Quante pagine ho letto di celebrazione retorica della libertà! Quanti valori storici o politici, quante ideologie si sono ammantate di questo concetto per rendersi credibili e motivare ad un impegno giunto sino al sacrificio estremo! Quante precisazioni su questo concetto, analizzato, sminuzzato, distinto ed ulteriormente definito sino ad arrivare ad una sorta di un dizionario a parte per definirla. Non esprimo giudizi perché sarebbero coinvolte persone che nel lontano passato e anche di recente hanno dato la vita per questo concetto. E non sarebbe corretto. Mi limito tuttavia a ipotizzare una prospettiva diversa, che non parte dalla libertà come premessa e dato, ma che, in nome di essa, -in quanto si può-, chiede il perché di essa. Perché si è liberi? Perché questa possibilità?
Non ci si è posti questo problema perché non sarebbe spiegabile secondo i variegati parametri della cultura dominante, né con l’evoluzione, né con altre tipologie di giustificazione. La si prende per dato e basta.
Il problema è che attorno a noi, animali e piante, fenomeni atmosferici ed eventi naturali, non sono liberi. Soltanto noi, anomali organismi siamo liberi. La natura è sotto il determinismo della necessità o, per altri, entro il finalismo altrettanto necessario dell’organico. Insomma che la natura venga considerata come una macchina o come un organismo teleologicamente organizzato, in ogni caso non sfugge all’inesorabilità implacabile delle “sue leggi”, necessarie, ricorrenti, cicliche, funzionali, ecc.
Possiamo dire che la necessità naturale nell’uomo si è evoluta in libertà? Che, stanchi di avere risposte perfettamente funzionanti in natura e aggreganti rispetto ad altri organismi, ci siamo evoluti verso l’imprevedibilità delle scelte, la problematicità delle soluzioni, la contraddittorietà dei comportamenti? Al punto da mettere in discussione gli stessi equilibri della natura? Cioè, da perfetti animali ci siamo evoluti in animali che stanno distruggendo l’habitat che li ha visti nascere, che li spiega e li giustifica e che li vedrà rientrare nel grande ciclo della vita una volta morti? Insomma, l’evoluzione si è evoluta contro la natura stessa che nell’uomo aveva espresso il vettore evolutivo? Una spiegazione che non ha alcun fondamento, né senso.
Dal punto di vista naturale sarebbe stato meglio restare nella necessità, quella che ci avrebbe reso animali fra animali, accomunati dalle medesime risposte e divisi e in contrasto soltanto per il ristretto àmbito della procreazione e della difesa del territorio per cercare nutrimento. Non ci sarebbero stati problemi di organizzazione sociale, rivendicazioni sindacali, rivoluzioni, inquietudine di varia natura, individuali, sociali, economiche, etniche, nazionali. Le guerre sarebbero state di breve durata, il razzismo non sarebbe stato un problema così come lo stupro, del tutto inesistente in natura, la morale non avrebbe pesato sulle coscienze, non avremmo avuto bisogno di legislatori, di magistrati, di poliziotti, non avremmo lacerato la nostra sensibilità di fronte alla sofferenza di altri, non saremmo andati dietro le illusioni della religione, né avremmo trasformato questa come motivo di guerre ed intolleranza, non avremmo complicato la nostra quotidianità con l’apparato burocratico, non avremmo avuto problemi d’amore, tradimenti, adulteri, divorzi, aborti, niente ci avrebbe creato problema. Non avremmo avuto le grandi sanguinarie dittature, né ce ne saremmo scandalizzati, non avremmo avuto suicidi, patologie da diagnosticare e curare, né ci sarebbe stato bisogno del denaro, di monete uniche o meno, della finanza e delle banche, e la povertà non ci avrebbe scosso in alcun modo. Né avremmo creato soluzioni ecologicamente non sostenibili, inquinanti, destabilizzanti, non avremmo creato i presupposti di una guerra nucleare, non ci saremmo posti il perché del dolore e della morte, -così naturali!-, né avremmo richiamato la nostra coscienza al dolore altrui o lo avremmo fatto secondo quei canoni prestabiliti dalla specie come solidarietà e difesa della stessa.
È difficile pensare che in nome della libertà, prodotto evoluto della necessità, si sia giunti a tutto questo apparato tanto innaturale ed involuto! Pieno di complicazioni che la natura e la sua necessità essenziale rifiuterebbe.
E allora come cercare di chiarire questa libertà così originaria e da ognuno di noi tanto amata da essere ogni volta messa a difesa della propria individualità?
Si è cercato di descrivere il gran salto dall’animalità alle prime forme di umanità con l’acquisizione di competenze e tecniche: statura eretta, pollice opponibile, costruzione di strumenti, ecc. Ma così si sta semplicemente descrivendo quello che è già una risposta il cui presupposto è che quell’essere, prima di fare, è in grado di fare quello che gli stiamo assegnando come specifico. In base a cosa può stare eretto o avere il pollice opponibile o costruire strumenti o altro? Se lo stare eretto gli garantiva meglio la sopravvivenza, questa possibilità gli altri animali non l’avevano vista? Non l’avevano sperimentata? Perché non restare scimmie magari più abili a vivere fra gli alberi e a saltare dall’uno all’altro per meglio difendersi? Come anticipare il successo della statura eretta? Come sapere prima che stare ritti avrebbe portato vantaggi? Ma non ci si esponeva in questo modo all’eventuale predatore? E il pollice opponibile? Dove si è appreso che fosse una soluzione ottimale? come si è riusciti a prevedere quello che oggi, magari su situazioni analoghe, neanche il più completo dei computer, sarebbe in grado di indicare? Noi oggi abbiamo due occhi sul frontale cranico: perché non ipotizzare due occhi anche sulla parte posteriore della testa per muoverci meglio nel caos delle grandi metropoli ed evitare eventuali e frequenti aggressioni alle nostre spalle? E perché non moltiplicare braccia e gambe, ormai demodè e anacronisticamente identiche a quegli uomini che vivevano realtà sociali ben diverse! E lo abbiamo fatto con le nostre protesi: dai robot alle tante macchine che moltiplicano le nostre possibilità manuali e di velocizzazione. E questo amplificare ha riguardato tutti i nostri sensi e le operatività del nostro corpo, sulla terra, in aria, in acqua.
Tutte protesi che liberamente abbiamo creato perché la natura non ce le ha fornite anche se ne avevamo bisogno! E non possiamo dire che sono evoluzione della natura proprio perché la libertà non è evoluzione della necessità, come allo stesso modo non possiamo dire che la cultura sia un’evoluzione della natura.
C’è un salto di qualità. E questa qualità è sin dall’inizio. È quella qualità che ha permesso di ergersi ritti, di avere un pollice opponibile, di creare strumenti o altro, è quella qualità che ci ha permesso di creare, nel tempo, culture diverse, lingue diverse (un cane francese abbaia come un cane sudamericano), ideologie e valori, progetti e innovazioni. Il primo indizio è dunque che la libertà sia scaturita dalla mancanza di risposte della natura. Per questo essa,
Questa qualità che è la libertà è sin dall’inizio e lo è come identità e distinzione dell’organismo umano da quello degli altri esseri viventi che popolano il medesimo habitat. Non si tratta di una constatazione da poco. Né ci si salva spostando l’attenzione sul pensiero, sulla ragione come strumento di differenziazione dal quale sarebbe scaturita la libertà. Siccome questa risulta evidentemente fuori evoluzione, allora si trova la connessione con altra specifica umana facoltà che possa spiegarla in quanto, a differenza di essa, potrebbe essere ratificata come elemento di sviluppo evolutivo. E così comprendendo la libertà all’interno della ragione/pensiero e questo all’interno del processo evolutivo, per ovvia proprietà transitiva si pensa di aver messo a tacere il problema.
Qui gioca un ruolo fondamentale quel principio d’economia, di lontana eredità naturale-animale, che si accontenta della prima spiegazione plausibile, anche se spiegazione solo in apparenza, e non chiede di più. Che vale andare avanti a complicare una spiegazione così semplice e lineare? E così una “soluzione” da dare in pasto alla folla credulona e che non scombina le ipotesi evoluzioniste, ormai sacralizzate in àmbito scientifico, passa da secoli di generazione in generazione e resta lì, impunita, inverificata, incontrollata.
Della simbiosi tra libertà e pensiero/ragione si è elevato a criterio e valore il presunto appartenere alla continuità evolutiva, facendo prevalere implicitamente il pensiero/ragione perché più facilmente, in apparenza, riassorbibile nel processo d’evoluzione. E non ci si rende conto che se la libertà era una grandezza irriducibile all’evoluzione, una volta compresa nell’àmbito della ragione/pensiero, rende questo altrettanto irriducibile all’evoluzione! Il solito gioco di prestigio che Wittgenstein bene smascherò, a scandalo dei Circolisti viennesi e che sarebbe stato confermato in seguito dalle riflessioni della sociologia della scienza e dell’epistemologia scientifica più critica e vigile (cfr. 3.1.2.), cioè la dimostrazione scientifica altro non è che la deduzione inevitabile da premesse “aggiustate” in loro funzione: dopo aver scelto cosa e come dire certe cose, si dicono certe cose. Così, avendo già presupposto l’evoluzione come grande àlveo di spiegazione (confondendo le microvarianti con le macrovarianti, non altrettanto verificate), e poi dopo aver premesso che ogni aspetto delle varianti umane ne è il prodotto, ragione/pensiero compresi, se sorge un elemento di disturbo, lo si allinea all’affermazione precedente (la libertà allora apparterrebbe alle possibilità del pensiero/ragione) e lo si ritiene spiegato, come se l’inclusione della libertà nel pensiero/ragione non causasse conseguenze. Ma il problema resta ed anzi, avendo fatto convergere la qualità del pensare con quello della libertà, è un problema che si è amplificato ed è diventato, a mio avviso, -per coloro che non ammettono altre prospettive oltre a quella evoluzionista-, incontrollabile. E dunque, questa libertà, questa eccedenza irriducibile rispetto ai processi causativi della natura, cosa può essere e come è scaturita nell’essere organico che definiamo “uomo”?.
Intrinsecamente, la libertà è quel pensare e/o agire in relazione ad un fine che si intende raggiungere o conservare, che dunque è presente o assente e voluto. Nasce a ben vedere da un dominio di controllo sullo scopo prefissato (e questo potrebbe giustificare una certa convergenza tra pensiero/ragione e libertà), che è un controllo prima intellettuale e poi volontaristico. Non si tratta di un oggetto o un fine subiti, vissuti senza discussione, meramente svolti nel proprio vissuto, ma un qualcosa sulla quale si riflette e si giudica. E si decide. E si decide perché già quella padronanza allude alla libertà, all’eccedere umano rispetto al susseguirsi dei fatti. Solo l’essere umano assegna al possibile una così ampia e influente importanza. Il possibile, pur non esistendo ancora per definizione, è il vero traino del decidere, è la sua motivazione più intima: davvero l’uomo è l’animale così anomalo da non essere mai appagato dal reale, ma coinvolto e sedotto dal possibile. Non ciò che c’è è importante, ma ciò che si vorrebbe ci fosse o che dovrebbe esserci. È come un vettore centrifugo che fugge sempre in avanti, verso quell’ulteriore possibile che è assente nella realtà, ma che si fa talmente presente al punto da spingere a mutare la realtà. È in nome di questa virtù che l’uomo ha mutato l’ambiente, ha costruito le tante piccole e grandi civiltà, è in virtù di questo elemento che ha prodotto la storia, -micro o macrostoria-, è in base ad essa che si sono sviluppate indefinite opinioni e che è sorta la ricerca di quella verità che fosse in grado di selezionare, gerarchizzare, orientare o illuminare quelle opinioni.
La natura si ripete, il suo mutare è mera apparenza, giacché ciò che scompare in una stagione poi ricompare in un’altra e ciò che diviene si rinnova nel divenire conservandosi. La natura è sotto le leggi della necessità e ha talmente visibili ed esplicite le sue costanti che viene permessa una scienza della natura, sotto diversi suoi livelli e manifestazioni. Quello della natura è certamente un divenire, che, tuttavia, nella sua ciclicità, con la sua stagionalità ricorrente, conserva il proprio stato in un unicum che è, precisamente, ciò che induce in errore e ci fa chiamare “natura” in modo unitario, qualcosa che è invece complesso, composito, multiforme e diverso. Multiformità, diversità e complessità che, nel loro variare, confermano la necessità dell’accadere, estraneo ad ogni libertà.
Il vero divenire è quello irripetibile, che varia davvero al punto da non tornare mai indietro e al punto da manifestarsi in libere e sempre nuove forme. “Storia”, “cultura”, “civiltà”! Queste soltanto esprimono il divenire e la consapevole coscienza della precarietà.