In questi giorni, a ridosso dell’ennesimo omicidio contro una donna, -la giovane Giulia-, stanno uscendo farneticanti invettive e accuse contro una società presunta patriarcale. E come sempre capita, sull’onda emozionale, si muovono le masse e i media, senza una vera analisi del gravissimo problema. Visto che tutti dicono la loro, dopo un silenzio trattenuto a stento, vorrei con semplicità fornire una chiave di lettura, in modo sinteticissimo, ma spero, efficace.
Sino a meno di un secolo fa lo schema della relazione di coppia era chiaro ed equilibrato (dico formalmente, perché l’equilibrio della coppia non appartiene alle regole o alle istituzioni, ma alle persone) e dal punto di vista sociale, con tutti i grandi difetti, ha retto e reggeva persino alle vicende più tragiche. Propongo questa semplice schematizzazione senza esprimere giudizi (visto che è una situazione che non ci appartiene più), ma solo per capire cosa sia avvenuto. Ci si è chiesto perché una volta, quando vigeva la cosiddetta disparità di genere, non c’erano mai stati tanti femminicidi e ora che si parla di uguaglianza di genere questi ultimi siano cresciuti a dismisura? Cosa è successo? Vediamo in grande sintesi come si strutturava la relazione di coppia:
matrimonio-------------------˃mater patrimonio---------------˃pater
La donna trovava nel matrimonio la sua autonomia dalla famiglia, la sua ufficiale entrata in società in modo autorevole, come madre e moglie. L’uomo assicurava alla moglie il patrimonio, che rappresentava la sicurezza per il futuro. Di qui la innumerevole letteratura e cinematografia che ha ruotato e ruota sulla spinta femminile ad essere sposate e a quella talora convergente di trovare “un buon partito”. La donna calava sul tappeto individuale e sociale la sua capacità generativa, una certezza che dal punto di vista maschile, per la paternità, per decenni non c’era e che solo ora con il DNA può dare certezze. La forza di essere madre provocò deleteri e emarginazioni per le donne sterili, giudicate tali anche quando questa sterilità riguardava l’uomo (ma che non poteva essere provata per le ragioni succitate).
L’uomo partecipava al matrimonio con il suo patrimonio, la forza economica lavorativo-professionale che avrebbe dovuto assicurare alla propria donna e prole la certezza di un futuro.
Ma le cose non finivano qui: la donna partecipava del patrimonio con la cosiddetta “dote” e l’uomo entrava nella potenza generativa della donna riconoscendo il figlio e dandogli un nome. Così uomo e donna avevano ciascuno il proprio potere, ma ciascuno partecipava a quello dell’altro.
Cosa è successo? Le conquiste femminili hanno tolto ogni prerogativa al maschio: una donna può avere figli volutamente anche fuori dal matrimonio, rivendica il diritto di dare il proprio cognome e, se vuole, rimanere incinta persino senza la presenza del maschio. Inoltre ha o può avere un suo patrimonio, del tutto indipendente da quello dell’uomo. Cosa resta al maschio? Incapace di tenere dietro al nuovo ruolo femminile, alle sue nuove identità sociali e culturali, alle sue conquiste ha vissuto anni di disagio e di assestamento: la gran parte ha saputo trovare la strada di un nuovo equilibrio, ma qualcuno, incapace di capire (e amare) ha fatto valere l’unica cosa specifica che ancora resta al maschio: la forza. E così l’ha manifestata e purtroppo la manifesta in modo animale, incontrollato, cieco, per ribadire una sua identità, altrimenti non trovata. La più grossolana e ottusa.
Ma questo non c’entra proprio nulla con una società patriarcale.