Quando metto mano a questa rubrica ho sempre tanta amarezza: sentirmi costretto ad approfondire quello che viene con leggerezza proposto ai cristiani, creando ancor più confusione. Non sono nessuno per giudicare, ma il Magistero millenario e la Tradizione millenaria sono stati sempre molto chiari ed è dunque doveroso verificare certe indicazioni clericali.
Su un foglietto di meditazione distribuito alla fine della Liturgia domenicale, la stessa del “Capire per credere 2”, leggo due indicazioni che mi lasciano perplesso. Ormai viviamo un cristianesimo sociale, di un buonismo culturale e di un semplicismo politico. Alla voce “La Parola del Signore VISSUTA” del foglietto succitato leggo: “Questa settimana mi impegnerò a condividere il mio tempo con chi è meno fortunato di me, visitando un malato, un anziano solo e farò in modo di aiutare materialmente, condividendo ciò che posso, con chi è meno fortunato di me”.
Si tratta di un’affermazione così diffusamente presente nelle omelie e nelle indicazioni clericali che non ci si fa più caso e sembra in perfetto ordine con l’insegnamento evangelico, come se Gesù fosse venuto a riappacificare (porterà anzi a decisioni conflittuali e contrapposte), a sfamare, a guarire, ad aiutare a aggiungere il benessere materialmente, come incautamente espresso nella riflessione. Dunque il cristiano è qui, sulla terra, a lottare per edificare un Paradiso Terrestre, dove tutti si amano, dove non c’è fame né sfruttamento, dove c’è pace e benessere per tutti, dove lo spirito gregario della specie umana è elevato a valore. Ma non è questo precisamente il fine di qualunque materialista e/o ateo? Ma senza un costante, direi persino assillante riferimento al Cristo, che senso ha aiutare materialmente qualcuno? Non è un’azione meglio svolta dalla politica? Dalla protesta e dagli scioperi sindacali? In questa Chiesa, ormai, c’è un soggetto sottinteso: questo mondo, questa vita, questa realtà hanno un tale valore da essere lo scopo dell’agire cristiano. Come se la salvezza fosse quella di un mondo migliore, di un futuro più green e carico di possibilità per i nostri figli e nipoti. Un Cristianesimo allineato alle banalità dell’oggi, che ha perso il riferimento celeste, l’ammonimento della vanità della vita (resta il mero rito delle “Ceneri” a ricordarlo), che ha smarrito completamente la verticalità del suo annuncio, rifugiandosi nella superficiale animalità di una solidarietà di specie sublimata, che è pertinenza di qualunque animale gregario. Si legge durante l’anno liturgico, ma si dimentica subito: «mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10, 38-42). Attenti a quel “sola a servire”, dove Marta richiama ad un’attività volta verso gli altri. Ma la gerarchia è chiara. Niente conta su questa terra senza il riferimento a Lui.
La seconda “perla” è all’interno del foglietto e titola: “Senti la gioia di Gesù nel tuo cuore?”. In una Chiesa sempre meno capace di pensare, si tira in ballo continuamente il “cuore”, trasformando la serietà dell’annuncio di Gesù in un vago sentimentalismo irrazionale e in un’emozionalità fugace. Noi siamo chiamati “a render ragione” della speranza che è in noi: possiamo affidare questo al cuore? E se io vivo la “gioia di Gesù nel mio cuore” e il mio interlocutore vive la “gioia dell’arte o della scienza o del rifiuto di Dio nel suo cuore? che argomentazioni gli propongo per riflettere sulla sua scelta?
Ma il “meglio” (si fa per dire) viene nel breve testo: “guardare al futuro con speranza equivale anche ad avere una visione della vita carica di entusiasmo da trasmettere…Non manchi il sostegno delle comunità credenti perché il desiderio dei giovani di generare nuovi figli e figlie, come frutto della fecondità del loro amore, dà futuro a ogni società ed è questione di speranza: dipende dalla speranza e genera speranza”. Ora siamo di fronte alla manipolazione stessa della speranza. Si tratta, -lo insegnano pedissequamente, ma senza capirne il significato-, di una virtù teologale, cioè che viene da Dio e che ha le sue radici in Dio. Non certo nel desiderio di un futuro orizzontale e storico. Qui la speranza è al servizio di un’attività meramente animale: ingravidare e figliare, come in una conigliera. Come se questo fosse il futuro da sperare! La stessa speranza dell’INPS che si preoccupa di una società che invecchia e ha sempre meno nascite! Avere figli dà speranza, dà futuro! Ma quale speranza, quale futuro? Quella che prosegue la vita terrena? Che mantiene in piedi il carrozzone delle vanità e illusioni, delle manipolazioni ideologiche e delle truffe intellettuali? Ma noi cristiani dobbiamo avere “una visione della vita carica di entusiasmo da trasmettere”! Ma trasmettere non l’entusiasmo per la vita, ma quello di una vita che abbia in Dio e in Gesù il riferimento di Verità, di Bene, di Bello, non certo del semplice irrazionale melenso “cuore”. E allora l’annuncio di speranza è quello di aprire le porte al Cristo, a dare tutti un senso luminoso alla vita, non semplicemente di alimentarla con nuove nascite, come se questo fosse il fine dell’uomo, mentre invece è quello che fanno alla stessa maniera piante e animali.
Cara Vittoria non c'è dubbio che tenersi a un livello più popolare può aiutare. Ma mi chiedo, ti chiedo: 1) quando si opererà un'educazione di crescita religiosa ferma al catechismo (ammesso che sia stato fatto) e a pochi tradizionali riferimenti tra la leggenda e la storia? 2) Farsi capire per dire qualcosa che accresce la confusione sulla speranza è solo deleterio. Possibile che non ci sia una strada per far capire quello che già molti capirono ai tempi di Gesù -pescatori, prostitute, pastori, esattori, soldati non certamente intellettuali- e che si trasforma in una valorizzazione dell'intera vita, che proprio in quanto sede del Salvatore diventa tutta santa e degna di essere vissuta sino in fondo. Ma questo solo se si mantiene il legame profondo con il Redentore, perché la speranza è solo in Lui. Dimenticando questo, si fa soltanto un'opera di consolazione per aiutare a vivere sopportando meglio la vita, come se la fede fosse (critica che purtroppo è stata sempre fatta) un analgesico, una boccata di buonismo per trovare il coraggio di accettare meglio il quotidiano. Una fede così concepita che credibilità può avere? L'artrite e/o altro male, anche più grave, può essere guarito o lenito o tamponato da un qualche medicinale, dalla ricerca, dalla disperata umana rincorsa a star meglio e vivere più a lungo, ma non sta qui il senso del vivere e collegare tutto questo al dolore di Cristo che non ci lascia soli non è teoria, sempre che un prete sia in grado di tramettere con la sua testimonianza questa certezza. Significa dar senso anche alla nostra umana lotta al dolore e al male, altrimenti sarebbe anch'essa condannata a morte, l'unico esito che una vita senza trascendenza impone. E allora, che speranza sarebbe?
Ciao prof., in linea di massima condivido la tua analisi, un pò spietata e diretta come nel tuo stile, però mi viene da dire che il foglietto che viene distribuito a Messa (nella mia parrocchia non c'è manco più quello, che evidentemente ha un costo...) si propone (spero) di raggiungere più persone possibile e mantenere un filo di comunicazione con loro per poi ricordare insieme lo scopo della vita "vera", quella che avremo fuori dalla storia. E in una società come questa, che ha un degrado culturale sempre più profondo e un livello di scolarizzazione sempre più basso e qualitativamente scadente, come fai a raggiungere le persone con il tuo messaggio se non le contatti tramite temi e parole per loro comprensibili e familiari? Certo, le parole potrebbero essere più calibrate, più competenti e meno melense (oggi tutti sono condizionati dalle trasmissioni e dai social di basso livello), ma, se fai una fotografia dell'immediato, la gente questo lo capisce, i concetti più aulici no. Io, (tua alunna...), che ho studiato per tanti anni e che ho un livello medio di capacità analitica, se il prete tiene un'omelia un pò più di alto livello già lo capisco poco; poi, se a Messa mi guardo intorno, vedo che pochi seguono e capiscono il messaggio della Croce, nelle varie forme in cui viene spiegato. E allora, alla signora con l'artrite che ha passato la vita tra le stoviglie e a qualche ragazzino che ridacchia quando il prete prega in latino, come gli ricordi il senso della vita vera? Anche io critico spesso i commenti sul foglietto della Liturgia, ma non credo che se riportassero il messaggio che la speranza della vita futura non ha una relazione condizionante sul miglioramento delle condizioni terrene nei loro fondamenti universalmente riconosciuti (famiglia, figli) aiuterebbero nella comprensione del senso vero della vita terrena. Se non si collega il senso, il percorso della vita umana attuale, con quello della vita futura, non si corre il rischio di arrivare alla de-responsabilizzazione degli atti nella vita attuale? Tanto se agiamo male, la vita attuale è bestiale, non divina, che importa rispetto alla vita futura?