Quali sono, a vostro avviso, gli elementi che differenziano il cristianesimo (o una fede qualsiasi) da una corrente di pensiero o da una qualsivoglia ideologia? Cosa rispondereste a chi afferma invece che il cristianesimo è un'ideologia come le altre?
Come presentare a un non credente l'elemento di fede essenziale per cui noi cristiani rispondiamo che la nostra fede non si basa su un'idea ma sulla Persona di Gesù Cristo?
Grazie Professore. Pur essendo molto lunga, ho letto la sua risposta tutta d'un fiato, per quanto essa è interessante e densa di dettagli, ognuno dei quali meriterebbe ulteriori approfondimenti.
Questo deve essere uno dei casi in cui la natura della risposta eccede (gradevolmente) quella della domanda :).
Grazie ancora!
Volevo attendere prima di scrivere per leggere le riflessioni che fossero proposte di fronte al quesito perentoriamente posto dal dott. Foti. Ma alla fine ho deciso di rispondere chiedendo scusa in anticipo per la lunghezza dell'intervento. Purtroppo non è così facile e lineare chiarire quanto è stato richiesto. Spero soltanto che il mio intervento sia chiaro e utile per chi lo leggerà.
La domanda religiosa è innata come è innata nell’uomo la libertà. Infatti, è lo scarto tra finito ed infinito che genera la libertà, patrimonio soltanto umano che non ha niente a che fare con la natura. Se un tale scarto non ci fosse, tra finito e finito non si genererebbe alcuna libertà, ma una semplice ed univoca risposta data per istinto, termine che designa per l’appunto l’immediato, l’identità tra la natura della domanda e quella della risposta.
Questa eccedenza permette all’uomo di non esser schiavo delle necessità naturali, avendo per questo motivo quel dislivello tra domanda e risposta che rivela come la domanda si generi dalla continua insoddisfazione che l’uomo avverte per le risposte naturali, tali soltanto per animali e piante. Per questo motivo sovrasta la natura, la trascende, azione prettamente religiosa. La domanda è dunque religiosa, religiosa nella forma, non nei contenuti: questi, infatti, possono anche apparire come meri contenuti materiali, persino immorali, ma l’insoddisfazione che procurano una volta raggiunti chiarisce che non erano quelli i veri fini da raggiungere e così, di nuovo, come sempre, ecco rincorrere nuovi obiettivi, perché la domanda è inesauribile, trascendente appunto.
Già questo evidenzia come tra le risposte (filosofiche, ideologiche, politiche, estetiche, sociali, scientifiche, ecc.) andrebbe eletto esclusivamente il livello religioso, quello più pertinente la natura e l’essenza della domanda. Essa infatti è, in generale, insoddisfazione costante per ogni risposta presente nell’immanenza (di qui la stessa retorica del continuo progresso). È dunque Dio che rende libero l’uomo, giacché l’inquietudine che è causata da questa inesauribile domanda è precisamente quello che già il libro della Genesi indicava come il “soffio di YHWH” nell’uomo, creato per questo a Sua immagine e somiglianza e che Agostino ricordava essere la traccia di Dio in ognuno di noi.
Così come per ogni religione, si manifestano movimenti settari al proprio interno, le diverse religioni assumono valore settario rispetto ad un referente religioso unico che è Dio. In fondo le religioni esistono sino a quando Dio non prende l’iniziativa e si rivela: a quel punto la religione è superata perché inverata nella fede.
Cosa intendo dire? Che non è più l’uomo ad essere chiamato all’inventio di questo o quel rito, questo o quel valore, questo o quel comportamento per essere, presumibilmente, degno di relazionarsi a Dio. Non è più l’uomo a gestire il rapporto con il Mistero, cioè con l’Altro. Nel momento in cui il Mistero si rivela, è questo a farci capire cosa fare e come fare. Possiamo continuare a chiamarla religione, ma il suo significato è ben diverso dall’uso corrente che ad essa si dà e che, a mio avviso, relativizza semanticamente le religioni tra di loro.
Nella storia dell’uomo e non soltanto occidentale, c’è solo un fondatore di religione che si è professato Egli stesso Rivelazione di Dio e non semplice profeta o guida. Questo è un dato oggettivo, verificabile sul piano storico, sperimentabile, per essere in linea con i canoni di quella scientificità che si pretende quando si indaga il fenomeno religioso. Soltanto il Cristo ha la chiarezza e l’onesta di presentarsi e di chiedere ad ogni uomo di prendere posizione. In Lui tutto si ricapitola, tutto viene portato a compimento e a verità e niente delle altre religioni è, per così dire, spazzato via. E’ tutto portato ad un livello compiuto, riceve luce e significato: la ricerca dell’uomo non è stata vana. Il caso di Gesù di Nazareth, cambia tutto, perché salvaguarda quelle altre proposte: non si trattava, non si tratta di illusioni: dietro gli impacci, i tentativi di soluzione, quella domanda non soltanto è presente in ogni uomo, ma è domanda autentica e precisamente a quella si riferisce questa figura così nuova. E vi si riferisce non solo insegnando, ma passando attraverso il Mistero del dolore e della morte sino alla Resurrezione, dando finalmente un senso ad ogni cosa, persino, appunto, al dolore e alla morte, alle ricerche di ogni uomo, alle altre religioni, ai no degli atei, all’indifferenza e alla dissacrazione, tutte realtà così presenti a costellare sino alla fine il piano di salvezza di Dio mediante l’Incarnazione.
Ovviamente, nella sua ricerca di risposta definitiva, ogni volta l’uomo è portato ad assolutizzare. C’è da vedere se ciò che egli assolutizza ha, per così dire, le carte in regola per ricevere tale condizione, se è conforme ed idonea a questa investitura. Ciò che avviene, in effetti, è precisamente una indebita assolutizzazione: elementi storici, particolari, naturali, spesso persino materiali, fisici, vengono assolutizzati, assegnando ad essi un valore sovratemporale e sovraspaziale che non soltanto non hanno, ma, soprattutto, non possono avere e che, se avessero, snaturerebbero la loro stessa propria identità. Come fa, ad esempio, ciò che è storico, cioè transeunte e mutevole, ad essere elevato a valore assoluto?
Come si fa a divinizzare il benessere corporeo e/o spirituale, la coscienza umana, il suo cervello e le sue potenzialità, una pratica e/o una tecnica rilassante, una credo meramente locale e particolare, e così via?
Ogni uomo, e dunque ogni umana proposta, non può fare a meno di assolutizzare, in quanto in ogni uomo lo squilibrio ontologico che si riverbera in quello esistenziale, matrice della storia, è innato, innato per la presenza, che traspare dalla/nella domanda, della trascendenza, quella che fa aprire gli occhi sull’insufficienza umana, naturale e storica. Quella domanda dunque spinge ad assolutizzare, cioè, per semplificare, spinge alla risposta definitiva: non si critica un assoluto senza assolutizzare il punto di vista che critica, assumendo un criterio alternativo altrettanto assoluto per essere in grado di smantellare l’oggetto criticato.
Il problema che di volta in volta si possono eleggere quale referenti da assolutizzare elementi indegni e inidonei, per propria identità, a questa assolutizzazione. Se si osserva un uomo che raccoglie e divora avidamente delle bacche che risulteranno tossiche o velenose, a meno di non ammettere una volontà suicida, si dovrà distinguere la domanda dalla risposta.
La domanda richiedeva qualcosa con cui sfamarsi, spingeva al cibo più idoneo richiesto dal corpo per nutrimento.
La risposta invece, è contraddittoria rispetto a quanto richiesto, in quanto portatore non di vita, ma di tossicità o di morte.
La domanda rivela la presenza in ogni uomo di una tensione che nasce da uno squilibrio che rende ogni uomo inadeguato rispetto alle cadenze naturali ed insoddisfatto rispetto alle diverse risposte che la storia nel tempo ha proposto (seppure, spesso, idealizzate, cioè assolutizzate ancora una volta indebitamente sino a combattere per esse sino alla morte).
Se questa tensione viene appagata da una risposta per sua essenza particolare, allora quella domanda, tesa all’universalità (dunque oltre il particolare) e alla verità e al senso da dare alla propria esistenza, allora si tratta di un’apparente risposta, come nell’esempio delle bacche.
Come conseguenza inevitabile di quanto appena chiarito, si confonde il benessere e la felicità ed il piacere terreni con quel senso di compimento che non ha e non è nel tempo. Come se, -errore costante e ripetuto nei millenni- una vita appagante in superficie su questa terra possa dare un senso alla nostra vita.
Questa funzione vitale dell’appartenenza religiosa vale tanto per chi non crede, quanto per chi crede che il fine ultimo della sua vita sia la costruzione di una positiva relazione con Dio.
Un gruppo religioso, mentre stabilisce legami, dovrebbe anche essere in grado di liberare l’uomo dai nodi che possono a volte essere costituiti dalle stesse forme istituzionali. Per Winnicott, ad esempio, una educazione religiosa liberante deve essere tale da permettere che ci si possa anche allontanare dalla religione stessa. Ebbene, il Cristianesimo è talmente liberante, nella sua essenza, da avere nel suo cuore il no dell’uomo, quel no che inchioda Gesù su una croce. E ne fa strumento di salvezza. Il no è dell’ateo, di colui che ha creduto che Gesù non fosse il Figlio di Dio; l’ateo è parte integrante della relazione religiosa, non ne è fuori. Ogni crocifisso, in ogni parte del mondo ricorda che ogni uomo è dentro quel progetto di salvezza ed il no od il sì sono entrambi dentro la relazione personale con Gesù. Se la domanda religiosa è innata nel senso che coincide con l’uomo e la sua libertà, anche l’ateo deve scegliere per fede e il suo no è “religioso” con i suoi assoluti, i suoi riti, i suoi “santi” di riferimento, i suoi sacerdoti. E’ assolutizzare l’umano, in alcune sue funzioni o capacità e la stessa assolutizzazione della natura, conferma l’indebita divinizzazione dell’immanenza, del fluire contingente, dell’effimero. E’ assolutizzare l’umano, in alcune sue funzioni o capacità e la stessa assolutizzazione della natura, conferma l’indebita divinizzazione dell’immanenza, del fluire contingente, dell’effimero. Ma anche il no ateo è fede, ed è fede perché è incontro con Chi si è presentato come risposta, si è presentato nella storia di ogni uomo e che chiama ogni uomo a questa risposta di fede. E la fede è o sì o no. Anche il no, infatti, è previsto dal Cristianesimo, al punto da essere pienamente interno al piano di salvezza: Gesù è stato messo sulla croce dal no, da un atto di fede negativo: “io non credo che tu sia il Figlio di Dio”. Essere atei ha senso solo dopo la Rivelazione. Senza una Rivelazione, su che cosa si poggia il NO a DIO? Sul non sentire Dio? Sul non crederci, altrettanto illusorio come il crederci? Un Dio che in ogni caso nessuno aveva visto? La concretezza seria e responsabile del sì del cristiano come quella del no dell’ateo, hanno la loro origine nel confronto storico con la figura del Cristo. E‘ Lui che impone, per così dire, la scelta.
Un primo “naturale” approccio al religioso avviene mediante la Natura.
Che siano le forme di animismo, secondo l’accezione data da E. B. Tylor, o quelle pampsichistico-ilozoiste dell’occidente più culturalmente sedimentato, o ancora quelle strutturate e stratificate da millenni di pratica come nell’Induismo-Brahmanesimo, con varianti autonome quali il Tao o lo Shinto, per citare solo le più note, si ha di fronte un chiaro modello di vita: la natura, la sua ciclicità, i suoi processi, la sua potenza creatrice e distruttrice. Comunemente definito panteismo, questo atteggiamento religioso è notoriamente, sul piano filosofico, una forma di ateismo implicito, come bene individuò Jacobi nella polemica su Spinoza e sullo spinozismo di Lessing affrontato nelle sue lettere a Moses Mendelssohn. Ateismo perché la divinizzazione della natura, cioè della realtà di appartenenza, altro non significa che assolutizzare ciò che c’è, senza che alter acquisti valore di fondamento. E divinizzare ciò che si è e l’àmbito di appartenenza è quello che esplicitamente rappresenta l’atto di fede dell’ateo. In àmbito storico-religioso o etnologico o anche filosofico diverse sono state le definizioni che hanno voluto designare questo atteggiamento: animismo, manismo, ilozoismo, pampsichismo sono tra le definizioni più note. Vedere un elemento vivente misterioso nella natura ed eleggerlo quale riferimento assoluto ha segnato la prima “naturale” (in tutti i sensi) relazione religiosa. Dagli scomparsi abitanti dell’Isola di Pasqua sino agli Egiziani, dai Babilonesi ai Maya, dagli Aztechi ai Toltechi, dai Greci ai Romani, dai Fenici sino ai Celti, dagli Africani ai Polinesiani, dai Cinesi agli Arii, dai Mongoli agli Eschimesi (Yupik e Inuit), dai Giapponesi ai Coreani (e mi si passi, per molti di questi popoli, l’uso del nome attuale che si assegna loro). E non ci si deve ingannare: se quanto sin qui ho cercato di chiarire risulta davvero chiaro, allora si capirà che anche forme di meccanicismo come l’atomismo democriteo (tanto per citare il prototipo dell’antichità, modello delle tante successive analoghe più complesse sue varianti) è stato un altro tentativo di spiegazione, d’altra natura, di come funzionasse il tutto naturale, giacché è sempre la natura il punto di riferimento, l’oggetto privilegiato, la base che tutto spiega.
Conoscere la natura, la sua struttura, le sue cadenze, i movimenti astrali, le stagioni, le maree, le fasi lunari, i cicli della terra e della fertilità femminile, significa disporre di un calendario sacro, esprimere una compiuta relazione con il divino che è davanti agli occhi e che guida i fenomeni naturali. Ogni costruzione megalitica, dalle piramidi egizie e mesoamericane agli ziggurat mesopotamici, dalle grandi pietre di Stonehenge sino a Carnac, da Karahunj sino alle incisioni rupestri della catena montuosa armena di Geghama, dai Dolmen alle numerose Tombe dei Giganti in Sardegna, dai Menhir sino ai Moai dell’Isola di Pasqua, solo per ricordare quanto è noto a tutti, sono templi /monumenti religioso-funerari con valore astronomico, sempre collegati a fenomeni naturali astrali e spesso a connessi riti della fertilità.
Spesso si è restati senza risposte sull’identità di utilizzo di queste strutture e l’alternativa posta è stata sempre quella di edifici o costruzioni a carattere religioso e/o funerario ovvero di studio astronomico e calibrata conformazione a movimenti astrali. Non c’è alternativa, in quanto l’uno valeva per l’altro e conoscere le scansioni della natura, periodizzarle, scoprire le distanze astronomiche, ecc. significava entrare in intima comunione con il divino naturale.
Persino popolazioni primitive dell’India, come i tagliatori di testa del gruppo dei Naga, presentano numerose feste ‘calendariali’, legate strettamente alle varie fasi della coltivazione del riso, e, dunque, ancora una volta, strettamente connesse alla cadenze naturali.
Ovviamente, rispetto alle più complesse calendarizzazioni di civiltà seguenti, al suo apparire, questa modalità religiosa si è presentata in modo ben più semplice. Le religioni di popoli cacciatori e raccoglitori, ad esempio, erano tutte affidate alla natura, luogo da dove attingere la propria sopravvivenza, sacro alla Signora degli animali (o Madre della selvaggina” come presso i Mundurucù dell’Amazzonia centrale) alla quale tributare quell’offerta primiziale che, in micro, conferma ancora una volta quanto ciò che caratterizza l’uomo, il suo specifico, è sovra-stare la natura e creare, rispetto ad essa, un riferimento alternativo, un mondo valoriale altro. Offrire infatti anche solo parte della prima preda cacciata o il primo raccolto, onde desacralizzare il luogo e togliere al proprio operato il crisma del sacrilegio, significa contravvenire, ancora una volta, alle mere leggi naturali della sopravvivenza e riconoscere che quanto si è preso appartiene ad Altro e non è proprio.
Ad immagine dei personaggi dei propri miti, come avviene ad esempio per i Murnghin, questi popoli portano per lo più nomi di specie animali, come, analogamente i Nuer dell’ex-Sudan anglo-egiziano, assumono, ciascuno, il nome del loro bue preferito con l’azione rituale dell’iniziazione.
Ebbene, il Brahmanesimo-Induismo è la più perfetta e completa manifestazione di religione naturale e naturalistica, panteistica ed impersonale, atea e religiosa, religiosamente atea, dove spirito e materia sono confusi, come nell’Identità schellinghiana. Né il panteismo che caratterizza il Brahmanesimo-Induismo viene meno se le diverse divinità vengono via via interpretate quali manifestazioni di un’unica essenza divina, come tendenzialmente sta avvenendo più di recente. Ogni monismo immanentista, vuoi naturalistico-panteista, vuoi storicista, vuoi in una perfetta trascrizione occidentale del monismo indù quale è lo schiacciare la storia sul modello naturale (quale semplice sua espressione), è atto di fede ateo, religiosamente ateo, teso a divinizzare ciò che c’è, senza alcuna ricerca né bisogno di redenzione. Ogni attuale animalismo, panteismo, ecologismo, storicismo, antropocentrismo occidentali(sti), è stato già perfettamente realizzato dal prototipo brahmanico-induista: in esso è dato scorgere il sorgere, lo svilupparsi ed il contraddirsi di questi ‘valori’.
Un secondo approccio, conseguente al primo, è la coscienza critica che nega valore assoluto a questa concezione monista, orizzontale, terrena, che nega valore alla natura e ne smaschera l’insensatezza, l’essere irredenta, la predominanza di quel divenire che si traduce immancabilmente ed inevitabilmente nel dolore e nella morte. E’ il nichilismo buddhista, anch’esso prototipo di qualunque forma di nichilismo: la vita non ha senso e debbo viverla con questa costante consapevolezza. Anche questa posizione è religiosa ma è atea, per esplicita autodefinizione. Nella visione buddhista vanno a confluire numerose varianti: dalle forme occidentali di nichilismo come la dichiarata debolezza del pensiero e dell’ontologia, di consumismo edonistico dell’attimo, senza progettualità e significato, o forme inconsapevoli del medesimo nichilismo, dove si cercano esperienze a rischio, border line, sballi e forme indirette di morte, tutte esperienze che rispetto al buddhismo originario e al suo rigore nulla hanno a che fare, ma che sono del tutto analoghi nella conclusione e nella valutazione del proprio essere nel mondo. Non c’è speranza, non c’è salvezza, non c’è alcun significato del vivere che l’atto stesso di vivere, attimo dopo attimo, al momento: un carpe diem assolutizzato. La vita è riempita da questi frammenti, da questi attimi e la vita è come una sommatoria di essi. Più ce ne sono e meno è dato vederne chiaramente l’insensatezza.
La religione, intesa come rapporto con l’Alterità fondante, che orienta e dà senso, che guida e premia e castiga e partecipa della vita dell’uomo pur restando Altro, è l’Ebraismo. E’ l’ebraismo la religione, l’uscita dal cerchio naturale (la schiavitù politica, culturale e religiosa d’Egitto e di Babilonia) che costituiva la prima goffa, approssimativa forma in cui si manifesta lo spirito religioso innato in ogni uomo. L’immagine-emblema è il varco del Mar Rosso. E’ l’ebraismo che esprime, invece, nel modo più perfetto e compiuto l’anelito dell’uomo verso Dio, un Dio-Persona, un Dio irraggiungibile ed ineffabile, perché davvero Altro e non confuso nel di qua e nel qui assolutizzati.
Tutto questo versante ha in comune il fatto che nella relazione con l’Assoluto è l’uomo a cercare la via, a determinare riti ed usi morali, valori e comportamenti.
E nella storia di Israele c’è chi parla pro Deo, che guida su illuminazione di YHWH. Il profetismo è la forma religiosa più realizzata, giacché salvaguarda la distanza tra finito ed infinito senza renderla estranea.
Se tutto fosse finito qui, la gerarchia era chiara: il panteismo è una religiosità di slancio, primigenia che trova in se stessa la propria autocritica nel buddhismo, ma che di religioso ha solo la domanda. Quella domanda che possiede anche il buddhismo e che ne autorizza la definizione di religione.
Indipendentemente dalla propria fede, le prime due forme ‘religiose’, Induismo e Buddhismo, sono improprie, tanto necessarie come passaggio e crescita, quanto inadeguate a cogliere pienamente il senso di Dio che è e deve essere Persona, ché altrimenti si assolutizzerebbe una energia, una forza, un qualcosa d’impersonale che, come sempre chiarito sul piano filosofico, sarebbe una forma indiretta di ateismo, una forma di religiosità o religione talmente impacciata da divinizzare un aspetto particolare e materiale o naturale, divinizzato magari per ammirazione o per paura o per scongiuro.
L’elezione del popolo d’Israele, per una visione generalissima dal punto di vista storico-religioso, rispetto ad altri popoli e culture, sta nel monoteismo di questi, nell’aver superato le altre civiltà, dal punto di vista religioso, con la fede in un unico Dio e con l’attesa messianica di un Messia che, in qualche modo, avrebbe rappresentato l’inviato di Dio fra la gente. Dio, cioè, non veniva più confuso con un’esigenza, con un sentimento, ma se ne attendeva la presenza storica, concreta, visibile, efficace per l’intera popolazione. Fra Israele e Dio s’instaurava dunque un’alleanza, un efficace costante patto di solidarietà comune. Se prima Israele e con l’antico Ebraismo si conoscevano soltanto teofanie o ierofanie, manifestazioni di Dio o del sacro, con l’Ebraismo si fa un passo ulteriore: il profetismo annuncia l’avvento di Qualcuno e questa testimonianza forma un popolo-chiesa, fondato sulla medesima fede in Dio. Se, soggettivamente, l’Ebraismo è il compimento di ogni afflato religioso, anelante ad un’alleanza del popolo con Dio, oggettivamente inteso in sé, esso resta tuttavia incompiuto, costantemente teso ed in attesa di compimento. Tanto è capace di compiere sul piano storico, quanto comprende che “religiosamente” l’uomo non può che attendere il compimento da Dio stesso. E’ l’Ebraismo che risponde meglio ed in modo corretto a quello che una religione richiede: affidarsi, pregare, chiedere di acquisire un significato nella/con la propria vita per esserne orientati vivendo nella speranza di quel Dio ed in quel Dio.
A differenza dell’Islamismo, l’Ebraismo con la sua attesa del Messia, peraltro mai realizzabile, concretizza una visione della storia come attesa, come tensione, come precarietà, come anelante al compimento. Una realtà che è irredenta, ma che l’Ebraismo, consapevolmente, e precisamente per questo motivo, non risolve tout court nella Legge, come l’Islam, ma come Legge che attende la propria verifica, una Legge che è, in ogni caso, in itinere. Ciò che l’Ebraismo ha ben compreso è che la natura, come ogni immanenza, è in cammino-verso la sua “terra promessa”, tesa al suo Messia. Non è, dunque il modello naturale, ciclico, autosufficiente, senza gerarchie, né differenze a fungere da modello, ma l’Ineffabile, YHWH, la Trascendenza, l’Alterità.
L’Islamismo, viceversa, davanti ad una realtà irredenta e che non attende alcuna salvezza, la riempie completamente con la legge coranica, con la parola di Allah di cui Maometto è Verbum storico e custode unico. In più, ogni imam è possibile autorevole voce dell’Islam, senza però rappresentarlo. Chi rappresenta l’Islam? Chi ne autorizza una direzione, varia e molteplice, ma unitaria e coerente? L’Islam può essere qualunque cosa perché nessuno è autorizzato a dire che non lo possa essere.
Israele, quale popolo eletto, è il paradigma della vita di ogni uomo in quanto homo religiosus, uomo che anela ad una salvezza, ad un approdo, ad una terra promessa. Come l’eros di Platone la sua rincorsa non avrà fine, né compimento, ma è proprio qui e solo qui che si accentra il destino di ogni uomo. Uomo come homo religiosus non come aggiunta all’identità primigenia, ma, come diffusamente sarà possibile riscontrare in questo lavoro, uomo come uomo che è tale solo perché ontologicamente segnato dalla trascendenza, creato a Sua immagine e somiglianza, terra e natura dove YHWH ha alitato il Suo spirito.
Terra e natura (Adamah) sono la “povertà” del mito platonico che parla di eros, così come il soffio di YHWH è “ricchezza”: di qui il dislivello, l’inquietudine, lo sradicamento costante, l’errare, la ricerca, la tensione, l’anelito, l’insoddisfazione, che la cultura laica dominante da secoli ha trasformato in modo orizzontale: progresso, evoluzione, ricerca del benessere, consumismo.
Sotto questa prospettiva, il Cristianesimo si fonda su una risposta storica alla domanda e all’attesa formulata dall’Ebraismo e che le altre religioni mantenevano soltanto implicita, come semplice esigenza celata nel bisogno di relazione con Dio. Soltanto il Cristianesimo conosce lo scandalo dell’Incarnazione, di Dio che prende le forme storiche dell’umanità: le altre religioni non potevano neanche immaginarlo; l’Ebraismo l’aveva formulato nella sua espressione di attesa (in questo, si può dire, l’Ebraismo è la religione che crea la dimensione del tempo, cioè dell’attesa, cioè del futuro) della salvezza, del Messia, ma se ne scandalizza nel momento in cui si trova di fronte alla realtà storica del Salvatore: non riconosciuto il proprio figlio Gesù di Nazareth come Messia e Salvatore, nessun altro può essere riconosciuto come tale: chi, infatti, deciderà che lo sia e perché questo e non Quello? E in base a quali criteri? L’Ebraismo si ferma alla grandiosa soglia dell’attesa, che parte dalla presupposta denuncia di una realtà storico-natura priva di senso e di risposte soddisfacenti. Esso sa che non basta anelare a Dio e stabilire con persone particolari un patto d’alleanza e di relazione. E’ necessario che Qualcuno, mandato da Dio direttamente, venga all’uomo, ad ogni uomo. Oltre, tuttavia, esso non va. C’è, per così dire, un residuo localista, nazionale, particolare, umano, che gli impedisce di comprendere che il Salvatore possa essere Salvatore anche fuori dei confini d’Israele. Il Cristianesimo, in questo, compie l’Ebraismo ed il vecchio patto d’amicizia e d’alleanza con Dio. Per questo motivo gli Ebrei sono “i nostri fratelli maggiori”. Essi hanno preparato la strada alla manifestazione diretta di Dio, l’epìfania, svelamento storico, visibile di Dio come persona storica. La condanna e l’uccisione di Gesù di Nazareth è la conseguenza dello scandalo che questo mistero, quello dell’ Incarnazione, è per qualunque religione e per qualunque uomo: è un assurdo della ragione: un Dio, illimitato, assoluto, immenso e trascendente che prende le piccole storiche sembianze di un uomo! Eppure, a ben guardare, è precisamente questo mistero la chiave di volta che sorregge ogni umana ricerca e religione. Questa tensione, questo bisogno, questo anelito, si esprime in tutte le manifestazioni umane e in tutte le religioni, a livelli diversi, come una spinta vettoriale che va dall’uomo verso Dio, dove l’iniziativa, in generale, è dell’uomo stesso:
U------------------------> D.
Infatti, se l’iniziativa resta dell’uomo e Dio è quell’alterità misteriosa cui si tende e che si attende, rimane in piedi una serie di domande e riflessioni che, in se stesse, possono costituire elemento di dubbio.
Se Dio resta lontano e inaccessibile, la condizione umana è, implicitamente, giudicata indegna, così come è, di ricevere od entrare in relazione prossima con la divinità (cfr. Buddhismo e Induismo, dove l’uomo è un accidente imprevisto della creazione). E’ un uomo al quale Dio non si presenta direttamente, giacché la sua condizione umana non è degna di riceverLo ed accoglierLo. Di conseguenza, l’uomo deve superare la sua condizione di uomo, vergognarsene e pervenire ad una condizione angelica, da semidio (cfr. ad esempio le pratiche ascetiche e lo yoga nell’Induismo e nel Buddhismo) ovvero giudicare inutile ogni sua azione di carità, incapace di riscattare la personale condizione di peccatore e lasciando a Dio un imperscrutabile fatalistico disegno salvifico su ciascun uomo (cfr. Luteranesimo, Calvinismo, ecc.).
La ricerca di Dio resta un fatto privato, soggettivo, individuale (Induismo, Buddhismo e Luteranesimo) e la formazione della comunità ecclesiale non è altro che una somma, un assemblaggio (assemblea) di individui (Buddhismo e Protestantesimo in genere) o un popolo-nazione (Ebraismo, Islamismo).
Resta accentuata e invalicabile la distanza (la regione polare, l’infinita distanza qualitativa tra uomo e Dio, per dirla con due grandi pensatori riformati, S. Kierkegaard e K. Barth) tra U e D (Buddhismo).
Se viceversa l’iniziativa è di Dio, come nel Cristianesimo
U <------------------------------ D,
s’instaura una nuova alleanza, un nuovo patto di amicizia tra U e D (il Nuovo Testamento) e possono essere dedotte queste riflessioni.
La negatività originaria dell’uomo (come caduta, peccato o accidentalità del dio creatore) è definitivamente riscattata nel legame con il Dio-tra-noi, l’Emmanuele, incarnato e presente nella Chiesa.
L’uomo, di conseguenza, non deve tentare titanicamente di liberare se stesso da sé, come se si vergognasse della propria condizione umana e, contraddittoriamente, si credesse capace di autoriscatto. E’ Dio, perché solo Dio può, che lo salva e lo redime, saldando, superando, ricucendo l’infinita distanza con l’uomo. Il cristiano è l’uomo realizzato.
In senso stretto l’uomo non deve più cercare Dio, deve, invece, saperLo riconoscere e testimoniare nella storia in cui si è incarnato. Alla ricerca individuale della religione, si sostituisce la fede e l’incontro comunitario, la testimonianza di carità fraterna. E’ la Rivelazione che fonda e giustifica la Chiesa.
Cade, dunque, la soggettivizzazione individualista della religione: essa si esprime da persona tra persone: la Rivelazione è per tutti e non soltanto per questo o per quello, che sia individuo o popolo. Il primo livello, quello di base, della Chiesa è l’umanità intera.
La Chiesa come la fede, così come è richiesto dalla natura stessa della relazione religiosa, è costruita sul valore fondante dell’alterità-oggettività: tempi e luoghi sacri oggettivi, Magistero ecclesiale, dogmi, ecc.
Sotto questa prospettiva, per così dire, è chiaro che ogni ricerca umana o tensione o progresso o inquietudine, così come ogni altra cosiddetta religione, rispetto al Cristianesimo, è solo passo propedeutico e di questa propedeutica l’Ebraismo è l’ultimo necessario passaggio.
Per discernere tra le risposte storiche ed evitare la paralisi del relativismo o la scelta solo soggettivamente fondata, dunque autofondata, si deve guardare alla natura sovrannaturale della domanda. Di fronte ad essa, allora, ci si accorgerà che non tutte le religioni storicamente osservabili e i vari nuovi culti o filosofie o ideologie sono sullo stesso piano. Ci si accorgerà allora che si confonde salvezza con salute, serenità appagata con benessere, significato dato al dolore con forme più o meno evidenti di fuga dal dolore o di anestetici indiretti, Mistero con occulto, fede con curiosità, immortalità con una mera continuità della vita (reincarnazione) e così via. La qualità del compiuto sostituita dalla quantità del possesso: essere o avere, secondo la dicotomia proposta dal cattolico Gabriel Marcel. In ultima istanza è lo scontro eterno tra Dio, -l’Assoluto che s’incarna e si fa uomo-, e ogni forma di idolatria, cioè di un assoluto creato dall’uomo.