Una buona giornata a tutti.
Un articolo che ho trovato sulla rivista Tempi di maggio e che mi sembra molto in linea con il pensiero del Prof. Rossi.
Non credo di violare nessuna legge di copyright pubblicandolo, ma se così non fosse, l'amministratore può tranquillamente cancellare questo mio post.
Le rispondo con qualche giorno di colpevole ritardo, ma ciò di cui stiamo parlando non ha l'ansia di essere attuale e di correre non si sa dove senza lucidità come è diffuso costume contemporaneo. E' dunque un ritardo senza conseguenze e del quale, in ogni caso, mi scuso. Leggendo quanto ha scritto mi è venuta subito in testa una battuta feroce: siamo troppo animali e poco uomini. Quella parte di noi che deve tributare alla realtà quotidiana la sopravvivenza biologica, il benessere e il piacere, il cantuccio egoico e la difesa del proprio, che pure è parte della nostra umanità, è diventata predominante, anzi celebrata con retorica al punto che tra i nuovi "valori" c'è la sopravvivenza (del pianeta, delle api, della propria integrità di fronte alla pandemia, di animali in via di estinzione, della foresta amazzonica, della biodiversità, ecc.), dove non c'è nulla di spirituale, nulla che possa anche solo con uno spiraglio aprire allo specifico umano. La bellezza è della natura, le meraviglie sono della natura, il mondo da amare e rispettare è quello animale e vegetale, la bontà, l'amicizia e la fedeltà sono di cani e gatti: dell'uomo si parla solo come colpevole, causa dei disastri ecologici, attentatore alla sicurezza del pianeta, senza tuttavia chiedersi come mai l'animale più evoluto sia entrato in così aperta collisione con chi lo avrebbe generato, cioè la natura. Dovremmo recuperare il concetto di "ospite": noi siamo ospiti in natura, come dovremmo sentirci ospiti anche nella nostra città: soltanto così c'è rispetto, non sanzionato e coatto, ma conseguente la relazione che s'instaura con il contesto. La bellezza è colta dallo spirito dell'uomo, le meraviglie colte in natura sono tali perché così apprezzate dallo spirito dell'uomo, il mondo da amare è quello umano e poi, secondo un ordine che rispetti il valore degli enti, quello di animali e piante; la bontà, l'amicizia e la fedeltà appartengono solo all'uomo perché è lui ad avere libertà di scelta e, dunque, la responsabilità valoriale di quello che decide, non gli animali che sono quello che sono e non possono essere altrimenti. Quale dovrebbe essere dunque il nostro significato? Quello di esaurirsi nella mera sopravvivenza di questi anni che abbiamo da vivere? come una qualunque pianta che abbiamo in vaso sul terrazzo? Come un lombrico, un ratto o una farfalla? Cercare con inutili complicazioni quello che un qualunque animale o qualsiasi pianta ha da sempre ed è da sempre.
Questo articolo del quale ringrazio il signor Foti mi rincuora, perché attesta che si riesce ancora a pensare criticamente senza cercare facili consensi. L'elemento che riassume l'intelligente articolo di Pier paolo Bellini è che lo stesso concetto di "natura" come un unicum, è un fatto culturale e la celebrazione o meno di essa è una scelta altrettanto culturale, che non ha niente a che fare con l'idea di un'umanità che non dimentica la sua originaria animalità. L'originaria animalità, semmai ci sia stata, non avrebbe autorizzato in alcun modo a definire quella creatura come "uomo", ma, appunto, come animale, uno dei tanti che ci circonda sul pianeta. Per poter parlare di "uomo" deve esserci una specificità che non lo fa più animale, ma, appunto, "uomo". E dunque non si può più parlare di animalità. Insomma, è un "aut-aut", senza vie di mezzo. Che poi, in maniera antropocentrica, si sia vista una vicinanza dei primati a noi è fatto culturale, ipotesi di scienza, tutta umana, che non potrà mai avere conferma dalla natura, la quale, senza l'uomo, è muta, oltreché cieca e sorda. Ottimo articolo e grazie ancora al contributo del sig. Foti.