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto, siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti- Il Signore è vicino. Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù. (Fil 4, 4-7).
2. In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da magiare, faccia altrettanto» (Lc 3, 10-11).
3. Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe» (Lc 3, 14).
Cosa tiene unite queste affermazioni di Paolo e Giovanni Battista?
Partiamo dall’ultima citazione.
Giovanni Battista è un uomo del deserto, un asceta vestito con pelli di dromedario e che mangiava locuste e miele selvatico. Cioè, all’opposto delle vanità del mondo, del benessere corporeo, della ricerca d’integrazione sociale o attivismo politico. È l’unico profeta del Nuovo Testamento, la voce che grida nel deserto e che anticipa la venuta di Gesù. Ebbene, Giovanni non risponde ai soldati, come farebbero oggi la gran parte dei cristiani ”deponete le armi, cercate la pacificazione, concordate una convivenza pacifica e tranquilla” e così via. Quale occasione migliore che quella di un diretto appello di pace da parte di Giovanni Battista ai soldati? Ma le faccende del mondo, per un cristiano, devono avere il valore che devono: limitato, transitorio, effimero. La risposta di Giovanni è una risposta che può essere valida per ogni uomo che abbia un minimo di potere e tralascia ogni riferimento alla pace e ad una condizione di benessere terreno. Ogni riferimento alla guerra (e quante ce ne erano allora!) o alla repressione violenta di conflitti non c'è, è del tutto ignorato.
Il secondo riferimento si fonda sul primo. E per affrontarlo c’è da porsi una domanda. Che differenza passa tra una lotta politica per la giustizia sociale, tra un impegno sindacale ad una maggiore ridistribuzione dei beni e questa indicazione di Giovanni, poi ripresa e ampliata da Gesù, di dare agli altri i propri beni o ridistribuirli, sino alla paradossale privazione del proprio? Per rispondere a questa domanda, va ricordata la riflessione al primo riferimento evangelico. Una politica o i sindacati o i rivoluzionari che lottano per una giusta ridistribuzione dei beni, per una eguaglianza sociale ed una equanime condivisione delle risorse e delle ricchezze, ha questa terra, questo mondo, questa vita come fine, come luogo da migliorare, come scopo. Dunque, è uno scopo tutto terreno, materiale e materialista, rivestito da idealità che nasconde meri obiettivi animali: sopravvivere e/o vivere nelle migliori condizioni. E purtroppo, gran parte dei cristiani e del clero hanno la stessa prospettiva e il medesimo atteggiamento, confondendo carità e filantropia, solidarietà animale e gratuità, giustizia umana e Giustizia divina. L’indicazione di Giovanni di donare le proprie tuniche e il proprio cibo hanno la loro motivazione e il proprio fondamento nel medesimo significato che si legge fra le righe nell’ammonimento giovanneo dato ai soldati: non è qui il senso del mondo, non è nel mondo il valore, non è nel benessere terreno e nella pace umana, politico-sociale-economica il fondamento cristiano. Proprio perché il cristiano crede nella vita eterna e nel Salvatore che tutto redime e riscatta (Giovanni Battista ancora non sapeva della Resurrezione di Gesù che avrebbe vinto definitivamente il non-senso della morte) ogni credente deve guardare oltre questo mondo, al di là delle vanità e delle seduzioni e dei piaceri e appagamenti terreni. E così, nella speranza e con la speranza della vita eterna, della vera vita, quella che supera i limiti spazio-temporali, che valica dolore e morte, come ci si può attaccare a questa esistenza, a questo mondo, a queste sue precarie finalità? Solo così la rincorsa del cristiano al giusto non può essere confusa con una valorizzazione della materialità che viviamo, ma con l’esatto opposto: è proprio perché il cristiano coglie la precarietà e l’effimero di questa realtà, non ci si attaccherà ad essa in modo disperato e sarà, invece, in grado di dare le sue tuniche, il proprio cibo e tutto quanto è necessario all’altro. Non è una amplificazione di valore ci ciò che è materia, orizzontalità storica, vita terrena, ma esattamente il contrario: dono perché ho consapevolezza che questa vita non è tutto, non è il significato del mio esser uomo.
E così, infine, il primo riferimento chiarisce e conferma quanto detto. La felicità, la pace, la gioia, l’appagamento, la serenità, la letizia sono soltanto nel Signore e solo in Lui ci si deve rallegrare. È da qui che deve partire tutto, dall’oltre, dall’Eterno, dalla vera vita, altrimenti se devo dar valore alla realtà terrena lottando per la giustizia, l’uguaglianza, la pace, ecc. non serve esser cristiani: basta un qualunque sindacalista o politico.