Il lettore non abbia timore di alcune piccole difficoltà che questo articolo può recare. Gli chiedo la pazienza di rileggerlo eventualmente e di interagire sul sito per qualunque chiarimento.
Si è ancora legati, nostalgicamente al fatto che la scienza ci possa dare una conoscenza certa e sicura della natura o di ciò che chiamiamo impropriamente “natura”.
Una tale conoscenza certa scaturirebbe dall’ingenua (ormai) convinzione che il metodo induttivo aristotelico, poi trasformato in metodo sperimentale, sia davvero in grado di passare dal particolare empirico all’universale concettuale.
Stando così le cose, lo scienziato è interpretato come il fedele custode di una conoscenza fedele al reale, riflessiva della natura (un suo riflesso), specularmente riprodotta (speculazione, actio in speculum).
Per questo motivo, «su di esso per secoli si sono arrovellati i filosofi a partire dalla dottrina aristotelica, per la quale la nozione di causa rappresenta il fondamento stesso della scienza e il suo principio di intelligibilità, al punto che conoscenza e scienza consistono nel rendersi conto delle cause e non sono nulla al di fuori di questo; attraverso la critica settecentesca di Hume sull’indimostrabilità della connessione causale necessaria, la non deducibilità dell’effetto dalla causa e l’arbitrarietà di ogni previsione; fino ai più recenti sviluppi della scienza dove i concetti di funzione e di probabilità hanno sostituito il tradizionale concetto di causazione deterministica» (Corbetta 1999, 131).
E per portare un esempio paradigmatico di quanto sia fittizia la “natura” quale riferimento unico ed unitario, si pensi ai disegni anatomici di un testo del Seicento, dove questi disegni «sono stilizzati in funzione di una corrispondenza con le teorie. Ciò che vale per i testi del Seicento vale anche per le riproduzioni presenti nei testi del Novecento dove tagli e rettifiche e freccette inserite rendono l’immagine coerente con la teoria» (Paolo Rossi 1983, 16).
Non si è ancora diffusa come dovrebbe la consapevolezza che la prospettiva culturale adottata dalla scienza dipende dalla scelta (ideologica) di una sua Lebenswelt, a sua volta dedotta del contesto socio-culturale di appartenenza ed è precisamente questa Weltanschauung che determina quali siano i problemi meritevoli di attenzione e di indagine ‘scientifica’ (Mannheim 2000, 4 ss) oltre a sollecitare le domande-ipotesi da usare nell’osservazione dei fenomeni naturali: « la scienza è sempre data all’interno di una Weltanschauung o Lebenswelt e un’epistemologia che rifiuti la (ormai insostenibile) received view deve prestare una notevole attenzione alla storia della scienza e ai fattori sociali che influenzano lo sviluppo, l’accettazione o il rifiuto delle teorie: gli interessi dei filosofi della scienza “si sovrappongono a quelli degli storici e dei sociologi della scienza”» (Paolo Rossi 1983, 10).
Ci si accontenta di una certezza relativa, ma si dovrebbe pervenire alla consapevolezza che queste confermano quale sia la portata sovra-scientifica della verità. Anche per Kuhn, in particolare, lo sviluppo scientifico, «non deve essere considerato come un’approssimazione progressiva alla verità, quanto piuttosto come un miglioramento, in senso strumentale, della conoscenza scientifica» (Gattei 2000, 330).
Non è bastato neanche il chiarimento, pur apparentemente enigmatico (enigmatico per chi è fermo al vecchio ed untuoso concetto di scienza come conoscenza obiettiva della natura) di Einstein, al quale pure riconosciamo l’attuale visione dell’universo e di cui si farà riferimento in seguito.
Non si tratta, dunque, di ascolto dell’alterità-natura che, come indicava Galileo, è un libro scritto da Dio in cifre, simboli e numeri che l’uomo deve scoprire, ma diventa, viceversa, un libro scritto solo dall’uomo con la pretesa che sia una realtà senza fondamento metafisico e, dunque, esaurentesi esclusivamente nelle strutture mentali “scientifiche” che le assegniamo. Ed è qui la truffa: contrabbandare moneta falsa, spacciare per natura l’umana visione particolare (localizzabile nel tempo e nello spazio) di essa.
La cultura dominante non ne vuole sapere di guardarsi criticamente.
Quando celebra Vico, tutto si riduce ad una sorta di pre-storicismo al quale il genio napoletano avrebbe finalmente condotto la speculazione filosofica. Ma il perché Vico avesse assunto la storia come unica possibile scienza, la scienza nuova appunto, viene colpevolmente taciuto. La sua geniale critica alla scienza che presume di conoscere ciò che è e resterà ignoto è invalicabile ed irrefutabile. Noi conosciamo i nostri modi di conoscere e la natura risponde, ma non perché è come noi la decifriamo, ma molto di più ed oltre. Non l’abbiamo creata noi e, di conseguenza, ne ignoriamo la struttura interna. Ciò che diciamo scienza è sapere la scienza, cioè conoscere gli strumenti che usiamo per umanizzare questo o quel fenomeno, ignorandone, in quel momento, infiniti altri.
La ‘matematizzazione’ della realtà naturale operata da Galileo, insospettisce oggi gran parte dei sociologi della scienza e scienziati stessi, precisamente a partire da Einstein, secondo il quale, «nella misura in cui le leggi della matematica si riferiscono alla natura non sono certe e nella misura in cui sono certe non si riferiscono alla natura» (Loose 1980, 127). Einstein aveva scritto e confermato in una lettera a Michele Besso, da Princeton, il 20 marzo 1952: «un ampio materiale fattuale è indispensabile per stabilire una teoria che abbia delle probabilità di successo. Questo materiale, però, non fornisce di per sé alcun punto di partenza per una teoria deduttiva. Non credo dunque che esista un cammino della conoscenza per induzione, perlomeno non in quanto metodo logico. Tanto più la teoria progredisce, tanto più chiaro diventa il fatto che non si possono trovare le leggi fondamentali per induzione a partire da fatti di esperienza».
Nella sua Autobiografia scientifica, del 1946, proprio nelle prime pagine, Einstein così confermava: «io distinguo da una parte la totalità delle esperienze sensibili, e dall'altra la totalità dei concetti e delle proposizioni che sono enunciati nei libri».
In un successivo articolo del 1950, Einstein avrebbe poi ribadito la forza dell'intuizione contro la diligente pedestre osservazione e catalogazione dei fatti, per cui ogni vero teorico, in fondo, dovrebbe essere «un metafisico addomesticato», cioè non metafisico schiavo dell'idea, ma che vada oltre la fisica conosciuta (meta-fisica). Così riuscirà a comprendere, e quindi a dominare, il processo materiale che muove la sua intuizione. Questa, a volte, viene da Einstein chiamata "creazione", giacché «il processo intuitivo sembra far scaturire dal nulla le soluzioni» (Einstein 1954, 176)
L’intuizione deve accompagnare una concezione dell'intero processo della conoscenza come un continuum nel quale è eliminata ogni barriera fra i diversi stadi della conoscenza, fra gli uomini di una stessa epoca e fra le diverse epoche. L’idea fu confermata da Einstein nel suo Discorso per il Sessantesimo compleanno di Planck nel 1918 davanti alla Berlin Physical Society, (cfr. Einstein 1954, 226).
La scienza cambia e non solo progredisce. Quest’ultimo aspetto inganna l’opinione pubblica, la quale crede che i cambiamenti siano dovuti ad un progresso della scienza, cioè ad una crescente capacità di avere certezze sempre più ampie sul reale. Ma non è così. Si cambiano metodi, scopi, fenomeni da descrivere, in modo da ampliare i problemi da risolvere, ma la realtà-natura resta un oggetto-altro, del quale, ci avvertirebbe Vico, non potremo mai dire nulla, giacché non è stato prodotto dall’uomo e mai saremo in grado di confrontare e verificare il nostro dire su di esso.
Anche Nils Bohr avvertiva che «perfino il concetto di osservazione in sé contiene una scelta, dal momento che essa dipende da quali oggetti sono tenuti in considerazione all’interno dell’intero sistema osservato» (Fleck 2009, 146)
Nella storia del sapere scientifico «non sussiste alcun rapporto di tipo logico-formale fra le concezioni e le loro prove: le prove si adattano alle concezioni altrettanto spesso quanto le concezioni si conformano alle prove.
Di conseguenza, è «certamente un’idea, un’ipotesi di connessione, una Gestalt, che induce a “vedere il mondo” in forma corpuscolare o ondulatoria, conflittualistica o solidaristica; che, quindi, suggerisce di “costruire” il dato A o B» (Statera 1997, 15) e il riferimento alla “forma corpuscolare” della luce o alla “forma ondulatoria” non a caso è noto che venga usata nel campo scientifico indifferentemente nell’una o nell’altra modalità, secondo le necessità e i problemi da affrontare. Ovviamente, cosa sia davvero la luce nessuno lo sa.
«Se non possiamo sapere tutto, secondo la vecchia ricetta, è semplicemente per il fatto che con il termine tutto non possiamo far molto, dal momento che con ogni nuova conoscenza compare almeno un altro nuovo problema: l’indagine su ciò che si è conosciuto come tale. Il numero dei problemi da risolvere diventa dunque infinito e il termine tutto privo di senso» (Statera 1997, 112).
Non è il numero, per quanto forte perché ampliamente condiviso, che porta alla verità. Non è, in altre parole, questione di numeri e se lo è, non si può allora superare il mero dato statistico, senza più certezze assolute, ma solo conclusioni del tipo: “è probabile, è verosimile, è possibile”, ecc.
Il rapporto di causa-effetto, spina dorsale di ogni legge scientifica, con Hume, per merito inconsapevole della sua partita a biliardo, non era tratta dalla realtà, non apparteneva ai “dati”, ai “fatti”, ma era tributario di un’abitudine mentale (custom), di una credenza mentale (beliefe), dunque di un’interferenza soggettiva, che appartiene all’osservatore e al suo milieu.
Dunque, «è di problematica individuazione quel fondamentale “principio di induzione” in assenza del quale, secondo Reichenbach, la scienza non avrebbe più il diritto di distinguere le sue teorie dalle creazioni fantastiche e arbitrarie del poeta» (Statera 1997, 14).
A mio avviso, seppure in modo ancora acerbo, questa novità fu portata dalle riflessioni e dalle conclusione di Hume, colui che, forse al di là delle sue stesse intenzioni, demolì definitivamente, prima ancora di Fleck e degli altri pionieri della nuova epistemologia, quel metodo induttivo, sperimentale che, d’origine aristotelica, aveva, tra riserve e critiche, alimentato ogni relazione conoscitiva d’impronta scientifica, un certo tipo di linguaggio-riflesso della realtà e, soprattutto, la convinzione-pretesa di giungere a ricostruire per concetti, fedelmente, quanto si fosse nella realtà osservato e sperimentato. Può anche dolere dirlo, ma credo sia salutare, che l’esito scettico prospettato dal filosofo scozzese resti invalicabile: non si può dall’esteso quantitativo pervenire all’universale qualitativo.
Dunque « nelle scienze naturali le teorie non sono modelli confrontati dall’esterno con la natura in uno schema ipotetico-deduttivo: sono i modi in cui i fatti stessi sono visti» (Paolo Rossi 1983, 11). La stessa terminologia filosofica che ha nutrito (e in taluni casi ancor oggi nutre) la metodologia scientifica, quali “speculazione”, “riflessione” ed altri termini di questa natura, partono dall’ottimistica ingenua convinzione della corrispondenza tra mondo reale e mondo ideale (specchio, appunto, riflesso, ecc.), secondo un auspicio titanico che è quello di voler ricostruire in concetti quanto i “dati”, ancora una volta, hanno fornito. Si tratta di una pretesa astratta, disincarnata, illusoria, priva di qualunque senso e fondamento che, finalmente, è stata smascherata.
«Ogni scoperta è in tal modo indissolubilmente connessa ad un “misconoscimento”, a un non-vedere, a un negare alcune relazioni in favore di altre. Del silenzio su una eccezione sono un tipico esempio i moti di Mercurio dei quali si tace nell’ambito della cosmologia newtoniana. e si parla abbondantemente dopo la formulazione della teoria della relatività» (Paolo Rossi 1983, 16).
Si tratta di una metodologia che si è conservata, fra riserve e critiche, per almeno due millenni, sino alla già ricordata intuizione di Hume che il nesso di causa-effetto è semplicemente il prodotto del custom o della beliefe. In senso lato, traducendo custom e beliefe secondo una prospettiva più vicina a noi, essi sono concetti che esprimono quanto emerge della contestualità storico-sociale e culturale dell’osservatore e/o dello scienziato.
Con un ritardo di un paio di secoli da Hume, la scienza è poi giunta, finalmente, a queste conclusioni probabilistiche di cui ho fatto cenno. Ma ci è voluta la meccanica quantistica a fornire un paradigma diverso e lontano dal consueto sin lì creduto. Infatti, secondo questa ipotesi, «ci sono dei processi nella fisica elementare –i cosiddetti salti quantici (quantum jumps)- che non sono analizzabili secondo i tradizionali meccanismi causali, in quanto si tratta di fatti assolutamente imprevedibili governati da leggi probabilistiche: per esempio la disintegrazione di un atomo, con le conseguenti emissioni radioattive, in determinate circostanze è un effetto non prevedibile in maniera certa, per quanto grande sia la nostra conoscenza di tutti i fattori rilevanti che prevedono l’evento.
Esso è prevedibile solo in maniera probabilistica. Viene in questo modo meno la certezza della legge, tramonta l’ideale classico della scienza come sistema compiuto di verità necessarie» (Corbetta 1999, 29-30).
Dopo le intuizioni di Hume, dunque, si procede per induzione-deduzione, adoperando gli assiomi esistenti (la conoscenza consolidata) e passando verso assiomi più “interessanti” ed ampli che confermano e nello stesso tempo negano i precedenti. Come bene sintetizza Corbetta, «malgrado l’appartenenza del concetto di causa all’idea stessa di scienza, esso sembra uno dei più controversi sul piano filosofico e uno dei più difficile da tradurre in termini operativi» (Corbetta 1999, 131). E’ un fatto ritenuto ormai evidente che «sul piano empirico non potremo mai arrivare a poter “provare” in maniera definitiva l’esistenza di una legge causale» (Corbetta 1999, 132).
Il suo significato è solo teorico: avanzando, infatti, l’ipotesi di nessi causali si opera una scelta su cosa osservare, la prospettiva che si vuole avere sull’oggetto osservato in relazione ad uno scopo gnoseologico che guida quella scelta. «Neppure nella situazione più “oggettivamente scientifica” della fisica, il ricercatore è in grado di risolvere il problema fondamentale dell’inferenza causale. E’ questo il motivo di fondo per il quale non esiste possibilità di controllo empirico di un’inferenza causale» (Corbetta 1999, 140).
Ogni teoria "che funziona" è utile, quindi l'uomo l'adopera, indipendentemente dal fatto che sia ‘provata’ con certezza. Per questo Beck parla di “fallibilismo nella teoria della scienza” e di “fallibilismo nella prassi della ricerca” (Beck 2001, 232-234). Come nota ancora Fleck, «dovunque ed in qualunque momento entriamo in contatto con qualcosa, siamo sempre nel bel mezzo e mai all’inizio della conoscenza. Di conseguenza, non riesco proprio a vedere come si possa sviluppare un’epistemologia che usi le sensazioni come mattoni di costruzione» (Fleck 1983, 34)
E allora, dove tracciare «una linea di divisione netta tra scienza e pseudoscienza, basandosi sul criterio di “controllabilità” tramite osservazione o esperimento» (Benton & Craib 2010, 18). Un’affermazione, ad esempio, come “tutti i cigni sono bianchi”, è affermazione «confermata da ogni osservazione di un cigno bianco, e parimenti smentita da qualunque singola osservazione di un cigno non-bianco» (Benton & Craib 2010, 18).
E certamente, più sono i cigni osservati senza incontrarne uno non-bianco, più il ricercatore può essere fiducioso del fatto che l’affermazione universale è vera: ciascuna osservazione successiva tenderà a rafforzare la fiducia e sarà considerata una conferma» (Benton & Craib 2010, 18). Ma quale valore dare a questa fiducia? Come affidare al caso, all’accidentalità di esperienze private quelle affermazioni? Non ha importanza quanti siano «gli esempi di conferma, essi restano sempre una parte infinitamente piccola della serie infinitamente grande di osservazioni possibili implicate da un’affermazione universale» (Benton & Craib 2010, 21).
A tal proposito, Paolo Rossi ricorda le posizioni di Kuhn, secondo il quale la scienza non è «la totalità delle proposizioni vere, né è governata dagli immutabili principi della metodologia logico-empirica.
La prassi della scienza non è guidata da canoni metodologici eterni e astorici, ma da paradigmi o esempi di effettiva prassi scientifica riconosciuti come validi e quindi non ulteriormente analizzati, i quali comprendono leggi teorie applicazioni strumenti» (Fleck 1983, 13-14). E ognuno vede ed osserva in base a quanto conosce: «per vedere bisogna prima conoscere, poi arrivare a possedere il knowhow» (Statera 1997, 136). Ad esempio, «gli uccelli praticano il corteggiamento, fanno il nido e depongono le uova. Le teorie sulla loro costituzione genetica possono svolgere un ruolo nelle nostre spiegazioni del modo in cui e perché lo fanno, ma non sono i geni a corteggiare, a realizzare il nido o ad accoppiarsi. Nessun approfondito studio del patrimonio genetico di un uccello potrebbe far comprendere cosa significhi costruire un nido o deporre un uovo, a meno che non lo sappiate già» (Benton & Craib 2010, 44). Già l’opera dello storico popperiano dell’arte Ernst Gombrich Art and illusion argomentava contro il naturalismo ingenuo con tesi che sarebbero state riprese poi da Hanson. Gombrich che si riferisce a quanto Popper aveva affermato sullo specifico di questo problema, e cioè «che non dovremmo considerare la scienza come un tentativo di stabilire la veridicità delle leggi, poiché questo non è possibile.
Benton e Craib (2010, 16) ricordano i punti che hanno caratterizzato (e per qualcuno caratterizzano ancora) la scienza tradizionale e che hanno rappresentato per il Wiener Kreis il riferimento paradigmatico.
Questi pregiudizi, che si conservano ancor oggi, sono sette e li riporto con l’aggiunta, in taluni casi, di un mio commento:
1) la mente umana di ogni individuo è, all’inizio, tabula rasa, per cui la conoscenza viene acquisita mediante l’esperienza sensoriale dei fenomeni della natura: si tratta del metodo induttivo, sperimentale, ideato da Aristotele e completato nei secoli, sino a Hume. Quest’ultimo lo avrebbe messo radicalmente in crisi.
2) Qualunque pretesa di autentica conoscenza è controllabile attraverso osservazione ed esperimento, cioè, ancora una volta con l’esperienza (si noti, dunque, come essa sia già metodo di conoscenza e, nel contempo, suo criterio di verifica). L’ingenuità di fondo è che si possa attingere il dato empirico nella sua purezza fattuale, senza sovrapposizioni extraempiriche.
3) In base al secondo punto si esclude, di conseguenza, da ogni prospettiva scientifica, ciò che non è empiricamente osservabile e sperimentabile;
4) le leggi scientifiche sono affermazioni su pattern dell’esperienza generali e ricorrenti.
5) Spiegare scientificamente un fenomeno significa dunque dimostrare che esso è all’interno di una legge scientifica, che ne avalla la legittimità;
6) in base alla “tesi della simmetria della spiegazione e della previsione” una spiegazione scientifica avallata dalla particolare teoria in questione, renderà possibile prevedere, si dice “logicamente”, ampliare le “scoperte” di leggi più ampie riguardanti fenomeni dello stesso tipo. Va qui chiarito che questo principio, pur decisivo nella concezione empirista, non è applicabile all’evoluzionismo darwiniano, giacché tale teoria «non conduce a nessuna previsione specifica sulla formazione di una qualunque specie particolare né delle sue caratteristiche. […]. I processi di mutamento e ricombinazione genetici che danno origine a queste varianti non sono spiegati nella teoria, che si basa semplicemente sull’assunto che avvengano in modo casuale e derivino da una qualche funzione adattiva che fortuitamente possiedono»(Benton & Craib 2010, 45-46).
7) Quella che viene definita “oggettività scientifica” si basa sulla netta distinzione tra asserti fattuali (controllabili) e giudizi di valore (soggettivi).
Una teoria scientifica s’impone come legge in senso traslato, è cioè comunemente usata per la soluzione dei problemi che le competono.
Quando si scorgono, si vivono, si pongono problemi che la teoria non riesce più a risolvere o a tradurre in soluzioni utilizzabili, nascono nuove attese di correzioni o di ulteriori teorie.
La scienza si configura, di conseguenza, come un’impresa sociale che è fondata su un consenso organizzato: «i criteri di razionalità sono storicamente variabili, la considerazione dell’impresa scientifica risulta da un intreccio di metodi attinti all’epistemologia, alla sociologia, alla antropologia; è possibile guardare al processo storico della scienza in termini evoluzionistico-darwiniani, come un progresso (non finalisticamente orientato) dal meno complesso e differenziato al più complesso e differenziato» (Paolo Rossi 1983, 20). Come ricordato, già per Einstein «l’oggetto della scienza era di coordinare i nostri esperimenti e di immetterli in un sistema logico» (Wolpert 2006, 14).
È dunque nella struttura stessa della cosiddetta “scoperta” scientifica ad essere eliminato lo stupore, visto che la realtà è selezionata e solo alcuni fenomeni sono eletti come degni di fungere da prova alle proprie ipotesi/teorie, quasi a conferma ridondante di quanto è già presente in mente del ricercatore. Così, «la scienza-spettacolo incrocia e rende visibili due spinte complementari che plasmano lo scientismo contemporaneo. [...] una ... è la tendenza della scienza a incorporare linguaggi, stilemi e cadenze proprie dell’arena mass-mediale –peraltro un elemento cardine di quella società a cui, tradizionalmente, lo scientismo contrappone la scienza. L’altra spinta riflette l’utilizzo, ormai estensivo e indiscriminato nella società contemporanea, di immagini, concetti, argomentazioni e linguaggi che si richiamano a quelli della scienza, come risorsa per sostenere o legittimare le più disparate posizioni nei più disparati ambiti della vita sociale, dal business alla politica, dalla comunicazione pubblicitaria alla fiction, fino a coinvolgere perfino le associazioni e i movimenti ambientalisti» (Bucchi 2010, 33). Serpeggia, ancora, fra i non addetti ai lavori, -il pubblico e la cultura dominante-, ma anche fra alcuni addetti ai lavori poco critici o scarsamente preparati sul piano teoretico e metodologico (non faccio nomi in quanto persone famosissime che in più di un’occasione hanno dimostrato scarsa consuetudine con una riflessione anche poco filosofica...) serpeggia, dicevo, la convinzione di essere i custodi del certo e del vero (ovviamente confusi tra loro), precisamente in base all’idea che le leggi proposte dallo scienziato altro non siano che quanto scaturisce “oggettivamente” dall’esperienza da lui fatta e ripetuta (e ripetibile) dei fenomeni naturali. Umberto Eco cita a questo proposito, costruendo l’equivalenza “scientismo=negazione di Dio”, una frase di Chesterton: «quando gli uomini non credono più in Dio non è che non credano più a nulla. Credono a tutto» (Eco 2000, 3). Quella che non viene mai messa in discussione è la strategia discorsiva ‘scientista’ in quanto tale. Basti pensare ai «ripetuti appelli e manifesti in cui lodevolmente si invita ad abbandonare ogni pregiudizio razzista in quanto ‘scientificamente infondato!» (Bucchi 2010 , 37).
Un esempio eclatante, poi, ce lo fornisce Marrone a proposito delle nozioni divulgate e divulgative relative al cervello: «nelle divulgazioni vediamo la stilizzazione di qualcosa che dovrebbe essere un encefalo, una serie di nuvolette grigiastre, con alcune parti messe in evidenza, spesso di colore scarlatto. E ci viene spiegato come queste porzioni colorate si ‘attivino’ proprio quando il proprietario di quel cervello sta facendo determinate cose, pensando a certe altre, provando alcune emozioni o simili. Da qui la conclusione presentata come legge scientifica, secondo la quale a un certo specifico stato mentale corrisponde una determinata zona cerebrale» (Marrone 2011, 36).
Ma il problema «è che questa corrispondenza fra una qualche mente in azione e la sua presunta base neuronale non solo non è per nulla certa, ma soprattutto è mediata da una serie molto lunga e molto complessa di fattori che la rende altamente problematica» (Marrone 2011, 36). Basti pensare semplicemente al fatto che al fondo di questa comunicazione divulgativa c’è una scelta che trascina secoli di dispute: che cioè, riguardo al cervello, «l’esito di quest’invenzione della Natura è una sorta di casualismo naïf secondo il quale i comportamenti umani e sociali sarebbero la conseguenza di funzionamenti cerebrali, opera della Natura e non della società, dell’uomo come essere naturale e non culturale. La società, nella sua molteplicità, è apparenza, poiché alla base di tutto ci sono i funzionamenti biologici, le cosiddette basi neuronali” (Marrone 2011, 40). Una presentazione che vorrebbe essere scientifica e che nasconde una precisa scelta ideologica.
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