Finalmente dopo anni di pontificato teso a prospettive di miglioramenti del benessere mondano, a sensibilizzare sui bisogni terreni da garantire a tutti, si è levata una voce dottrinaria, religiosa, morale, seppure gettata lì senza argomentazioni teologiche. Mi riferisco alla esplicita condanna dell’aborto e di quei medici, definiti “sicari” (d’altra parte, essendo l’aborto un omicidio, è corretto, per conseguenza logica definire chi si rende responsabile di questo, come un sicario) che Bergoglio ha finalmente dichiarato senza equivoci. E si sono meravigliati certi opinionisti e cittadini e politici e giornalisti di qualcosa che era ed è indiscutibile all’interno di chi è cristiano e che soltanto quel silenzio più che decennale del pontefice ha nascosto e fatto dimenticare, evidenziando ancora di più quanto fosse stato necessario ed è necessario intervenire sul piano dogmatico e morale, vista la confusione in cui quotidianamente siamo immersi, noi cattolici compresi. E, ovviamente, sono tornati di moda i due ritornelli insignificanti sul piano di una seria riflessione sull’argomento e che vogliono continuare a gettare fumo sul problema:
1.- si continua a sottolineare la sofferenza e il dolore della donna che abortisce, come se uccidere piangendo togliesse in qualche modo la gravità di quanto si sta compiendo;
2.- si continua a parlare di libertà di scelta della donna da garantire in ogni caso, elevando la 194 a norma giusta, una norma semplicemente “legale” come, in altri tempi, era stato altrettanto legale emarginare ebrei o neri o altre tipologie di persone. Ciò che è legale non equivale a ciò che è giusto. Ho già altrove spiegato la profonda differenza tra jussum (legale, secondo legge) e justum (giusto moralmente, come bene universale).
In questa breve riflessione voglio semplicemente smascherare il grande sofisma della cosiddetta “libertà di scelta”. Si tratta di un meccanismo di apparente dimostrazione, lo stesso che usa molta parte della scienza, la quale parte da un’ipotesi che poi intende dimostrare e che dunque poi fa passare per dimostrata, quando essa, invece, era già nelle premesse. Qui accade la stessa cosa.
Se io assegno la libertà di scelta a qualcuno su qualcosa ovviamente è perché ritengo possibile che su quel qualcosa si possa avere una valutazione alternativa alla mia. In altre parole sto rendendo opinabile ciò che non è opinabile. Quando una donna si scopre gravida, dice che aspetta un bambino, non che c’è in lei un grumo di cellule indistinte, che possono indifferentemente essere lasciate lì a svilupparsi o essere tolte se costituiscono problema. Se io le assegno la libertà di scelta, sono io il primo a non rendermi conto che si tratta di un omicidio: le lascio una libertà di scelta perché già per me non è omicidio in modo certo, altrimenti questa possibilità non le può essere data. Per meglio capire, basta esasperare con qualcosa di diffusamente considerato male, come la pedofilia: perché non si lascia libertà di scelta al pedofilo che da parte sua non ritiene sbagliato ciò che fa? Non gli si concede libertà di scelta perché nessuno dichiara opinabile abusare di minori. Ecco dunque come funzionano le cose: se il presupposto è fragile e trasformato in opinione non può che lasciare libertà di scelta, ma, chiedo: uccidere o non uccidere può essere oggetto di una scelta opinabile? E basta accompagnarla sentimentalmente da dolore, sensi di colpa e quant’altro per edulcorare la gravità di quanto commesso? Così, quei cattolici che sostengono di essere contro l’aborto, ma di non poter impedire a chi ne ha necessità, di praticarlo, sono i primi a non avere idee chiare, perché hanno trasformato in una posizione soggettiva e privata, dunque opinabile, un valore oggettivo e universale: non uccidere. Non si rendono conto di essere artefici di quel relativismo che è il vero disastro del mondo contemporaneo. Persino chi dubita che quel grumo di cellule possa essere considerato come persona, non può, nel dubbio, diventare un assassino.