Anche la scienza, malgrado quello che si crede, non parte dal nulla riempiendosi di esperienze per arrivare ad una scoperta o nuova conoscenza. Anch’essa, riconoscendo la mancanza di qualcosa, parte da una possibilità ideale (ipotesi, teoria, ecc.) per poi selezionare i dati empirici e cercare di confermare quella possibilità ideale dalla quale si è avviata la sperimentazione. i fatti devono confermare l'idea, non forniscono l'idea. C’è, invece, ancora una diffusa credenza nella oggettività indiscutibile della scienza e nella sua capacità di dirci come stanno le cose. Già Einstein aveva scritto: «non credo che esista un cammino della conoscenza per induzione, perlomeno non in quanto metodo logico. Tanto più la teoria progredisce, tanto più chiaro diventa il fatto che non si possono trovare le leggi fondamentali per induzione a partire da fatti di esperienza»[1]. Per Einstein, dunque, oggetto della scienza è quello di ordinare tra loro gli esprimenti secondo un sistema logico[2]. Ogni teoria "che funziona" è utile, quindi l'uomo l'adopera, indipendentemente dal fatto che sia ‘provata’ con certezza. Per questo Beck parla di “fallibilismo nella teoria della scienza” e di “fallibilismo nella prassi della ricerca”[3]: «dovunque ed in qualunque momento entriamo in contatto con qualcosa, siamo sempre nel bel mezzo e mai all’inizio della conoscenza. Di conseguenza, non riesco proprio a vedere come si possa sviluppare un’epistemologia che usi le sensazioni come mattoni di costruzione»[4]. La realtà è selezionata e solo alcuni fenomeni sono eletti come degni di fungere da prova alle proprie ipotesi/teorie, quasi a conferma ridondante di quanto è già presente in mente del ricercatore. A mio avviso, seppure in modo ancora acerbo, questa novità fu portata dalle riflessioni e dalle conclusione di Hume, colui che, forse al di là delle sue stesse intenzioni, demolì definitivamente, prima ancora di Fleck[6] e degli altri pionieri della nuova epistemologia, quel metodo induttivo, sperimentale che, d’origine aristotelica, aveva, tra riserve e critiche, alimentato ogni relazione conoscitiva d’impronta scientifica, un certo tipo di linguaggio-riflesso della realtà e, soprattutto, la convinzione-pretesa di giungere a ricostruire per concetti, fedelmente, quanto si fosse nella realtà osservato e sperimentato. Può anche dolere dirlo, ma credo sia salutare, che l’esito scettico prospettato dal filosofo scozzese è invalicabile: non si può dall’esteso quantitativo pervenire all’universale qualitativo. Insomma: non è il numero, per quanto forte perché ampliamente condiviso, che porta alla verità. Non è, in altre parole, questione di numeri e se lo è, non si può allora superare il mero dato statistico, senza più certezze assolute, ma solo conclusioni del tipo: “è probabile, è verosimile, è possibile”, ecc. Il rapporto di causa-effetto, spina dorsale di ogni legge scientifica, con Hume, per merito inconsapevole della sua partita a biliardo, non era tratta dalla realtà, non apparteneva ai “dati”, ai “fatti”, ma era tributario di un’abitudine mentale (custom), di una credenza mentale (beliefe), dunque di un’interferenza soggettiva, che appartiene all’osservatore e al suo milieu. Dunque, «è di problematica individuazione quel fondamentale “principio di induzione” in assenza del quale, secondo Reichenbach, la scienza non avrebbe più il diritto di distinguere le sue teorie dalle creazioni fantastiche e arbitrarie del poeta»[7]. Creazioni fantastiche ed arbitrarie, però, per entrambe le “discipline”, poesia e scienza, che sanno interpretare la propria radice culturale. Nel caso della poesia si vuole dare un’interpretazione del reale all’interno di un registro simbolico non-funzionale, non votato all’utilizzazione e alla praxis. Si cerca l’evocazione di un coinvolgimento emotivo, emozionale, non prassico e le conclusioni della scienza sono “fredde”, prive di vita ed insensibili. Nel caso della scienza, prevalendo l’intervento funzionale nel reale, si privilegerà un certo tipo di linguaggio ed una struttura logica, che possa dare autorevolezza e credibilità alla teoria creata e proposta e agli stessi fatti che, piegati ed orientati alla dimostrazione, vengono mostrati per sorreggerla. Per questo motivo «possiamo imparare dall’esperienza che toccare un pezzo di legno che brucia causa dolore, ma il concetto stesso di “causa” non può essere derivato dall’esperienza. Nel pensiero di Kant questi concetti organizzativi basilari […] sono presupposti in tutti i giudizi di esperienza e perciò devono essere considerati innati e universali nell’essere umano. I principali approcci alternativi all’empirismo successivi a Kant si sono ispirati proprio al suo lavoro»[8]. La critica humiana coglie, sempre al di là delle sue intenzioni, un altro punto decisivo che pure ho già accennato: la quantità, seppure estesa, non assicura sull’universalità di una presunta legge: «non ha importanza quanti sono gli esempi di conferma, essi restano sempre una parte infinitamente piccola della serie infinitamente grande di osservazioni possibili implicate da un’affermazione universale»[9].
Sia Kuhn che Feyerabend hanno sottolineato l’inesistenza di “dati grezzi e fatti bruti”, hanno insegnato che esistono soltanto dati “analizzati, plasmati, costruiti secondo una qualche teoria”, che l’adozione di una teoria nuova “comporta inevitabilmente la forzatura dei concetti e dei fatti di partenza”[10]. Einstein ribadisce che una teoria è "buona" quando si fonda su una sua interna " completezza logica", cioè sul principio d'invarianza secondo il quale "se una sola delle conclusioni tratte da una teoria risulta sbagliata, questa deve essere abbandonata". Dunque la teoria è "buona" quando è impossibile "modificarla senza distruggere l'intera struttura teorica". E' vero che «i concetti hanno un significato solo se possiamo indicare gli oggetti ai quali si riferiscono», ma nel procedimento scientifico essi hanno senso soltanto se possiamo anche indicare «lo schema mediante il quale i concetti sono correlati a questi oggetti». E inoltre «se non possiamo sapere tutto, secondo la vecchia ricetta, è semplicemente per il fatto che con il termine tutto non possiamo far molto, dal momento che con ogni nuova conoscenza compare almeno un altro nuovo problema: l’indagine su ciò che si è conosciuto come tale. Il numero dei problemi da risolvere diventa dunque infinito e il termine tutto privo di senso»[11]. Si contrabbanda per atteggiamento scientifico il disincanto dell’indagine rispetto al suo oggetto, laddove questa condizione è ormai diffusamente ritenuta (in ogni campo delle discipline scientifiche) del tutto anacronistica ed ideologica. Nel discorso di Fleck ci sono anche precise riflessioni che evidenziano come previsioni esatte possono essere tratte da assiomi sbagliati: gli astrolabi geocentrici, ad esempio, "funzionavano" molto bene come modelli basati su quel presupposto, e lo stesso Copernico non diede corso ad una rivoluzione, come in genere si dice, ma ad un tentativo di semplificare i calcoli astronomici (che tra l'altro non davano risultati migliori di quelli tolemaici[12]); la teoria aristotelica degli elementi fu considerata in grado di spiegare i fenomeni per millenni; la teoria del flogisto, quella del calorico e quella dell'etere, che addirittura sopravvisse all’avvento della fisica moderna, furono in grado di dare spiegazioni ritenute dagli specialisti soddisfacenti. Seppure paradossale, anche la scienza non può non avere una base metafisica, quella che orienta la scelta dei fenomeni e la loro interpretazione. La scienza non ha una superiorità metodologica né nei risultati che ci offre, se non dal punto di vista tecnologico, cioè della resa pragmatica della conoscenza. Anche la scienza, come ogni prospettiva culturale, basa i suoi esperimenti sulle idee, sui presupposti teorici che decide di usare, sulle ipotesi teoriche che ne guideranno poi la lettura degli esperimenti.
Se poi si parla di fede religiosa la conseguenza è ben più maliziosa: far passare surrettiziamente la propria posizione areligiosa per neutrale (mentre invece non lo è) e confermare indirettamente che la religione sia un prodotto della storia (ma non lo sarebbe anche l’atteggiamento neutrale?). Insomma, si riveste una scelta di parte, una posizione meramente ideologica per l’unica possibile e scientificamente valida. Si pre-assume tutto questo dogmaticamente per dimostrare “democraticamente” che chi è religioso non può essere “obiettivo”.
E’ la vecchia e trita riproposizione dell’affermazione che Marx fece nella sua pur straordinaria "L’Ideologia tedesca", dove scriveva, appunto, che non è la coscienza a fare la storia, ma la storia a determinare le coscienze. Ma, ancora una volta, non è anche questa affermazione di origine e provenienza storica? Ed allora quale forza veritativa possiede se è condannata, come tutto ciò che è storico, al fluire relativistico degli eventi? Se invece è frutto di coscienza libera che vuole orientare i fatti, allora entra in intima contraddizione. la scienza è un altro modo di cogliere la nostra finitezza.
[1] A. Einstein a Michele Besso, Princeton, 20 marzo 1952.
[2] L. Wolpert L., La natura innaturale della scienza, Dedalo, Bari 2006, p. 14.
[3] U. Beck, La società del rischio, Carocci, Roma 2001, pp. 232-234
[4] Ivi, p. 34.
[5] Non si tratta qui di riesumare le riflessioni di Hume sul valore secondario delle idee rispetto all’immediatezza delle sensazioni; si tratta di allargare lo sguardo oltre il medium linguistico/concettuale, guardando, ad esempio, al significato dell’”incompiuto” nell’arte o alla stessa ricerca laboriosa e difficile sull’uso della parola nei poeti, per riaffidare proprio alla parola quel suo senso profondo e pur sempre inadeguato, che essa riveste rispetto a quanto designa.
[6] Era nato a Lvov l’11 luglio del 1896, dove si era anche laureato in medicina nel 1922. Si specializzò poi in batteriologia a Vienna, città dove visse per tutto il 1927 lavorando all’Istituto sieroterapico di Stato. L’anno seguente con lo stesso incarico sarebbe stato nominato a Lvov, incarico che, tuttavia, fu costretto ad abbandonare nel 1935. Durante l’occupazione nazista divenne, nel 1941, direttore del laboratorio batteriologico dell’Ospedale Ebraico. Fu poi deportato prima ad Auschwitz e poi a Buchenwald da dove fu liberato dagli americani l’11 aprile del 1945. Nominato professore ordinario di microbiologia a Lublino e, successivamente, direttore del Dipartimento di microbiologia ed immunologia all’Ospedale di Stato per la Madre ed il Fanciullo di Varsavia, nel 1954 fu eletto membro dell’Accademia polacca delle scienze. Malgrado questi riconoscimenti, i suoi oltre 130 articoli scientifici, nonché i suoi testi ebbero scarso successo e poca diffusione. Il suo libro Genesi e sviluppo di un fatto scientifico al quale spesso mi riferisco, non fu neppure segnalato dalla rivista Isis e soltanto tra il 1936 ed il 1939 apparvero, su riviste mediche, recensioni positive. In generale, dunque, solo in seguito, postumi, i suoi libri sarebbero stati riconosciuti come opere pionieristiche. Morì il 5 giugno del 1961.
[7] G. Statera, Logica dell’indagine scientifico-sociale, FrancoAngeli, Milano 1997, p. 14.
[8] A. J. Ayer, Wittgenstein, Laterza, Bari 1986, p. 34.
[9] Ivi, p. 21.
[10] Ivi, p. 14.
[11] Fleck, Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, Il Mulino, Bologna 1983, p. 112.
[12] Il sistema tolemaico che fu sviluppato «nel corso degli ultimi due secoli prima di Cristo e dei primi due dopo Cristo, […] riusciva meravigliosamente a prevedere le mutevoli posizioni sia delle stelle che dei pianeti. Nessun altro sistema antico aveva funzionato così bene; per le stelle, l’astronomia tolemaica è ancor oggi largamente usata quando si richiedono valutazioni approssimate: per quanto riguarda i pianeti, le previsioni di Tolomeo erano altrettanto buone di quelle di Copernico» (Th. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, cit., p. 92).
Riflessioni di assoluta attualità, Professore.
Organizziamo su questo tema il prossimo incontro? 😁