NOTA INTRODUTTIVA
È la dolorosa coscienza della vita espressa nei flashes di una settimana, con immagini a tratti deliranti, forti e taglienti.
I giorni riscoprono un ritmo lessicale e impressionista della sintassi che ‘vive’ le frasi e le parole nell’introspezione dell’anima.
Solitudine, follia, vite-non-nate e spezzate sono il leit-motiv della scoperta del vivere.
Il personaggio protagonista come un io joyciano è dentro e fuori allo stesso tempo, mentre vive con le immagini ‘calde’ il senso dell’esistenza che, allo stesso tempo, sfugge di mano: l’equivoco è l’esistenza.
L’autore ha messo in scrittura il sopravvivere con immagini come attraverso uno specchio.
Lasciati andare lettore: io, qui, sono nudo.
Lunedi
Se una tromba lontana è come un cavallo quasi morto che pascola davanti alla campagna, mentre il cielo pende la sua insidia in nembi scuri e tremiamo con la terra fino al cuore, allora il suono lontano richiama nostalgie sotto cenere e con l’ansia spira, come un morto e come il vento, morte e vita affratellate.
Il cavallo immobile, nel suo corpo secco, divorato dai tafani, sulle esili zampe, filiformi, sognanti corse o traini, gli occhi dolci, e spenti, come un vecchio, ha qualcosa che ci lascia. Brevi scàlpiti, goffi, come démodé, e il mio sogno svanisce, tra i nembi scuri che parlano di pioggia. Tremare al tuono, risalire per le vene alla pelle, fa freddo come d’inverno, se nudi, ci lasciamo bagnare dalla pioggia del cuore. Ultimi strepiti, risa bambine, giochi come droga, e un volo con quelle ali bianche, stridenti nell’aria, come lame dolci, di pregevole fattura, made in Italy. Ma il vecchio risale la fogna, col fardello di rifiuti, e annusa l’ultimo tabacco, con l’aria che tende i suoni, vibrando gli ultimi accordi. La sete sale dalla terra, e grida al cielo il tremore della solitudine. Se la corrente elettrica corre per i fili, scudisciando i fianchi delle colline, al rumore dei palazzi, laggiù, abbracciando la città come una cornice, le fronde luccicano coi nascosti insetti, prigionieri dell’infinitesimale, sperduti come noi tra i sassi, e la donna ritrova il bimbo di sei anni, e grida nel silenzio e nelle ingiurie la sua gioia.
Qui si conta il proprio onore, guardando i vetri come specchi, oltremodo fini; esili lastre di nulla. Vado cacciando gli ultimi gheppi, oltre le torri di una vecchia rovina, tra i rovi rosa, i cardi della desolazione oleografica, spinosi come rose, se qualcuno ridiscende a valle coi propri misteri, l’aguzzino di via Pergusa, braccato dall’odio che lo insegue con un kris arroventato, terribile cade la pioggia, e copre l’istmo, l’ultimo legame con la speranza. Chi scava ora, tra la terra umida, piena di orbettini, l’odore del fango e dei funghi, e le cortecce col muschio può annegare in un krug di birra, sereno come un orfeo.
Io sento il passo del pipistrello lungo l’architrave, e il suo grido, come la notte che ti guarda, con gli occhi neri di un lèmure.
Il viaggio precario è spossante, e il peccato s’ingigantisce come lievito, gonfio di rimorsi. L’omicida si volta spesso, e l’inseguimento lo ha già trafitto: tra le scale, il suo cuore si è fermato, e sui gradini le gambe tremano come un enfant. La puttana di via Rasella m’ha raccomandato la madre, e io procrastino per il cuore di lei.
L’alfiere muovo distrattamente, mentre una porta cigola la sua vecchiaia e lo scacco al re. Il supplizio dell’arsura razzola paziente, con gli alberi che pregano il dio sole. Il sentiero per pescatori puzza di aringhe e i galleggianti nella sabbia, dal sole imbiancati muoiono lontano dal mare. Il nostro ritratto rotola tra i barattoli di pelati, rotondamente, e lo sconcio cuce la tela su un argano, come volpe astuta che nasconde il sangue della preda. Nel bricco il caffè odora di sud, e il suo fumo è profumo epicureo, atteso come un ospite, l’abitudine centenaria che placa l’inganno.
Il chiostro, oasi perduta, incastonata oscuramente, è timido come un conclave e una coppa di nettare diffonde. L’estro diventa figmento, frode per raffinati, mentre qualche saccente è alle prese col proprio intestino, quando il mulo rimuove l’ultima legna di scorta per l’inverno. Preparando si vive ogniqualvolta gli stenti affacciano la fatica loro e la magrezza di chi è niente, nel vino bianco del ’68, annata discreta, e l’ultima partita a briscola con l’oste che ride, e le sue grasse mani sui capezzoli di Nina.
C’è chi per quattro dita, darebbe via il quinto, sognando la possibilità, come un ragno che cade sul filo della sua bava, e innesca la trappola. Il ramarro, solletica l’aria con la lingua, e l’occhio spinge per ogni dove, veloce come la coda che sparisce, quando già il giorno volge al sonno, e i clacson si stemperano nei garage. Prendi pure il tuo cappello, l’aria trasale per far rima col male. Ingiallito il volto dello zio ringhia nuovi alfabeti e risorge lo zoppo dalla bottega, schiarendo la fantasia con altri scherzi. Circondato dai burloni, ride e piange la sua sorte, saltando il trastullo, e raccoglie in tasca i saluti e gli scherni.
Rabbino o no, quello interpreta il cielo, quasi profeta, prèside plenario passibile di venerazione, ombroso occhio nero. Una chitarra lancia i suoi accordi, mentre un cane va annusando i suoi passi, orinando assiduamente.
Rinserra la tua spada per l’inutilità del sangue, che il cuore muore lo stesso e ferma il tempo per l’al di là. Io rivedo mia madre e i suoi ricordi e gli occhi lucidi col grembiule e l’aceto che penetra dalla cucina, quando la mensa rumoreggia di trivio. Mentre il gatto pavoneggia la sua fame, la pentola a pressione fischia l’impazienza, se le porcellane di piatti in pezzi ricordano la cena, qualcuno una città nuova scopre, colonia lontana per gente di sapienza.
Volontà di morire rapisce la notte, e indovini le ombre e i passi e si distendono le stelle e gli ultimi ululati dei cani randagi, sulla collina piena di rifiuti, dove spacciano eroina, mentre cadono le ultime squame di polvere e nascondi le illusioni dietro le finestre chiuse. Qualcuno parla della notte, senza rispetto, e lampeggia lontano l’ordine elettrico e lucente della città, quasi immobile, a perdita d’occhio, quando la risacca ricorda l’esodo e le spiagge di Tahiti, quasi un eden o forse l’odore del corallo mentre ti siedi solo. Ma l’eco continua e puoi sognare, volando con gli ultimi albatros mentre leggi Lee Masters e la grossa candela illumina il balcone e le teste di morto. Scivola per le ossa il senso del perduto e il litigio di due vecchi passa come sfumato, quando qualcuno fischia, se c’è silenzio, operi gli ultimi gesti di bontà.
Non credono ai capestri e il sorriso continua scapigliato, come un rito riflesso, come una piaga che piange la sua decadenza. Noè era un mozzo, nostromo metodico e paziente, e nei meandri marini mangiò lucertole, vicino alla macina, livida d’acqua. Una larva fu la casa di Ismaele quando nel deserto fu costretto a sanguinare, e l’infame scorpione ferisce il ginocchio ogni volta che un fennec odora l’aria e sulla sabbia scompare. Ma la fantasia scuote gli elementi, vorace più di un ditisco, e dirige i suoi assalti come un David fragile e prepotente, per il giornale della sera. L’immersione intona a lungo un canto di sirene e melassa e i numi l’orgoglio preparano con paterno scherzo. Gli schiavi schiantano le catene e i pulpiti e al porto si gioca a rissa con gli stiletti marittimi mentre il liuto del Vicolo Doria limita gli accordi a qualche insolito marò. Due lesbiche in soffitta, incurabili o impersonali, il feticcio fallico rincorrono e nel magazzino una faina sparisce tra il legname, sanguinaria, mentre molti elemosinano dai cuori degli ubriaconi.
L’entelechìa sfida il tempo con un fagotto di felpa e fissa Mnesarete nuda, la cortigiana davanti ai giudici, e le sue dolci gambe beote, e c’è la cincia che canta la vivacità del coefficiente. Considera la crudezza della decomposizione e delle doglie del parto sui dirupi della solitudine: l’uomo emenda se stesso all’estremo e felice girovaga sotto la grandine. Il granchio è metafora perché, inoffensivo, continua a solleticare la sabbia affondando timido, patetico come un burattinaio. È la favola del gruppo illustrata a caricature e immortale incoròno l’inappagato eccitamento con la frode, mentre un banjo ritma i sogni e i sorrisi della ballata a Buffalo Bill, se avete qualche spicciolo di kyat. Galleggia il fotòne come un laser e la formica impazzita continua la sua caccia ed esplode l’evangelo d’amore come una epigrafe eterna, domicilio diviso senza dissidi.
Elton John è ritmo lontano quando dissigillo il testamento e domo l’ultimo mustang, e la mia donna mi chiama a sé nella musica di un abbraccio. I monti migrano, marciando per fede in maremma e oltre le savane: un madrigale intona il vespro, mentre chiudiamo la giornata e le ombre dormono anch’esse al buio lungo della notte.
Martedì
Il bambino perde innocenza e l’antica voce di dolcezza, mentre un sifone annaffia i girasole del borghetto. Scendono da dietro il vicolo madre e figlia, e un’asina incinta soffia sulla polvere il timido sogno di un ciuffo d’erba, quando in canottiera volgo l’attenzione oltre l’orizzonte, sul balcone della mia stanza.
L’alba rinnova la sua lenta cadenza e riprende il tentativo umano, come un giro a poker. Spolverano le donne l’angoscia della notte e aprono alla luce vetri e porte, come convalescenti al sole, per un’altra vita. Di nuovo si ode il folle mormorio della città e si annusa il chiasso del risveglio, se guardi con rabbia dell’uomo la cecità testarda. Rinnovo la preghiera a Dio Signore e guardo in cielo per fiutare il tempo ma il telefono grida monotono la sua ansia snervante, e rincorro il mio sudore quotidiano.
Ammiccano i semafori, mostruosi arcobalenanti Polifemo e si fa filosofia da quattro soldi sui bus e in periferia, mentre inizia il sacro rito del giornale, prostituzione di una storia alterna.
Scende l’afa del tempo in secolare calma di fuoco, quando prende le vene, ubriacandoti, l’ultimo sospiro di piacere, già qualcuno guarda lontano, ma Maria Teresa muore suicida, sulle scale di Trinità dei Monti.
Piango i suoi occhi spenti, e immensi, con la testa rovesciata nell’abbandono, se il silenzio della morte mi dà i brividi, quando il corpo ormai docile riposa, chi sogna un tuffo e si perde come fumo?
Ricompare la zingarella che puzza, rubando discrezione e noia perché il vicolo rifugia i morti, quand’anche volessimo mangiare e la perfidia del ribrezzo rispettiamo nell’ansia costante di una speranza: sì, offriamo i nostri cuori, se qualcuno canta il suo peana.
All’ombra del viale, rumoreggia una Honda carica di potenza, e la lanterna dell’osteria ammicca al sole, mentre la vecchia dei gatti schiude alle persiane i suoi occhi ciechi, perciò il Tevere corre atterrito, sotto i nostri ponti di prigionia. Ahimé, la sorte è chiara come il vento, e soffia al mare il suo furore, e là ho visto sbattere una porta e sbattere frustata.
E si spande il deserto e la disfatta diverge anche nei distici, quando le fragole sorridono e galleggiano i fiori di primavera. La galleria gioca il suo mistero nei corridoi, se c’è il melenso snob e il sedimento dell’usura, ma per chi crede, segreta, s’apre la speranza. Eppure sbigottiti annunciammo la ruggine e il rumore e la ruga del riposo stanco, quando sulla rampa volò il giovane corpo suicida di Maria Teresa, postilla ai nostri sogni: sporgendo il collo, hai udito forestiero il suo canto strozzato?
Se paziente, io pazzo, pavoneggiassi la paura del palafréno, orbo l’oracolo attenderei, necessariamente, poiché il Nazareno mi parlò quando le midolla gelarono e il mortale senso dell’uomo carpii. Ma la misericordia ai miseri ispirò l’istinto dell’indefinibile, e il vigile timone timbrò la solitudine. La filatrice canta il gorgoglio del mare e l’illustre maestro predica il metacromatismo politico, quando i nibelunghi raccolgono il pegno eroico, nasce un profeta quasi re, per rimasticare la satira di Persio. L’Egitto figura il frumento sotto il sole dorato e nella gabbia il genio illustra l’improvvisazione delle impressioni e l’incontro infallibile con la malinconia, ogniqualvolta il mesto ordine della noia scalfisce il cuore e la miseria pubblica raddoppia i segreti. Ma se Mussorgsky sovrano stregone di battiti tremendi pennella le incisioni ritmiche, salvo che per un moloc, i suoi momenti lambiscono il tremendum orientale. Una indiscutibile inesprimibile febbre esplora la debolezza intensa dell’intimo, come un intònaco invadente che lieve schernisce e maneggia mentre tuona il pianto del lupo e un toporagno ghermisce un implume stiaccino. Francesco ride la sua segreta gioia nei vicoli di Assisi e schiarisce il martirio dei testimoni mentre silenziosi i cipressi del Beato Angelico calcano le colline toscane mormorando la serena meridiana del mezzogiorno, come una linea d’ombra penitente e raccolta in preghiera. Ma una poiana rotea riservata ed è in attesa tattica, se l’epitaffio dell’epoca è epilogo amaro, l’ascia scende lucida sul tronco e s’apre la ferita della forma, e un accordo sbagliato gela l’incenso. Appena l’interesse rompe il gesso dell’apparenza, la gerarchia vacilla e rischia l’embolia, quasi che il guano si fosse guadagnata la sua fertilità dormendo i secoli in letargo. Ma il mio cuore rincorre i corvi di Paestum, col sole sulle pietre, lontano, più lontano ancora del tempo dei templi, se un canto di Natale mi risveglia, quando già la neve silenziosa si distende, divento di gesso in un presepe, statuetta invidiata in un cantuccio santo. Ecco solo questo, soltanto questo vorrei…
Un’antica fiaba, tra gli abeti e la neve, quando l’alba intona la sua timida musica, se una lepre guizza candida in silenzio, mi muove il fremito dell’incerto, mentre l’intimo segreto mistero della vita si scioglie coi cristalli di ghiaccio, e scoppi a piangere poggiando il fianco a una betulla, perché qualcuno ti parla e gravidi i rami di neve cadono senza rumore. A Cafarnao Egli contò i Suoi passi, se l’edera scende feconda sui muri e una lucertola sonnecchia imprudente quando la leggenda di Faust incontra l’ordine e il peso del pallore, il suono di un organo mi ricorda del figlio di Maria. Ma pellegrino alla meta sembra il piccolo uomo, mentre l’oceano orna l’orizzonte fin oltre le pareti e la paura è un pavimento impaziente per un pazzo pennello, coi colori perplessi della pietà: sì, piove sul poggio, quando il ponte è abbandonato all’usura della gramigna e il vento graffia e ruba il mio calore e segna graffiti di speranza, se osservi un ibis o l’idea di Icaro, perché inaridisce la melissa e un tucano ti porta il fuoco dell’equatore. Sebbene il totem tagli l’aria torvo e un topo tossisca dietro lo strazio dei rifiuti, si spoglia il secolo dei sedimenti e scava la sua possibile salvezza alle radici d’un sambuco, dove una cetonia, dolcissima, brilla la lucida sua bellezza. Credo di rivedere la riva e il quarzo prezioso sotto la quercia delle profezie, quando il profilo del presente travolge e strappa ogni sollievo, e il solipsismo somatico sommerge il rituale sociale, smarrendo gli estremi rintocchi di un pendolo profano. Il proemio annunzia la preoccupazione delle prerogative del sottoproletariato e il potente presagio piega i pensieri, se il pastore mena le greggi sul colle dei lamenti. Io, lancio l’interminabile interpretazione della mia identità e la fiamma dell’esasperazione: mentre un incubo cadenza sull’incudine il suo indecoroso rigurgito, inciampa incerto questo mio inchiostro sulla carta e svanisce l’incanto incandescente della grandine. Di nuovo la notte fodera la nostra favola e la febbre chiude gli occhi alla tirannide del sonno.
Mercoledì
Se al risveglio una feluca taglia veloce l’acqua e un fischio gioisce incredulo, quando una lucerna finalmente spegne il suo splendore e incomincia a riposare, dimentichi Atropo e le sue sorelle e ritiro la paura della notte e scherziamo con la tosse, mentre già i salmoni risalgono i fiumi e i loro salti convulsi vagheggiano la difficoltà del vivere. Prevarica il prezzemolo dal suo vaso e il mirto offro indifeso a Venere quando la malìa della città indica l’impeto impersonale del monotono, l’esteta cade goffamente per un giunco, e finalmente un maggiolino lascia la larva annosa e gode la sua breve luce. Nel magazzino una ginestra parla con Ermes e nasconde i rilievi statistici, se un rondone, e le sue lunghe ali ruotano alte, ché sanno i pericoli mortali della terra, Saint-Simon ridistribuisce le sue quote e i pròdromi rivoluzionari.
Chi ha inventato la campana e il suo suono di speranza? E il cigolìo timido di un carro su una strada bianca? Febbrile risuona il passo del viaggiatore, quando il clarino distende la sua armonia raffinata, se appisolati si sogna la casa o la donna, scende la nostalgia e il sorriso, come una preghiera per gli emigranti e gli esuli, quasi un salmo biblico, o forse l’emozione a un verso di Pound. Una radio passa le pareti e i suoi canti trafiggono il silenzio, ma per chi sta nascendo si aprono i cancelli del dolore e dell’illusione, mentre qualcuno gioisce alla loro vita, e riso e pianto alternano già il battito futuro del futuro. Come leggere Pavese e non amare la nebbia, e il rìgolo di sole che si affaccia e la fende e ti macchia gli occhi di luce?! Ma il mio tempo corre su altre strade, se la disperazione non paga biglietto sul treno e fugge clandestina ovunque, quando le greggi, immobili e silenziose, lontane, a testa china, strappano alla terra l’esistenza loro, già il grande Sören dorme e due giovenche ruminano nella stalla calda con la paglia che puzza. Sull’aia, al sole, dormiva il cane come morto, disteso sul fianco e giù Mirella e Sante, quasi a valle, raccoglievano trifoglio, mentre i corvi lanciavano i loro rantoli, dalle rovine della casa di Ugo Benelli buon anima, io vidi una volpe saltare il fossato e sparire nella macchia. Se nessuno saprà ridarmi quel che ora sto solo ricordando, lasciatemi allora su un pagliaio e il mio cuore ringrazierà il cielo, rosso al tramonto, come ogni volta che voglio parlare con Dio, mentre un folk-singer riecheggia Dylan, e l’armonica riscopre sommessa il segreto dell’arte, già s’alza un vento caldo che turbina di polvere e di sabbia. La fortuna mutabile fa violenza al fortuito e un forziere sulle rive del Giordano apre a Giovanni Battista la gioia e il giubilo del giusto, quando la gloria guarda l’Incarnazione, e il libeccio sferza da ponente un licaone: tu puoi regalare un lilla se mi ricordo Gulliver o anche gli esquimesi e il loro silenzio bianco, appena fuori la fantasia, e mentre al grido dei gabbiani, con il mare sotto il tramonto, sogniamo il limite perduto, c’è un melo che disegna una miniatura con la sua ombra.
Appena si esaurisce l’esaltazione esamini con esattezza l’esasperazione della giornata, se la gioia gocciola umori goffi, il fumo imita l’armonia inarticolata dell’inconciliabile, e un lenzuolo libero, sospeso in aria, batte al vento il suo disegno, perché un coro orchestra un paradiso di musica e una mandorla, nella sua drupa, cade e rimbalza sulla ghiaia. C’è fragore tra i fiori per il ronzìo eccitato dei bòmbici e un bue sussurra qualcosa all’aria, se la cantàride nasconde l’afrodisiaco, per un canto di bambina nasce già la gioia dell’epos, quando Teocrito cavalca un ippocampo e il fieno fresco regala il sole al cielo. Se uno stordimento esplode tra il grano, abbracci gli altri per un momento, mentre duellano due dònnole, e un cuculo raspa nella crusca, sotto la cisterna, con la resina calda che solidifica il suo lento defluire. Stupisce un moscardino se brilla il mito bucolico e gracchiano le taccole, ma il loro rumore smorza la cadenza nei cantucci della mansarda, e dondola inutile l’esca di un pescatore preso dal sonno, fuori l’acqua. Vibra di nuovo l’oscuro grido del gufo e l’ansimante sospiro d’amore del barbagianni, a notte fonda, nel solitario campo di orzo, davanti alla pergola piena d’uva e alla paglia ammassata.
Partorì a 51 anni, e lisciò il piccolo come una giovane, quando un leone sbadigliò e cadde l’ora della leggenda: ma una lapide ha scritto la loro morte nel gelo: se pensi che un knut possa svegliare il loro viso freddo, perché non sferzi con esso l’aria e canti negli ipogei gli interludi dell’insanabile? S’infiamma la rabbia per l’impotenza e se l’indegno visitatore non porrà l’indice implacabile e non impiglierà la sua serenità in quelle righe graffiate sul marmo, potrò soffocare l’impensabile impeto?
Getta l’incanto su questa piccola aia di paese e il banditore sputerà sull’argilla umida di pioggia, ogni volta che un ibis affonderà nella palude ubriaco, se il contrabbasso suonerà in falsetto, cadranno i ciottoli rotolando in basso e morirà il furore, sciogliendo il suo veleno sul sentiero alla chiesetta.
Corrono due vitelli sul pendio declinante e un cane gioca a ritmo di samba, quando ritrovi un vecchio amico perduto, se la pioggia lucida l’asfalto e il lamento, soffri, del lupo e dei vecchi mendicanti, gli eremiti sotto i ponti già puzzano di morte. Comanda i suoi incantesimi la figlia del Sole, la seduttrice Circe, e i commediografi commemorano la discarica disastrosa dell’estremo Edipo, intimidito eroe di madreperla, quando ormai due tortore eleganti trasvolano tra le foglie e le piume, mentre un desiderio sigilla le liriche di Quasimodo, e un pecari caccia la lince su un cactus. Il codice crudele del cròtalo estingue ogni fantasia e la febbre grava l’invito islamico all’oblio, se una melagrana perpetua il sogno di una favola invernale, quando la meretrice procace, ride risentita e gli occhi scorre scostumata, una selce serra sette granchi grigi e un icosaedro rotola nell’infundìbulo ingrassato di olio e di rugiada.
Al tramonto, l’egizio gioiello arpeggia le note del nibbio reale, sereno osservatore della notte, perché sulla pergola l’uva ancora verde e il pistacchio mediterraneo preconizzano il rullìo dei timpani, mentre un provenzale ricompone il rimpianto delle rondini e un rondò si ripete scherzosamente, fin oltre lo schema scismatico della Sorbona. Il suonatore ambulante che pesta il suolo fratello, quando il ribes schiacciato sotto l’erma di Platone è piaciuto a un pettirosso, e un pettine cade in periferia da una pensione, è già forestiero di pace, come un ostello scuro, e il legno di un bosco che fuma silenzioso la sua umidità.
Tiro il legaccio per annodare con più giri la leggenda della mia vita, mentre una gerla di pane cade sulla polvere arroventata di febbre estiva, e nella palude gocciola smarrito l’umore del ginepro, se il giunco flessibile sfiora il vento e l’acqua e grave s’increspa l’ombra della notte.
Giovedì
E l’onda riprende lo sconosciuto respiro e flagella senza tregua i sassi, quando il fumo di un tizzone di brace rivela un fulmine caduto e i cavalli scalciano nell’aria tranquilla, il figlio del pescatore raccoglie la rete esausta, se le nostre fatiche fuggono la terra e il mare, ancora le bacche si fanno rosse, cadendo sulla roccia e i rovi, inutilmente. Ma l’avventura rapida della vita è sconvolta dalla fortuna odiosa, mentre la folla corre sventurata nel sangue e la morte sicura siede sotto il ponte, l’inventore grida per le strade sotto le mura del paese, e c’è il cuore che batte nel sonno di un bambino.
Io canto il veleno deluso di una speranza difficile e il travaglio mortale del parto e la condizione umile d’ognuno, chiunque gioisca e spaventi della serenità di una interiore pace, mentre la rovina alienante incatena l’eco di un mondo sepolto e lo sconosciuto cielo ti chiama al pianto, se il mesto verso vendica la semplicità dell’amore, un tramonto luminoso bagna il corpo sconvolto e gli ultimi oceani del ricordo.
Diurno divagare, allontanarsi distratti dal disumano dittatore e invece del disturbo doloroso della colpa esprimono il fiabesco ballo di tre folletti, appena un funambolo, tra i fumi dei camini fugge la gabbia giornaliera e una giovane giraffa in una giostra gonfia la gola di gemme, e goloso e grasso un orso raschia un tronco, grava il grido del guardiano ideologico, quando incompatibile la libertà mormora al margine della vita. Il pane d’orzo beccato da un passero e un pennello nella penombra che segna pensoso il perimetro del pensiero, persuade la poliarchia dei poveri al preludio premuroso della propaganda: quale pronostico rappresentare ai rivoltosi? Forse la rivoltella e il riverbero scellerato dello scandalo o lo schianto semplice dello sciopero? Scende pesante il sonno agli occhi che bruciano per sognare se t’assale per tutto il rimpianto della fine, appena quando la luna filtra da un’imposta di persiana e il grido lontano di una civetta si perde sfumato nel silenzio, pochi rumori e i battiti del sangue e i passi di un sonnambulo e ancora i vuoti e gli attimi e … ultime cadenze che ci signoreggiano. Ma la pioggia allaga i balconi e negli occhi metallici di un gatto, al riparo, se sfiora il vento increspando il suo pelo, quando l’asfalto ridà l’immagine lucida della sua ombra e batte il ritmo di pioggia un lento stanco scendere di rivoli, vedo tristezza antica, quasi nostra. Se l’ombra di un ramo secco si apre con le esili sue mani un varco di luce o di vita, quando il passo goffo di un tasso forse qualche anno fa mi fece ridere di gioia alle lacrime, e qualcuno ripete il ritornello di un rituale ritmico, retaggio di un liuto antico e si fece sentire solo attraverso il sibilo discreto di un grillo o il rumore distorto dell’ignoto, allora ricordo meglio le illusioni di tutte le voci inascoltate, delle tante speranze sfumate, di quelle ambizioni rimaste tra pochi. Chi può parlare di tutto quello che non è rimasto semplice possibile? Il mondo di chi aspetta è nei gridi perduti e nel vuoto, quasi flebili accenni di gioia o di rabbia, se incapaci a varcare l’Ade della distanza, della solitudine, una mano mai arrivata ad afferrare, e poi il sorriso stanco di chi è stanco, come una vita che non è giunta a nascere, mentre il mondo ride dell’invisibile e cade nello sgomento per un accordo di chitarra lanciato tra le piccole case di un borgo, allora la regina m’incontrò, mi disse e mi pregò: così canto la sua folle regalità, la follia di povera demente, per la sua dignità sprezzante e la sua solitudine. Venero l’urlo di una sorella che si spegne in un “giardino d’infanzia”, mentre camici bianchi controllano angoli e uscite, se il suo pianto è analizzato e controllato e schedato e giudicato, come non volere con lei, come non essere re, nascondersi o forse… Allora il sorriso coprirà la piccola pianura, il confine, come sottile lembo trasparente, e correre e rotolare insieme l’assurdo gioco dell’esistenza. Si fermò d’improvviso, quando fece un nome, lui, l’Uomo di Bethlemme, «lo conosci?», «sì, era anche lui re», e via di nuovo a ricordare, allora la piccola strada di sassi, e il Tempio greco, e le pietre di lava e la vecchiaia, la paura, un corpo fermo che vive, sente, uno sguardo che non arriva, come mano che non afferra: di nuovo il possibile, di nuovo ciò che manca, di nuovo ciò che non è. «Perché?» chiede. Scende un vespro di fuoco, mentre cinque nottole sibilano il serale perlustrare e il volo irregolare e le ombre e di nuovo la paura. Il “giardino d’infanzia” ha chiuso, non si entra dal cancello, ancora fuori lei, ancora da parte, ancora in disparte… La mia sicurezza, quasi un retaggio d’indipendenza, si perde negli occhi della regina, mentre le nottole e il loro sibilo macchia l’aria di un’area strana, e le ombre dei cancelli, come tante lance, e la casa, dentro, in fondo, illuminata, giallastra, forse qualche rumore, sì, risa, piatti, porte che chiudono pesantemente. La regina è libera, vive, è tra noi, anche se braccata e canta la sua illusione con me, se c’è altro, un coro, tanti re, tanti discorsi mal riusciti, tante carezze incomprese, tanti inutili tentativi, tante speranze sfumate.
Cadenza l’errore con ritmo grave, se, di nuovo sveglio, rivesto la pelle di tutti, mentre una spogliarellista, in un covo di soldati, ammicca col suo seno, tra luci fastidiose, offrendoci il corpo, allora, invitandoci a un falso coito, tra fremiti e fumo e il caldo, dimentico la regina e corro tra le gambe di lei. Struscio sulla sua pelle, odoro la sua carne, e l’illusione è ancora ciò che sfuma. La giovane gira tra i tavoli, nessuno osa afferrarla, nessuno la tocca e lei continua, ripete l’invito, gioca per ciò che non avverrà, scherza con le nostre illusioni, frustra i nostri desideri quando frena i nostri slanci dopo averli nutriti. Si avvicina anche a me, ma io sono un re, e lei mi chiama. La mia sicurezza, quasi un retaggio d’indipendenza si perde negli occhi di lei… Speranze sfumate, tentativi inutili, carezze incomprese. L’equivoco è l’esistenza; il gioco crudele: squallido mio pianto mi accompagna fuori dal covo, dolente, verme che ha superato il possibile, anch’io condannato e colpito. Il passo irregolare e ferito mi accompagna a casa, mentre poche automobili corrono alle spalle, se la vergogna e la rabbia scioglieranno il pianto nel sonno; la notte mi darò una nuova veste. Domani è di nuovo l’inizio.
Venerdì
Risalgo i ricordi all’alba e vecchie, meravigliose, lontane nostalgie, quando ricompongo la luna della notte nell’acqua del torrente, tra i sassi e le rane e la pelle le zanzare assalgono leggere e il sentiero di rami secchi nasconde le piccole fragole agrògnole, le ortiche e il respiro stanco, della salita e i rumori strani, col sudore e i cavalli che sbuffano nella radura, allora il sole mi copre gli occhi e un Clipper americano scivola tra le onde verdi di alghe, mentre frugo tra le aste filiformi delle albanelle il pulviscolo luminoso del bianco cielo di luglio e c’è laggiù un coro di folletti alle radici di un grosso tronco aperto e un sospeso silenzio di attesa, quasi l’ultima riserva la fantasia sconfitta. La vigilia della distruzione trascorre nella rabbia di un’armonica che graffia note di preghiera e l’urlo di paura e lo sgomento e l’impotenza del coraggio, però ancora quasi tutto come prima. Continuo, sì, continua anche tu: se si affonda, come vascelli a un estuario, qualcuno cercherà negli abissi i nostri tesori sepolti. Ma ecco affiora presto il profumo azzurro del mattino e la pelle spolvera il torpore come lamine di talco, quando una scala poggiata su un forno di campagna filtra l’odore del pane e della menta, se grandi lumache scivolano nella bava all’umido in silenzio, e il grigio bue cadenza paziente sul selciato il flemmatico passo, anche sul sentiero pieno di sterco e sui margini di sassi, mentre una donna sale in sé raccolta, un masso in bilico e il declivio e le abetaie fissate all’orizzonte, ancora il segno immaginoso mi accompagna come l’ombra filiforme della pioggia fitta e chiara, e il soffice muschio, dall’umido odore che incontrai l’ultimo giorno di festa al bivio latteo dell’abbandonata adolescenza. Dal momento in cui il quartetto di archi e la melodia limpida di Händel rifluisce dalle zolle scure e grandi della pianura, e sfugge dalla siepe una faina ansiosa già fiutata dal setter, una vecchia radio ronza ritmi distorti e parole insensate, se quel bianco rugoso contadino per mano la bicicletta accompagna lungo l’ormai esile lastra di muro antico, aperto dai capperi e dalle radici di nodosi ulivi centenari per i contrasti netti del sole e delle ombre mediterranee vola nel torpore l’ape regina sulle coste della Magnagrecia e la fecondità epica trasporta. Ma la delusione dei giorni contati uno ad uno e trascorsi seduti a fissare nel vuoto, magari col piccolo cane sdraiato sulla cicoria e l’acqua, che scivola dentro la pompa, se le mosche intriganti e la pergola d’uva macchiata di acqua di rame, le pesanti zucche fra riccioli spinosi e il grido al lavatoio col tonfo del risciacquo, quando qualche nota di jazz asciuga l’umidità, bruciano lo zolfo sui tronchi perché crolla il ramo al peso di mele ammassate, e becca il tordo le bacche sul sasso di tufo.
Alla cava il grido degli operai è canto antico che ritma i colpi nel ventre della pietra, mentre un giornalista pieno di sé, caccia inutili illusioni morendo senza scampo il richiamo dialettale della donna nascosta è fruscìo nel vento, suono senza distorsioni. S’alzava, in genere, il piccolo tourbillon di foglie e la renella del fiume ingoiava le esche per trote, ma un gruppo di piccoli nudi bambini bagnava alla luce una risata di spruzzi, quando la volpe s’avventurava per la strada maestra, disperata di fame e di paura, l’eco di un urlo rimbalzava tra le foglie alte rincorrendosi. Un fischio sereno del flauto, in re forse, accompagna una cavolaia nel suo irregolare perlustrare, quando la vipera attende il sole sulla pietraia e i girasole parlano ai rari passanti dietro il recinto, coi tre sentieri paralleli, su via della Torre Saracena, quasi mentre il verme apre un sentiero tortuoso nella ambrata renetta, e il male incurabile, senza nome, uccide e scopre l’impotenza nostra. Mi volto a una giovane donna alle prese con le sue mestruazioni, mentre Harry Belafonte ricorda quegli anni vicini e insofferenti quando un piccolo essere si avventura tra il bosco di peli del mio braccio, la sua avventura faticosa ed eroica e retorica, conclude nella spietata analogia: noi pure sul braccio di Dio.
Un giovane assassino sgomenta gli arcangeli e le bancarelle di Porta Palazzo, dove si parla di un tassista ucciso, ma lucciole innocenti illuminano il vicolo scuro di sofferenza, e un rapimento preme alla piccola porta lignea della cantina, anonima ironia di un tempo violento appena immaginabile e le ruvide vendette di un paese di faida.
Lo scheletro in campagna della vecchia cattedrale alloggia i corvi, e osservano indifferenti i bambini chiassosi e le corse con la palla e lo stagno chiaro in una rientranza del fiume quando l’urlo dello stadio e la gomma masticata nervosamente e la tensione della gara rende ansiosi i viali attorno nel silenzio deserto, se le pause del clamore e gli improvvisi scoppi di ira accelerano il battito del cuore e innamorano fino alla conquista, mentre il passo veloce è più veloce e cresce la rabbia del ritardo, cade il riccio di platano sul tombino e rimbalza e tornano i corvi gemendo nelle loro nascoste case. I comignoli sulle vecchie tegole parlano di una favola sfumata e zoppicano le figure di aria grigia a lungo prima di sfaldarsi nella foschia pungente tra i vetri opachi e sporchi di una soffitta, quando scende nel lungo tubo nero lo scarico delle fontane gelate e le mani rosse tuffate tra i geloni spaccati dal sapone, sul granito le camicie stese davanti la ferrovia, mentre l’olio unge le rotaie che sfuggono saettando lontano nella convergenza infinita, di una vecchia contadina scura risuonano le cadenze sul ponte e il soffice pesante fardello sospeso sulla sua testa. Nel silenzio della cucina vuota, un ritmico martellare di goccia in un catino di plastica e dondolando la spenta luce di una lampadina che disegna invece ombre e volumi e vuoti sulla parete a calce, ristabiliscono un antico ipnotico equilibrio giocoso, come tra i rovi le more gradiscono il sole e la polvere, quando la legnaia umida irrora l’aria di terra e pioggia, un’evasione arresta la molteplice linea nel corso di un giardino, appena la corsa si fa strategia e ogni decisione punge come spine di rovo, come foglia di mora che attacca, graffia e non lascia. Laggiù, nel grande campo, due chinate figure umane di lavoro, vesti scure sotto il sole bianco che sembrano fermati scompaiono: la lontananza vanifica i loro gesti e tutto è perduto nell’immobilità, forse anche lo sguardo li vuole così, traccia di pennello, se il vento appena ondeggia le forme e sai amare i tuoi fratelli nel lavoro.
Uno sguardo si è accorto liberandoli dall’ignoto ignobile, e una linea curva è la gioia della bellezza, quando uno schizzo di ricordo a carboncino seduto al marciapiede riparla quel dialetto, il campo è un foglio senza limiti se di nuovo rincorri quel breve sguardo e il disegno illuminato del gesto senza eco, muto e fermato per sempre, c’è il rivolo poco oltre, per poco nascosto dall’erba filiforme e intensa, più ancora vivono le cicale nella distesa di arsura calda, tiepida melanconica risata di vita, e cade scivolando sulla pietra l’acqua da un dislivello, battendo un ordinato fragore, per il ritmo che le è essenziale. Il liquido corre sulla pietra lucente che ha i piedi nel muschio del greto, per pochi attimi si asciuga all’aria prima di ribagnarsi e di nuovo per sempre se nei solchi staziona incerta quella goccia, mentre stride sulle rampe il freno di una corriera e il chiasso del clacson alpino, ti chiudi al freddo improvviso e le finestre dal legno chiaro serrate, qualche breve canto, risate al piano terra e la lunga pausa del sonno. I pesanti respiri accavallati e il pavimento di legno che rumoreggia scricchiolando cullano gli ultimi pensieri della giornata e gli occhi pagano il tributo inesorabile all’umana stanchezza.
Sabato
Il risveglio è brusco mentre la partenza consuma con violenza gli ultimi attimi quando si lascia la croce lontana della chiesa minuta tra le pozzanghere del sentiero, misura la smorfia attonita i piccoli rumori e separa il rancore dalla necessità e si torce un bruco su un tronco in acrobazia, se l’alsaziano rimbocca i bianchi calzettoni e la sua pipa gorgheggia fumi aromatici, la luna segna ancora il cielo di pallore e s’alza pigro il sole stendendosi dietro il colle, tuttavia ancora rami di saggina sparsi ripercorrono l’ultima pulizia e i passi della sera prima, quasi ad allontanare ciò che ci è appartenuto. Un pianoforte cadenza tranquillo e pieno un ritmo di Gershwin, mentre il prisma divide le ombre e faccetta una figura esile di donna e due occhi grandi e i colori della savana, appena termina la stagione delle piogge il francobollo ricuce piccole miniature fantastiche, quindi il rullo gira e ancora gira, senza tregua, se scivolando un bambino corre sul pendio orientale, ormai nei ricordi di tre anni fa. S’alza il vento del deserto e frusta la lieve sabbia delle dune, toglie e dà e altre dune s’alzano nuove sul piano e le altre spariscono invece lentamente: il ritmo s’alterna continuo e il deserto cammina e l’infernale sua bellezza e c’è già tutto il fondo essenziale del mistero nascosto sotto il passo di uno scorpione assonnato, e gli occhi di uno sciacallo che intimidito nasconde la coda e le orecchie e tra incerte orme leggere sparisce muto tra quei sassi sconnessi del confine.
La costante assurda storia dell’uomo e della sua complicata raffinata sopravvivenza, quando le illusioni retoriche di una grandiosità restano impigliate negli esili intrecci del gioco inutile della cultura, e i libri e i discorsi e i doppiopetto e le strette di mano e i salotti infiocchettati se tutto non nasconde che sopravvivenza, come dicono, mentre l’avanguardia rivendica una cultura di ortaggi d’esportazione e capitali, monopòli e rivoluzioni, appena la scienza in cravatta perbenista accusa il grido silenzioso dell’asceta e la preghiera e l’occhio profondo dello zen come atti frustrati di un uomo ancora da liberare, come non deridere questo secolo di merda, e i suoi puzzolenti rivoluzionari dall’erre moscia, quei sindacalisti in marsina, quelle parole sullo sfruttamento che sfruttano chi di sfruttamento ha le piaghe profonde sulla pelle, fin dentro le rughe degli anni ammucchiati sotto il peso del lavoro nero? Come non vomitare su questa cultura demagogica, da multinazionale pure se mascherata da sinistra d’avanguardia? Perché non schifare società di basso profitto, quando il prezzo è il solo nome di ogni cosa, e ancora più infida se maschera i maneggi egoistici sotto il velo dei cannoni di un socialismo che è solo gioco di altri padroni? La rabbia deve tacere se non vuole essere imbrigliata nei sofisticati strumenti di aggressione e neutralizzata e castrata e incomincia l’ingranaggio: l’economia ti sacrifica sul suo altare e d’improvviso sei il paladino del partito; così, appena parli piove oro e la gente si masturba con le tue parole e si atteggia e si veste di esse e corre la parola di bocca in bocca come diarrea continua e accetti un ruolo proficuo e la tua antica rabbia è ormai gesto retorico e ufficiale, “protesta democratica”, voce grossa per impinguare coi voti le sacche senza fondo del potere.
Ma perché queste dure mie parole? Oltre la strada di fango, c’è sempre il canto di una tromba, solitario e sereno, dietro il vicolo della scala a pietra, dove le case rosse di Casal Bernocchi guardano la ferrovia e la precarietà del verde che sfugge sotto i colpi dell’inverno prossimo. Perché allora le solite aggressioni letterarie? Gli sfoghi nevrotici e la violenza mia in quelle righe?
Scende con goffa destrezza un piccolo ragazzo di paese e canta sulla discesa a lastroni una gioia sconosciuta. La vecchia stende le sementi e riannoda un fazzoletto scuro sul collo, e poche parole tra i due superano secoli di generazioni e l’alba da poco sveglia, punge con l’aria fresca gli angoli delle finestre, appena il grido di un asino, ripetuto e perduto nei campi, ritesse un collage di sensazioni, il dolore è presente e nascosto sotto i vestiti scuri della gente che conosce il ritmo cosmico, come una stagione, e aspetta morte e vita con gli stessi occhi di sapienza. E allora quel cavallo sulle zampe esili che strappa alla polvere la sua sopravvivenza quando al tramonto come un’ombra esile si nasconde e muore nel sonno, e la tromba e il suo suono, se è musica che s’aggrappa al cuore e gli occhi che alzi con debolezza mentre vola nel chiarore un barbagianni è ormai l’ora più silenziosa di sorella notte e per l’amica luna vedo le nuvole nervose che ti hanno circondato, e cado addormentato sul terrazzo, la sdraio del mare aperta sotto la lampada spenta di sonno. L’amico pipistrello mi annunzia la tregua e l’usignolo schivo nel campo e irripetuto saluta i brevi risvegli e qualche brivido nella lunga notte. Lì, c’è luce ancora di città, qualcuna, e se le strade e le case e gli angoli al buio nascondono i volti spauriti di chi vive nascosto agli altri, il vento soffia per tutti e il gatto rivolta gli occhi alla strada per l’incedere incerto di un mendicante quando il suo fazzoletto cade e resta sotto i passi del giorno ormai al risveglio.
Domenica
L’antica Ellade stordisce la testa quando vasi e colonne ordinate su un libro e il volo nel tempo fino alle tuniche chiare orlate sulle stradine pietrose di sole le rampe tortuose, se l’ulivo e il pino e il chiarore dell’acqua mediterranea, i versi e la tragedia e il suono di tamburi di capra, prima dell’oracolo, proprio dove un gregge muove appena sul campo il vaccaro sdraiato soffia nell’argilla e nel teatro risuona. Scivola il sudore sugli occhi del cavallo e sorride al poeta se la guerra e il sangue nella notte calda brucia al fuoco delle torce, mentre il coraggio del coro e l’urlo naturalmente ultimo ed eterno giù per la vallata fugge e le tartarughe cercano l’acqua, è nostro tutto questo anche se antico e perduto. Ma il gioco è finito, ora che abbiamo dimenticato e lo specchio, sì, lì vedo i miei occhi tagliati dalle palpebre, obliquamente, stanchi, e il rossore e le macchie sulla lastra e il fondo della stanza, sprofondare, in silenzio, con stordimento. Dall’ultimo muro un suono irrisolto, non decifrato, sale, come un fischio, ed entra, penetra informe tra le pareti, rimbomba, svanisce. Non c’è altro. Ancora riprendo, e lo sguardo, dal fondo ritorna davanti, per i miei occhi chinati, linee oblique sulla lastra e il mio viso, una smorfia, non l’avevo vista, la bocca è serrata, amaramente.
Il gioco è finito e la difesa, mia, da tutto, un rifugio, qualcosa, una prigione.
Le accelerazioni nervose dei primi autobus, la corsa all’alba, tra il deserto delle strade, un po’ prima di riprendere tutti, i primi risvegli, già stanchi, e il ritardo e l’ansia. Una corsa per la salita prima della svolta, e per la fermata, il respiro, il sudore, accalcati, una volta dentro, se pensiamo già alla giornata, sogniamo già il nuovo riposo della notte. Le lunghe strade d’asfalto fuori città serrano diversi impronunciabili ricordi.
Le piccole piazze di paese raggiunte con l’affanno del turista, improvvise, bianche quando abbagliano, al sud, coi vicoli di tinte scure e i passi fermi della vecchia, se una campana suona malamente il suo bronzo, ripetono le cadenze dell’umiltà. Cade nella rete il grosso pesce e ansima e si scuote nell’aria per una speranza di vita, la stessa degli occhi del giovane pescatore calabro, e poi il tonfo nella barca tra gli altri quando il freddo della giovane mattina frena il calore del sangue e lo raggela nel cuore e taglia le mani col sale e con le reti. Mentre rido a precipizio sul molo per un gabbiano maldestro, il canto dei burattini mi sveglia ai sogni dei primi anni e mi volto per lo spettacolo identico: l’eterno burattinaio che non invecchia e le sue storie, sempre le stesse da anni, da secoli?, quando sulle foglie umide e ammassate accanto ai chiusini mi fermai per l’odore di pioggia e un brivido improvviso di gioia.
Scendo la lunga e stretta scaletta, scivolosa di pioggia e le luci della città sfioriscono alle prime spinte del giorno nascente, col sole pungente nell’aria e i sogni per lo stordimento della notte appena salutato, se ricordo bene, ancora la mia vita ha una speranza. Perdi dal tuo correre il sogno rincorso tra le vigne bionde e azzurrate di vetriolo, e solo un figlio, piccolo, coi suoi grandi occhi, ti avvisa dello smarrimento: se c’è ancora un posto che ti sa schiaffeggiare e far piangere per poi chinarti su una lucciola addormentata e cogliere dal gelso il bruco cieco e lento, mentre una voce canta dal grano per la radura e lungo il sentiero una lambretta corre per arrampicarsi con fatica e gioia. Là, lasciai qualcosa, sotterrata, un segreto mio, mai d’altri neanche domani, il senso, o non so cosa, un bagliore, una raffica, qualcosa che è cresciuto con pazienza: quando lo sguardo s’appanna su quel casolare ormai in rovina, lì sulla collina, cade il cuore in fondo allo stomaco e un crampo, uno spasimo doloroso quanto l’intenso odore della serena linea d’ombra che mi accompagnò quei mesi, molti anni fa, sotto il bosco e la bianca strada maestra, piena di vipere, dove saltavano le volpi, e i tassi, nascosti tra le radici, stanati dal fumo acre dei rami resinosi. Rivoglio discendere la piccola strada del casale, quando la brina ancora dorme stesa ovunque, se s’alzano i corvi dall’avena e il sole ti chiama da poco. Rivoglio bussare alla porta di quella ragazza che mi turbò, perduta ormai, e la sua casa affondata tra l’erba medica e i canti sommessi degli usignoli scontrosi. Rivoglio bagnarmi nel torrente lucido di quella macchia sopra l’aia, per indovinare i voli dei martinpescatori, quando masticavo le bacche acidule e tendevo l’arco per chissà quale preda, se lievita e cresce l’ansia dei miei amari risultati, la vita me la gioco tutta in questo sogno e ridete pure dei suoi contorni: io rivoglio quella voglia amica e le piccole innocenti previsioni. Il resto canterà il ringraziamento.
S’alza lontana una sirena acuta e fende l’aria tagliando i rumori della città quando caoticamente si incespica negli altri e si maledice il presente sui marciapiedi davanti agli incroci. Il fumo copre il volo di un vecchio piccione, non più agile, se il passo studiato di una ragazza batte il ritmo di una seduzione millenaria. Parla il suo corpo una lingua senza errori di traduzione, e i fianchi pieni e ondeggianti strappano fuori dai vestiti un desiderio profano. Canta un ragazzo su una panchina e fischia note note, un motivo conosciuto nel sudore stordito di una discoteca scoperta da poco. Leggo qualche riga terribile sul giornale e rientro nel peccato quotidiano: mentre inesorabile il cuore continua a battere, rimpiango l’immobilità dell’ignoto e di qualcosa che mi corre accanto, se sputo a terra la vecchia rabbia, quando nel sottopassaggio l’occhio incontra il vecchio col suo mandolino senza armonia e le sue scarpe sfondate, si chiude l’anima nel sospiro insignificante della rassegnazione, e la puzza di orina dell’angolo, prima della risalita, non è che l’unica figlia riconosciuta quando chiuderò i conti.
Un odore di muffa riempie la casa, se dal chiostro tagliato da una spada di luce risalgo i vicoli del passato, e gli occhi poveri e inesperti indovinano una forma amica graffiata sul muro, quando lontano il mare cresce e si gonfia, allora la piccola nave temerà per il futuro e le gòmene fibrose incominceranno a intristire e a invecchiare rose dal sale. La manica si allarga per il vento e penetra un rivolo di ghiaccio per un brivido, mentre il medaglione oscilla mistico e muove a mulinello i suoi volti intagliati, quando la nebbia alla luce lattea del mattino naufraga e schiarisce la sua nuvola nuziale, allora ogniqualvolta l’oliva acre cade sulle radici della genitrice, pallido il pensiero pernotta. Calca il passo i vicoli appena dopo il ponte e la polvere respiri sui porti come profumo prodigo quando il progetto profano, come pretesto pubblico, possiede però il pudore di nascondersi. Ecco, rimiro sorpreso il rosso sbavato sul mare, e lo scempio sull’arenile, mentre si sfalda la mia sicurezza e si sgretola l’ostacolo solitario, la rupe sospesa e strapazzata. Soltanto allora straccio lieto l’inumanità del risveglio, e il veleno opalescente del potere. Cade qualcosa affondando nella pozzanghera e dal prato umido la primula dalle foglie ovali, pulita e pungente, rallenta refrattaria il suo ristoro, se lo sbilenco spaventapasseri scamiciato sciupa allo scoperto il segreto scongiuro del contadino, da un secchio sfondato s’affaccia sospetto il piccolo topo grigio, e spezza la spina sporgente di un’agave.
Affretto il passo, ormai agevole se altrimenti aprirà l’archivio l’arboreo basilisco e morirò guardandolo, quando il belato bianco di una capra carezzerà il chiarore, la civetta avrà colto nella curva ondulata del suo volo, il docile entrare del domani.
Domani
M’alzo pregando, non so, quando gli occhi improvvisamente trovano il risveglio, riposati perfettamente, come un coro chiuso sfumando, se il silenzio strano che assale per un attimo le strade, mi affonda nel sorriso di un sogno che soltanto per errore m’illudo di poter vivere, allora è segno che ancora si continua la recita. Nei labirinti appena intuiti della coscienza si affaccia timidamente un velo di paura, presto accantonato per l’irresistibile istinto del vivere, e le prime persone incontrate scivolano via senza fastidio. Difenditi dall’improvviso e ritorna solo sulla strada sotto il gennaio bianco, se non vuoi che l’arcaico simbolo del rifugio materno, t’induca al rimpianto timoroso e alienato, compagno della morte e delle tenebre. Profondo scende l’oggetto antico tra le illustrazioni a colori di una fiaba e il condizionale della fantasia è lo stesso sangue che scorre nella logica, se l’equilibrio piange la sua fame, per un capriccio dell’irraggiungibile, allora il cuore raggiunge la pena della rassegnazione, mentre vicino allo stagno del sud, i miei occhi si fermano sull’acqua, quando corre l’insetto dalle lunghe zampe e indovini cosa è nascosto lì sotto.
Bisogna abituarsi a vivere.
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