Ho avvertito la necessità di un chiarimento filosofico-teologico della visione cristiano-cattolica, visto che si vive in un periodo di grande confusione, dove ogni prete o teologo si sente autorizzato a dire la sua spacciandola per qualcosa che appartiene all’annuncio cristiano. Non è mia pretesa verificare, correggere e sentenziare, ma certamente è possibile semplicemente ricordare i punti fermi della Tradizione e del Magistero che hanno accompagnato, orientato e fondato la Chiesa cattolica nei suoi millenni di vita.
Quando una fede religiosa si lega soltanto all’attivismo più o meno caritatevole, più o meno filantropico, senza logos, senza fondamento veritativo, non può che iniziare una deriva, una deriva dalla Tradizione e dal Magistero, dall’ortodossia e dalla mite fedeltà al Vangelo. Tutto il sapere si mette al servizio di originali quanto vanitosi narcisistici tentativi di aggiornamento della Parola, che viene piegata e violentata per soddisfare idee private discutibili ed eterodosse, ma seducenti, filistee come le definirebbe Nietzsche, paladine del tempo, prostitute della cultura alla moda, veri e propri “usignoli dell’imperatore” pronti a farsi largo e mettersi in mostra presso i contemporanei, a prezzo di una erudita manipolazione della Scrittura.
Uno dei riferimenti più pericolosi che stanno circolando in area cristiano-cattolica è quello del panenteismo, dottrina antichissima e, certamente, sul piano strategico, così facilmente malleabile nella sua polisemanticità, da essere un possibile crocevia di incontro fra le religioni e dialogo fra i diversi uomini di fede.
Come è noto la distinzione fra panteismo e panenteismo è che nel primo caso l’identificazione tra Dio e la realtà è totale, laddove nel secondo c’è una sorta di compresenza tra l’identità Dio e il mondo e la differenza, la distanza ontologica, distanza qualitativa, tra Creatore e creature. Nel medesimo tempo, dunque, Dio è presente nella realtà e non coincide con la realtà, esattamente come nel pensiero di Giordano Bruno: Deus in omnibus; Deus super omnia..
Se il panteismo si è chiaramente manifestato come un nascosto ateismo o, se si vuole, come una religiosità atea (e si possono prendere come esempio chiarificatore Le lettere a Moses Mendelssohn sulla dottrina di Spinoza del 1785 di Friedrich Jacobi), il panenteismo sembrerebbe sfuggire a questa condizione. Cerchiamo di capire e di chiarire. Si possono fare due tipi di riflessione, uno di carattere teologico e uno filosofico.
1.- La visione panenteista ridimensiona, sino alla vanificazione, l’importanza decisiva, salvifica, irrinunciabile e unica della Redenzione di Cristo. Si continua a parlare di Dio con proprie visioni della Sua persona, come se Dio non si fosse rivelato. E se ne parla come se il mondo debba cercare e trovare una via di collegamento con Lui, quasi che fosse lasciata ancora all’uomo l’iniziativa di rapportarsi a Dio. È come un tornare indietro, alla Vecchia Alleanza, all’Antico Testamento che raffigura ogni modalità e complessità di relazioni, riti, preghiere, atteggiamenti e sacrifici che l’uomo, da sempre, ha ideato per rendere possibile una via d’incontro con il divino.
Se Dio è presente e nel medesimo tempo distante rispetto al mondo, dove, appunto la distanza sarebbe annullata dalla Sua presenza, che bisogno ci sarebbe di un Redentore? Salva, redime e riscatta il mondo da quale negatività se in esso c’è Dio? E questo sia detto anche per l’attuale diffusa concezione della Provvidenza, più stoica che cristiana, visto che porrebbe il medesimo interrogativo: se ciò che accade è giusto che accada perché Dio l’ha voluto, che bisogno ci sarebbe stato di un Redentore? La superiorità di Dio su ogni cosa, anche sul male, non significa che Egli ne sia la causa.
Si dimentica il perché siamo cristiani. È Cristo il centro della storia, la Via, la Provvidenza. Ogni volta che Lo dimentichiamo o Lo mettiamo in secondo piano torniamo ad una visione veterotestamentaria o, addirittura, sincretisticamente ecumenica perché diffusa un po’ ovunque fra le diverse sensibilità religiose o pseudoreligiose. Gesù non ha attraversato la miseria umana, il dolore e le sofferenze atroci sino alla morte come fosse un fatto di cronaca isolato e senza conseguenze. Con Lui, vera Provvidenza, il dolore e la morte sono ridimensionati, non perché eliminati nella loro insensata presenza, ma superati nella speranza e nella fede nel Risorto. E la Sua Incarnazione non è un mero surplus rispetto a una storia che va secondo i piani di Dio. La presenza di Dio nel mondo è Cristo, che invera e supera ed esaurisce ogni altra teofania. Noi continuiamo a sostituire l’iniziativa di Dio con le nostre pretese interpretative e continuiamo a parlare di Dio a sproposito, quando l’unica parola di Dio, il Verbo, si è presentato oggettivamente nella storia rivelandosi.
Semmai si dovesse salvare la visione panenteista, l’unica soluzione che si potrebbe proporre restando nell’ortodossia è quella di identificare il panenteismo con la Persona di Gesù. Egli è e conclude il panenteismo, l’unico ad essere mondo e Dio. Chi crede in Cristo può vedere Dio in ogni cosa, ma non perché sia così, ma perché si ha fede che sia così e la fede è fondata esclusivamente su Gesù e sulla Sua Incarnazione. Persino il dolore e la morte, ormai redenti, mi parlano di Lui.
2.- La compresenza di Dio e mondo e, nel medesimo tempo, la loro distanza ontologica, pone un problema anche dal punto di vista filosofico. Uno degli insegnamenti di Hegel è stato quello di farci capire che ogni rapporto duale è confuso e va invece costruito su una triade dove oltre ai due relazionandi ci sia anche il significato della relazione, ché altrimenti questa resterebbe confusa. Ad esempio, “io-tu”, potrebbe indicare sia una relazione d’amore che una di odio e reciproca distruzione o ancora d’indifferenza. In una relazione duale, sin dove arriva l’io e sin dove arriva il tu? E dalla risposta a questa domanda dipende il senso della relazione. Ma che nella relazione duale non è né presente, né presentabile esplicitamente: si tratta, infatti, di una relazione che diventa immediata, senza mediazione, dunque del tutto fatua e irrazionale perché non argomentabile, oltreché in modo opportunistico, fluttuante arbitrariamente sull’uno o l’altro versante.
Se il panenteismo vuole mantenere la distanza tra Dio e mondo e, nel contempo, esaltarne la compresenza, si propone non diversamente dall’Identità dell’Assoluto schellinghiano, che il genio di Hegel aveva già deriso nella Prefazione alla sua Fenomenologia dello Spirito, come un’ingenuità dovuta alla vacuità di una certa conoscenza, che spaccia questo Assoluto per la notte in cui, come si suol dire, tutte le vacche sono nere. Sin dove arriva Dio? E sino a dove arriva il mondo? E se Dio va a identificarsi con il mondo, cosa significa poi che lo trascenda? Egli è e nel contempo non è il mondo; così come Egli è trascendenza e non è trascendenza soltanto. Come in un gioco a rimbalzo, si hanno due apparenti soluzioni ad eventuali domande problematiche, scegliendo l’una o l’altra soluzione a piacimento per risolvere la contraddizione che la loro compresenza porta inevitabilmente. In questa duttilità opportunistica, confusa e ingenuamente vacua, come appunto l’avrebbe definita Hegel, ogni differenza è tolta, vanificata, annullata e questa identità panenteista diventa perfettamente la notte di un Assoluto dove davvero tutte le vacche sono nere. Sembra essere la conclusione sincretista che metterebbe, in teoria, tutti d’accordo, teisti e immanentisti, trascendenza e immanenza, mondo e Dio, materia e Spirito, finito e infinito. Oltreché, come visto al primo punto di questa riflessione, per un cristiano, sarebbe una visione che renderebbe del tutto superflua la persona di Gesù di Nazareth e inutile la Sua Incarnazione, c’è un altro elemento da considerare, che, se dovessimo (potessimo) esplicitare in modo argomentato la visione panenteista, essa dovrebbe così esprimersi: nel momento in cui esalto la compresenza di Dio nel mondo sto assolutizzando la realtà e il finito, giacché Dio è il mondo; di converso, laddove esalto la trascendenza di Dio, sto sottolineando una distanza qualitativa tra il mondo e Dio, negata, però, nel primo versante interpretativo. E se ritorno a questo, c’è il secondo versante che lo negherebbe. Insomma, resterebbe l’insieme dei due versanti interpretativi che è, precisamente, l’identità confusa che riecheggia quella schellinghiana. Cosa resterebbe? Una falsa convergenza tra religioni, una confusa unità di opposte visioni, un grande contributo alle banalità dell’oggi, facili da consumare e diffondere e sempre tese ad una ipocrita assimilazione, come se il rispetto sacro per credenti di altre religioni imponesse lo smarrimento, la vanificazione e il ripudio della propria e altrui propria identità.