Buongiorno Professore.
Ho iniziato a leggere da poco un saggio di Del Noce su Rousseau e Rosmini. Mi sembra di capire, da queste prime pagine, che Rosmini sia stato tacciato di spingersi un po' troppo in questioni politiche, abbandonando talvolta il piano teologico e filosofico che sarebbe stato più di sua pertinenza. È davvero avvenuto questo, o sono stati i suoi detrattori a non aver compreso fino in fondo il suo pensiero?
Grazie!
Preso (non potevo accontentarmi di leggerlo in biblioteca, ovvio)!
Buongiorno dottor Foti. Ho letto solo ieri la sua domanda perché, per motivi di salute (normali malanni di stagione) ho dovuto sospendere le mie attività. La risposta che lei richiede è complessa, soprattutto perché è collegata a un presupposto che sembrerebbe lontano da ciò che mi chiede, ma che, invece, è fondamentale chiarire. Parto, dunque, da lontano. Dal motto paolino secondo il quale omnis potestas a Deo (Rm 13, 1). Un motto che Agostino avrebbe poi ribadito e che Rosmini ha fatto suo. E qui nasce la prima e decisiva confusione. Né Paolo, né Agostino, né Rosmini intendevano automaticamente avallare ogni autorità in quanto voluta da Dio, ma avallavano quell’autorità che, basandosi sulla verità e non sulla sopraffazione, diventa giusta nel suo operare ed è buona agli occhi di Dio. Ma la nefanda influenza dello stoicismo, da secoli, confonde le acque sino a giungere ai nostri giorni. Così la superiorità di Dio sulla morte o sul male viene confusa con il Suo esserne la causa e allora se muore un giovane si deve sentire il prete di turno che dice “Signore che hai voluto chiamare a te questo ragazzo” o altre sciocchezze del genere. Il Dio della vita si trasforma nel Dio che misteriosamente (“bisogna accettare i misteriosi disegni di Dio”) toglierebbe la vita a un giovane o a un benefattore, mantenendo in vita un delinquente di qualunque tipo. E ci viene riempita la testa con affermazioni-slogan come “non possiamo conoscere i disegni di Dio” oppure “la nostra logica non è quella di Dio”, ecc. E allora, in base a queste premesse errate, davanti a certe dittature sanguinarie del Novecento ci si è chiesto: perché hai permesso questo? Queste apparentemente profonde domande, nascondono un’ignoranza e accidia intellettuale che la Chiesa degli ultimi decenni non si è mai preoccupata di chiarire, sino a cambiare il Padre Nostro, perché essa stessa non in grado di capire, in base ai presupposti (stoici, mascherati di cristianesimo) che “non c’indurre in tentazione” non significa che le tentazioni vengano da Lui! La superiorità sul male, come detto, non significa esserne la causa. Se tutto ciò che accadesse fosse volontà di Dio, quale sarebbe stato il bisogno di redimerla? Che necessità ci sarebbe stata di un Redentore, di un Salvatore? Ma è stato lo stoicismo a far passare il fato per provvidenza: tutto ciò che accade è giusto che accada ed è per questo che è accaduto e dunque va accettato. Se a Rosmini poteva esser chiaro questo concetto, già nei suoi interpreti questo aspetto è caduto nella trappola stoica. A Rosmini interessava la politica come promozione del bene comune, cioè della persona. Non si può tralasciare il riferimento invasivo della politica napoleonica e postnapoleonica che aveva espulso la Chiesa cattolica dalla vita politica (Rosmini avrebbe seguito papa Pio IX a Gaeta quando fu proclamata la Repubblica romana”) e che ghettizzava la presenza cristiana nella vita civile, così come, filosoficamente non può essere dimenticata la concezione di Hegel dello Stato, visto come l’Assoluto in terra. Rosmini era fondamentalmente un asceta, quasi costretto a far parte della dialettica politica, persino per richieste istituzionali, come quelle avute dal re di Sardegna. Chiamato in causa quasi suo malgrado sul terreno del confronto politico ha voluto delinearsi come “cristiano liberale”, un liberalismo inteso soprattutto come difesa della persona (personalismo liberale). Rosmini si è spinto troppo oltre? È stato rigoroso critico di ogni pretestuoso perfettismo politico e questo, a mio avviso, già rappresenta un autolimitarsi e autolimitare che ridimensionerebbe un eventuale giudizio di una esagerata attività politica: nessuna opzione politica può ambire a quel Giusto, Vero e Buono che pretenderebbe di raggiungere. Non conosco il testo di Del Noce a cui lei allude nella sua domanda. Ma il 26 agosto 1982 alla XVI° Cattedra Rosmini lo ascoltai di persona e in quella sede ricordava come per il Roveretano il fine dello Stato fosse il bene, per cui, a suo avviso, Rosmini non poneva differenze tra politica e morale, tra società visibile e società invisibile, tra esteriore ed interiore, come se l’una fosse la rappresentazione dell’altra. Se dunque si deve esprimere un giudizio, in piena coscienza, quello che mi pare corretto affermare è che la visione politica di Rosmini risenta forse anche troppo delle vicende storiche del suo tempo e che un cristiano di oggi può prenderlo politicamente come riferimento nella consapevolezza che la politica, pur avendo machiavellicamente ben altra identità dalla morale, va sempre giudicata in nome del bene che è la persona, dunque di un ente metafisicamente fondato. L’ottimismo rosminiano resta una luce lontana.
Nel salutarla mi permetto di indicarle un mio lavoro in due volumi, che può reperire anche nella biblioteca della PUL, intitolato “Hegel e Rosmini”, dove, fra i tanti argomenti, affronto anche il tema politico nel pensiero del Roveretano. La saluto caramente.
Roberto Rossi