A lungo ho riflettuto sull’opportunità o meno di scrivere qualche pensiero su una situazione che continua a segnare prediche e insegnamenti del clero da qualunque occasione e in qualsiasi modo siano stati fatti e continuano a generarsi. Ciò che connota questa condizione, mi pare sia la superficialità con la quale, nella formazione dei sacerdoti, vengono trattati e divulgati taluni argomenti, capaci però di generare confusione presso i fedeli e, in eventi soprattutto luttuosi, domande ovviamente senza risposta, che confermano l’incapacità di essere luce e orientamento per i credenti, lasciandoli in una solitudine tragica che invece non dovrebbero avere.
Inoltre, viene spacciata come Provvidenza una concezione neopagana, con radici stoiche, che stride con una ovvia conseguente serie d’interrogativi da farci chiedere come sia possibile che il clero non si sia mai posto il problema, affrontandolo e chiarendolo alla comunità.
Va da sé che le motivazioni che mi hanno spinto a queste riflessioni le ritengo di vitale importanza perché l’annuncio del Cristo non venga confuso con velleità edoniste ed eudemoniste temporali e immanenti.
Chi sono io per pretendere di far questo?
Nessuno.
Non sono altro che un fedele pensante, con decenni di testimonianza sul campo e che non accetta di allinearsi con facili consensi e direttive “spirituali” di scarsa qualità intellettiva e inesistente approfondimento.
Andiamo con ordine.
La confusione di fondo è su diversi livelli, tra loro logicamente connessi:
1. generazione e creazione;
2. causa e fondamento;
3. fatalità e Provvidenza;
4. filantropia e carità;
5. consenso e universalità;
6. legalità e morale.
Questi punti si legano a “effetto domino” fornendo una prospettiva distorta del Cristianesimo, al punto che l’annuncio del Cristo e l’azione della Chiesa sono ormai diventati, per la ricezione comune più immediata, quasi sinonimi di dolore, penitenza, rassegnazione, passività, buonismo, irrazionalità, creduloneria antiscientifica, laddove il messaggio evangelico è gioia, speranza, vittoria sulla morte e il dolore, umanità realizzata, candore e astuzia. E ogni volta va ricordato il monito di Cristo:
Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere[1].
L’Incarnazione ha unito sacro e profano annullandone la distanza. Questa unità raggiunta mediante il Cristo, nel corso del tempo, si è secolarizzata in forma acritica. Così la realtà che si vive diventa di per sé sacra e tutto ciò che vi accade è importante tanto da risultare lo scopo, l’obiettivo principale, la ragion d’essere della vita stessa. Insomma, il senso della vita è vivere nel miglior modo possibile, dove dietro quel “miglior modo possibile”, ognuno può introdurvi a piacimento i propri interessi particolari: salute, successo, piacere, benessere psicofisico, convivenza pacifica, rincorsa dei propri effettivi o presunti diritti, ecc.
Il problema è che la Chiesa ha dimenticato che senza il Redentore, la natura e la storia sono sotto il velo del peccato, il peccato originale. Di questo, non se ne parla mai, quasi fosse un’abitudinaria favoletta da dover credere. Invece, se ne parla in relazione con il Battesimo e questo sacramento è chiarissimo e dovrebbe far riflettere. E se il peccato originale non è preso sul serio sul piano teoretico almeno (e della sua ragionevolezza basterebbe il riferimento al mito della biga alata di Platone), non può essere preso sul serio neanche il Battesimo.
Se con il Battesimo si rinasce a vita nuova, se in Cristo riceviamo una nuova vita, tutto questo che significa? E mantenendo in piedi ancora la domanda, andiamo un attimo al Credo, alla sintesi della nostra fede, dove di Gesù si dice che è stato “generato non creato”. E ancora: perché nell’Epistola agli Ebrei si legge che Dio ha fatto Gesù di poco inferiore agli angeli?
Tutto questo ha un preciso riferimento esplicativo: il piano della generazione è il piano del limite, del visibile, del corruttibile, che gli angeli non hanno, che la vita data dal Battesimo non ha, perché non è la vita secondo la generazione, ma secondo la creazione. Per questo motivo il nome dei battezzati è finalmente “scritto sul Libro della Vita”.
Ma ci si può e ci si deve chiedere: e la vita biologica? La vita naturale e storica?
Non ha alcun valore senza la Redenzione.
E quando il clero assimila la vita a qualcosa di significativo senza fare riferimento al Salvatore, non fa che sposare i tanti idoli umani che disperatamente creiamo per illuderci di avere un po’ di appagamento o benessere o felicità su questa terra.
Con il Battesimo il Cristianesimo non è estraneo o diverso dai comportamenti che hanno avuto e hanno tutte le popolazioni, al di là della loro particolare fede. I riti di passaggio, infatti, sono ufficialmente catalogati come “riti autonomi”, cioè non collegati ad alcun culto. Essi risultano essere universali, e segnano la differenza fra l’uomo e l’animale, dando vita e inizio alla cultura. Così, ad esempio, un bambino che non passasse attraverso il rito e morisse prima, è come se non fosse mai nato. La “vera” vita gliela dà il rito; senza di esso l’esistenza naturale che possiede per via di generazione è considerata talmente priva di senso (è, infatti, inesorabilmente, condannata a morte, cioè al nulla) da indurre il gruppo sociale a gettar via il corpo del neonato. Questi popoli, proprio in quanto gruppi umani, hanno con questi riti universalmente diffusi, evidenziato e dimostrato che la natura non ha significato, che va superata, inverata, redenta, sostituita e il rito, che riattualizza i miti fondativi (che sono narrazioni sacre) apre ad un’altra vita, la “vera” vita, quella che, avendo radici non naturali (che dunque sono “sovrannaturali”) non è destinata alla sofferenza, alla caducità, alla consumazione e alla morte.
Il Battesimo compie tutto questo in modo mirabile, perché il mito, cioè il “sacro che si racconta, che si narra, che narra se stesso” e che fonda il rito, che fa nascere la cultura quale risposta alternativa alla natura, viene sostituito dal Verbum dalla Parola (il mito appartiene alla tradizione orale!) da Colui che salva e fonda la vera vita, quella della creazione, una vita che Gesù, Via Verità e Vita, apre e propone all’interno della generazione. Gesù, infatti, è generato, ma non creato.
Ogni pericolo d’idolatria è superato e sostituito dal Dio incarnato. Con Cristo è l’Assoluto che si fa storia, che si fa carne, non, come per tutte le ideologie e religioni, il prodotto storico umano che si fa assoluto.
Il piano della generazione è il profano che soltanto il Cristo ha redento, proponendosi come Vita, Via alla Verità all’interno delle tante vite e vie e opinioni della storia, tutte condannate a morte. Lui, «per mezzo di lui tutte le cose sono state create», dopo il peccato originale, con la Sua Incarnazione ripristina il progetto della creazione, decidendo di far parte della dimensione della generazione (generato non creato, appunto). Ma nelle prediche, negli interventi pontifici, la natura e la storia vengono assunte come importanti e significative, tacendo che lo sono soltanto ed esclusivamente per mezzo e in virtù della Redenzione del Cristo. E così nasce la confusione. Non si riesce più a capire dove sia lo specifico cristiano rispetto alle secolarizzate e laiciste difese della vita umana, naturale e animale, del destino del pianeta, della pace e della convivenza pacifica, della solidarietà gregaria di specie e così via. Se lo scopo è davvero questo, perché essere cristiani, quando si può essere liberi da dogmi e direttive e scelte di vita ortodosse e vivere e lottare e cercare di raggiungere il medesimo scopo? Tutto è confuso e ci si chiede perché mai diventare cristiani quando posso farmi forte della scienza, delle masse demagogicamente istruite, di riferimenti concreti e storici? Perché mai farmi o essere cristiano quando il rispetto per il prossimo è realizzato anche da organizzazioni di volontariato laico, sindacale, partitico, anche atee? Quale motivo dovrei avere per pregare e credere in Cristo quando queste realtà problematiche storico-esistenziali che lo stesso clero vuole affrontare e valorizzare acriticamente, possono benissimo essere indagate e risolte con metodi molto più attendibili e concreti e verificabili e razionali?
Che significa, come ho potuto sentire oggi, che amare il prossimo e amare Dio sono la stessa cosa? Ma perché il prossimo è Dio? E non posso amare il prossimo senza Dio? Per quale motivo dovrei credere in questo pesante orpello in più? Perché pormi il problema di una fede di cui posso fare a meno pur raggiungendo lo stesso scopo tanto predicato dal clero? Il clero si è talmente secolarizzato che spaccia per valore la vita, la storia, la natura omettendo colpevolmente ogni volta Chi ha dato verità e senso alla vita, alla storia e alla natura. Senza questo chiarimento le due voci, ateo-laiciste e clerico-confessionali dicono la medesima cosa, alludono agli stessi valori, indicano i medesimi comportamenti. Un’equivalenza che è caos e che toglie ogni specificità cristiana, anzi, mettendo le due voci sullo stesso piano (che è poi quello laicista e ateo o, in ogni caso, immanentista) evidenzia la pochezza concreta e fattuale del Cristianesimo che sul campo dell’operare materiale non può che avere la peggio, con il suo untuoso buonismo senza basi razionali.
I due comandamenti che Gesù indica al dottore della Legge che Lo interroga, avrebbero dovuto far capire che, l’amore per il prossimo, già presente negli insegnamenti religiosi dell’Ebraismo, non aveva più basi storiche e giuridiche, quelle della Legge, ma sovrannaturali, trascendenti, assolute.
Chi ama secondo la mera linea della generazione, in nome di essa può anche odiare, perché la loro comune base storica è, per definizione, relativa e, dunque, perché amore e odio sono sentimenti che possono appartenere ed essere giustificati entrambi sul piano orizzontale, realtà tutte e due possibili nell’immanenza. Ma l’amore cristiano che ha le sue radici nel sovrannaturale non può avere l’equivalente nell’odio. Questo non può avere radici trascendenti. Dunque, avendo l’assoluto come riferimento, l’odio non può esistere, esiste solo l’amore, in quanto assoluto, avendo basi non storiche o naturali. Ecco perché l’amore indicato da Gesù è sovrannaturale, non naturale, avendo il suo fondamento in Dio. Per questo è assoluto. Esso esiste indipendentemente dalle nostre ridotte capacità di amare. Il profano, il piano della generazione non è sacro di per sé: confusione deleteria, spiritualmente letale. Se il clero non ripristina questa differenza sarà strumento inconsapevole di espansione del caos già presente, della costante secolarizzazione dei nostri tempi, causa diretta dello svuotamento delle chiese e dello sradicamento della testimonianza di fede.
La paura derivante dal decrescere di fedeli e praticanti, lo svuotamento delle chiese, la diminuzione degli introiti dell’8 per mille, ha da tempo spinto la gerarchia e il clero nella sua gran parte, -senza neanche consapevolezza-, a cercare consensi e compromessi dietro la facciata della misericordia, dell’apertura al dialogo, dell’ascolto, della compassione, di una “chiesa in uscita”. Ovviamente non mancano mai, in questi casi, “intellettuali” cattolici o moderati, militanti secondo le occasioni, pronti a sposare “il fatto compiuto”, a diventare “usignoli dell’imperatore”, quei filistei della cultura così bene denunciati da Nietzsche, buoni per tutte le stagioni, purché ogni volta ben saldi in sella sul cavallo di volta in volta maggioritario.
Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo, poi hanno assunto rilievo diverse dottrine che tendono a svalutare persino quelle verità che l’uomo era cercato di aver raggiunte. La legittima pluralità di posizioni ha ceduto il posto ad un indifferenziato pluralismo, fondato sull’assunto che tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno dei sintomi più diffusi della sfiducia nella verità che è dato verificare nel contesto contemporaneo. [...] alcune concezioni di vita che provengono dall’Oriente; in esse, infatti si nega alla verità il suo carattere esclusivo, partendo dal presupposto che essa si manifesta in modo uguale in dottrine diverse, persino contraddittorie tra di loro. In questo orizzonte, tutto è ridotto a opinione.[2]
Il Cristianesimo cattolico da universale come dovrebbe essere nel suo specifico, è diventato un’ideologia che cerca consensi, applausi, aperture dottrinarie acrobatiche e letali, l’adesione dei media e sostegni politici neanche troppo nascosti, diventando in tal modo “una parte” tra le tante, insomma, un “partito”, un’ideologia, tutta tesa a cercare di garantire beni terreni, una sorta di Eden terrestre, crocifiggendo nuovamente Gesù per scegliere Barabba e il suo modello di liberazione.
Ci si ritiene in grado di distruggere, come nel caso del Cristianesimo, millenni di martirio e testimonianza della Verità della Tradizione, di dimenticare il Mistero unico ed incomparabile della Incarnazione, per piegare il messaggio cristiano alle esigenze dell’oggi, come se queste fossero giuste e dovessero costituire il riferimento veritativo della testimonianza cristiana.
[1] Mt 7, 15-20.
[2] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Fides et Ratio, 14.9.1998, p. 5.