Si dice spesso che i cristiani con i loro valori, se davvero testimoniati e vissuti, creerebbero un mondo migliore. E ancora si dice che, al contrario, siano valori impraticabili, utopici, eccessivamente difficili da realizzare, astratti dalla vita reale con le sue problematiche e difficoltà. Insomma, entrambe le posizioni affermano la medesima cosa, pur da versanti diversi. In questo modo, in entrambi i casi, l’annuncio evangelico è trattato come un’utopia sociale, un diverso orizzonte politico e culturale che rivolterebbe il mondo e le sue regole laddove venisse applicato anche un minimo di valori annunciati da Gesù.
È una prospettiva ancora una volta riduttiva, che non fa memoria della distinzione tra generazione e creazione, pensando che il livello di verifica e valutazione ed intervento sia unico.
Il compito del cristiano non è cambiare il mondo. Non è quello di creare un mondo umanamente perfetto, dove tutti si amino, dove regni la pace, dove per solidarietà animale tutti si diano una mano per aiutarsi, dove tutti abbiano dignità e lavoro, dove ogni persona possa realizzare pienamente le sue aspirazioni ed essere felice, dove i giovani trovino lavoro, dove non ci sia più mafia, ecc. Il compito del cristiano non è quello di aiutare a costruire una sorta di paradiso in terra. Questo è ateismo, altro che finalità cristiana! È ateismo, cioè assolutizzazione dell’orizzontalità della vita, dei suoi pseudovalori, della precarietà eretta ed eletta a scopo. A scopo di che? Della vita! La vita rincorre il suo bene-essere, come fa qualunque materialista. Come fa qualunque organismo vivente, animale o vegetale. Mera autoreferenzialità animale.
Se si deve essere “lievito sulla terra”, allora la testimonianza cristiana è lì a proporre un altro ordine di valori, valori trascendenti, una pace che niente ha a che fare con quella rincorsa con le armi o per mera difesa egoistica del proprio sulla terra; un benessere che riguarda la quiete dello spirito, un tempo che si consuma sapendo di aver già avuto il proprio compimento nell’evento della Resurrezione, che è consapevole di quanto siano poca cosa le tecnologie, la carriera, i soldi, la vanità rincorsa ovunque, le illusioni politiche e le lotte che ne seguono, la banalità dell’esistenza. Una banalità che solo il Cristo ha redento e che ha dotato di significato.
Guardare con distacco la vita, non significa toglierle valore: significa volerne uno superiore. Se questo sguardo superiore, una superiorità che viene dalla Rivelazione e che si riversa in ogni cristiano nell’idea della gratuità e del servizio, porta a cambiamenti sociali e a miglioramenti nei rapporti umani è conseguenza, non scopo, è risultato, non fine.
È l’amore che permetterà di riconoscere chi è discepolo di Cristo. L’amore entro la generazione è partorito da una condizione di caduta, di peccato e non può, per la natura della sua scaturigine, redimersi ed essere valore: la filantropia, per quanto disperatamente rincorsa nella solidarietà della specie, è comportamento animale, orizzontale, dove ciò che conta è il raggiungimento di uno scopo, di una finalità giudicata utile, difensiva, perpetuatrice. Qui l’amore non è mai tale: né quello della solidarietà sociale, né quello di coppia. Se infatti è la dimensione generativa ad esserne l’orizzonte, questo amore non può assurgere a valore in quanto radicato nella precarietà, nel transeunte, nella interscambiabilità, nella soggettività opinabile. Un contesto negativo non può che produrre prodotti negativi e la positività può tutt’al più assurgere a identità “meno negativa”, ma mai positiva. Ciò che si produce storicamente può essere una cosa, ma altrettanto lecita anche il suo contrario. Come fanno l’amore e la solidarietà, in questo contesto, ad essere valore, se le loro radici sono marce e la loro fine è segnata dall’effimero che la nutre?
L’amore può essere valore se non è opinabile, se è assoluto, cioè se supera il livello orizzontale della generazione. Per questo motivo Gesù ce lo ha rivelato. E non ha rivelato qualcosa di banalmente già presente e diffuso, cioè quello che inflazionalmente viene definito comunemente “amore”. Ma la qualità radicalmente diversa di ẚγαπáω da φιλέω. L’amore cristiano è valore assoluto. Se sul piano orizzontale della generazione sono accettabili entrambi in quanto equivalenti, amare o non amare (è persino possibile l’ossimoro “uccidere per amore!”), un cristiano non può che amare. Per lui l’amore è valore assoluto, trascendente, sovrastorico, sovrannaturale (di qui l’indissolubilità del matrimonio, non imposta, ma condizione conseguente). Non interessa l’utilità, il ricevere, i vantaggi che se ne possono avere o altro. L’amore, per il cristiano, è prima di noi, ci fonda e ci orienta: l’amore non esiste perché l’uomo sa amare, ma l’uomo ama perché l’Amore ci pre-esiste e dà senso autentico al nostro amore. Senza raccordo con quell’Amore che ci pre-esiste, il nostro umano amore, per quanto grande e appassionato, è condannato al declino, alla morte, alla precarietà. E non supererà mai il livello della filantropia, che, a suo modo, ciascuno a suo modo, caratterizza il comportamento di tutti gli animali gregari.
In un certo senso, il cristiano non può scegliere di amare o non amare: l’amore gli è consustanziale. Per chi non è credente, l’amore è un fatto soggettivo, una scelta privata, storicamente, sentimentalmente o altro fondata, ma equivalente, -per le stesse ragioni- a chi “sente” o “prova” sentimenti opposti.
In un contesto caotico come quello odierno, dove proprio il termine “amore” risulta il più inflazionato e, dunque, carico, semanticamente, soltanto di ambiguità, chi dovrebbe fornire, per mestiere, la via dell’universalità e del superamento dell’opinabile soggettivo, diventa un ulteriore fattore di confusione. Da anni siamo alle prese con un Pontificato impegnato socialmente e politicamente, più Barabba che Cristo, che piace alla gente (come già all’epoca scelse Barabba), ma che non provoca conversioni. In effetti, conversione a cosa? A finalità sindacali e politiche? A umanitarismi filantropici di gregarismo e solidarietà animale? E che bisogno c’è di essere cristiani per tutto questo?
Quando leggo «la misericordia non è un privilegio del credente. Ben lo sapeva Cristo allorché narrò la parabola del buon samaritano» (Lucio Lombardo Radice, Figlio dell’uomo, in I. Fetscher, M. Machovec (a cura di), Marxisti di fronte a Gesù, Queriniana, Brescia 1979, p. 26) trovo, purtroppo, conferma di come per secoli non si sia fatto capire il monito di Gesù: «Da come vi amerete riconosceranno che siete miei discepoli” (cfr Gv 13,35)».
È davvero la stessa cosa come asserisce Lombardo-Radice? E come crede lo stesso attuale Pontificato?
Possiamo confondere filantropia e carità? Amore orizzontale (dunque relativo) e amore fondato verticalmente (e dunque assoluto)? Possiamo confondere ciò che, affidato alla linea della storia è destinato a mutare, a ricevere varianti soggettive e a finire con ciò che, come assoluto, ci pre-esiste e di cui siamo umili partecipi e che non finirà mai, perché ben oltre ciascuno di noi? Davvero possiamo confondere lo slancio verso l’altro per mero gregarismo animale con lo slancio di chi, consapevolmente, sa che l’altro è immagine dell’assoluto? Davvero si può pensare che trattare l’altro come membro della stessa specie e quindi da richiedere solidarietà (come fa qualunque animale gregario) sia la medesima cosa che trattare l’altro, anche il nemico, come fratello perché figlio dell’unico Dio?
Per chi non crede amare l’altro essendo basato storicamente, cioè sul relativo, sul transeunte, sull’effimero, sul soggettivo, vale quanto il suo contrario: niente può sorreggerne autorevolmente la superiorità di valore se non l’utilità (criterio pericolosissimo e reversibile nel suo contrario, se in condizioni diverse) o la istintività naturale (che nulla ha dunque di umano, ma che è semplicemente una solidarietà animale di specie). Se l’amore, la misericordia o la tolleranza o qualunque altro tipo di valore che pretende di essere “positivo” si regge sulla relatività storica, soggettiva e opinabile, reversibile e interscambiabile, tutto questo vale esattamente come il suo contrario, il vivere per il proprio tornaconto, per il proprio esclusivo piacere, per se stessi.
Un cristiano non ha questa libertà. Per definirsi tale, essendo per lui l’amore un assoluto, non ha alternative. DEVE amare SE vuol essere un cristiano. Ho usato la parvenza kantiana di un imperativo per dar forza all’affermazione. Ovviamente l’amore non è un dovere, ma per arrivare davvero ad amare, bisogna educarsi ad esso e inizialmente lo è, è un mero dovere. Dunque, «da come vi amerete riconosceranno che siete miei discepoli» diventa davvero un’identità unica. Amare il proprio nemico significa giungere a una educazione all’amore che perviene sino alla estrema alterità terrena, il nemico. Oltre, umanamente, non c’è alcuno. Amare il proprio nemico, significa niente altro che esser riusciti ad amare ogni uomo. L’altro da amare non si sceglie, neppure nella coppia. L’innamoramento sceglie per noi e di lì comincia l’educazione a fare dell’altro il nostro fine, la nostra gioia, il senso della vita, la felicità, il piacere, il valore. Solo così l’amore non ha alternative, non “finisce”, perché lo si è ancorato all’assoluto, non al relativo.
Quando si sente dire “l’amore finisce come ogni cosa” è vero se guardiamo nella prospettiva storica. Ma l’amore non esiste perché noi lo pratichiamo, non ha i nostri limiti, le nostre cadute, i nostri fraintendimenti. L’amore ci pre-esiste, è Amore che è a dispetto di ciascuno di noi e del quale noi possiamo soltanto essere partecipi, senza fare come “La volpe e l’uva” della celebre favola di Esopo: se non arrivo a prendere l’uva, dico che l’uva è acerba. No, l’uva è buona, sono io che non riesco ad arrivarci. Se non riesco ad amare e se l’amore per me “finisce”, non significa che l’amore finisca, ma che io non sono stato capace di amare.
È umano? Certamente è umano. Ma non facciamolo passare per norma.
L’amore non è neppure questione di fortuna. Ho sentito più volte dire “ma tu sei stato/a fortunato/a a trovare l’uomo/la donna giusti. Non si tratta di scegliere. Quale sarebbe il criterio? Se è l’io, l’altra persona è accettata e amata quanto più mi rassomiglia o mi è affine o ha “molte cose’ in comune con me”. Cioè sto cercando qualcuno che mi assomigli molto: il modello è Narciso, che si innamora di se stesso.
Se il criterio è il “tu”, allora, quel/la tu di cui mi sono innamorato/a diventa il mio fine e, di conseguenza, non ci può essere rottura, separazione, divorzio o altro, perché è il mio assoluto.
E come “amare il proprio nemico” fungeva da estrema alterità e misura delle proprie capacità di amare, riuscire ad amare, nella relazione di coppia, ciò che ritengo i suoi difetti è la chiave di volta che impedisce ogni finitezza al rapporto di amore. Ogni rottura di rapporto non può che avere come riferimento assoluto l’ego: non mi piace più, non mi appaga, non lo/la amo, ecc. Se il criterio fosse davvero l’altro, quale rottura ci sarebbe?
E in questo quadro di confusione dove si parla di amore ma in realtà conta soltanto l’ego non possiamo che avere conseguenze di una “civiltà” che lascia che l’amore si esplichi “naturalmente”, e che, per tale motivo, non è e non viene educata all’amore. E così: stupri (trattare l’altra come merce da consumo per l’io, come avviene in natura, dove lo stupro non esiste perché il maschio ci prova sempre ed è la femmina che stabilisce i tempi), violenza sulle donne (in un contesto di “valori” animali il maschio fa prevalere in certi casi l’unica sua meschina risorsa animale, naturale, cioè la forza), guerre (la solita rivendicazione del proprio territorio, del proprio “spazio vitale” come fa un qualunque animale); razzismo (guai se un membro di un’altra specie entra nel territorio proprio o fa cose che sono ascritte alle proprie prerogative. Provate a mettere una formica nera fra formiche rosse o viceversa, un nuovo membro di specie in un gruppo consolidato, dove persino un cucciolo viene respinto…); aborti (l’altro non è ancora altro, ma “quasi un niente” di cui posso sbarazzarmi perché ha invaso il mio corpo in modo inatteso, imprevisto, non-voluto, indesiderato, inopportuno, ecc. E’ una mia proprietà e ne faccio quello che voglio);
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