ANIMALISTI e dintorni: Di recente è nata una polemica sulle frasi e su certe scelte che Bergoglio avrebbe detto a proposito di cani, gatti e conigli. Mettendo bene in chiaro la distinzione legittima fra esseri umani e creature animali, sono insorti contro il Papa istituzioni animaliste e affini, scandalizzate che si ricordi che l’essere umano sia un vivente ben superiore, e lo si dica a chiare lettere, di qualunque altra creatura animale, se non altro perché può lui e lui solo distruggere il pianeta con tutti i suoi abitanti animali. È chiaro che questa superiorità non si misura sul male potenziale di cui è capace, ma questo aspetto è un preciso indicatore che persino la protezione della natura e degli animali è una scelta tutta umana. Cosa ne sappiamo che alcune specie animali e vegetali in via di estinzione sarebbero state cancellate dalla natura e che l’uomo, invece, continua a imporre come viventi perché ha deciso lui, uomo, di conservare la biodiversità e proteggere le specie in pericolo? Per non parlare di animali di serie A e serie B, visto che nel ventaglio delle difese animaliste vengono inseriti, di volta in volta, cani, gatti, criceti, conigli, lupi, orsi, cinghiali, balene, animali da pelliccia, panda e l’ampia scelta di animali accattivanti, piacevoli o particolari. Perché allora non difendere i ratti di fogna, gli scarafaggi, le zanzare tigre, le mosche tze tze, i parassiti di piante e di animali (difendiamo i “nostri” animali uccidendo altri animali), àcari, pulci, pidocchi, zecche, mosche, pappataci, tafani, cavallette, bostrichi ed altre creature che, non facendo altro che il proprio mestiere di animali, diventano però fastidiosi, letali o dannosi o pericolosi per l’uomo. Questo antropocentrismo ipocrita perché untuosamente nascosto di animalismo, dice e non dice, in quanto per un verso si erge a giudice e valutatore della natura, in quanto uomo impegnato nella difesa degli animali, e per un altro verso, all’opposto, si abbassa (fittiziamente) a livello animale, non volendo accettare alcuna differenza che pure è quella che ha determinato la scelta della difesa. Nessun altro animale s’impegna a difendere altri animali e se l’uomo lo fa, nascondere, in questo, la sua superiorità, è negare l’evidenza in modo acritico. Essere animalisti è la conseguenza più evidente dei sensi di colpa che certi esseri umani avvertono per quanto di disastroso ha compiuto l’uomo in passato. Schiacciare l’uomo sull’animalità o elevare l’animale all’umanità, fa perdere quella biodiversità tanto decantata. La difesa della vita animale arriva al parossismo di difendere, ad esempio, le uova di tartaruga ma non l’embrione umano, come se quest’ultimo non fosse una vita, persino anche solo animale, da difendere.
La nostra diversità dagli altri organismi, di volta in volta -secondo le diverse prospettive culturali- definita come superiorità, come eccedenza fuori posto, come mera variante animale, è stata talmente invasiva da aver lasciato il segno sin dalla sua primissima origine. Un segno che, pur povero o semplice, nella sua anomalia rispetto a tutto il resto della realtà organica, ha permesso di tracciare la linea di distinzione tra uomo e animale. Non che il discriminate sia così chiaro! In effetti, a ben guardare, spesso, come un deus ex machina si è indicata la ragione o il pensiero o l’intelligenza (non distinti, in quanto il livello di generalizzazione è qui piuttosto marcato) quali presunte spiegazioni di questo differire. Una presunta spiegazione, assai semplicistica di per sé, che vorrebbe mettere a tacere tutta una serie di problemi che, viceversa semplicemente si riaffacciano non più sotto la domanda “chi è l’uomo?”, ma sotto quella di che cosa sia questa ragione o pensiero o intelligenza.
La diversità dell’uomo è l’unica che, non equivalente ad altre diversità animali, permette la responsabile gestione del pianeta. Alle voci di contestazione delle parole e alle scelte del Papa così critiche verso certi morbosi comportamenti filoanimali, si è aggiunto di recente un post di tale Rosita Celentano, altra voce banale di un coro banale, famosa solo per luce riflessa. Così si legge nel suo post: “Probabile che il Papa non sappia (purtroppo per lui) di quale amore incondizionato siano capaci i cani. Migliori di certi umani che abbandonano magari i genitori, lasciandoli soli come… cani. L’antropocentrismo del cattolicesimo ha fatto enormi danni mettendo al centro l’arrogante essere capace di ogni male e neppure se ne accorge proprio lui che ha scritto un’enciclica sull’ambiente”. L’amore incondizionato di cui parla questa figura anonima dell’odierno è quello di un animale gregario che non sceglie, visto che in natura non c’è libertà e dunque responsabilità dei propri atti. Ma evidentemente questa Rosita ignora le conoscenze elementari che distinguono le leggi cosiddette di natura, sotto la necessità e al di là del bene e del male, e la libertà, bene e fardello del solo uomo. L’amore incondizionato del cane non ha alcun merito, perché è una scelta dell’istinto per il suo capobranco, lo stesso amore che quel cane ebbe, nel bunker, per il suo Adolfuccio Hitler, del quale non poteva giudicare la bestialità. Per lui, povera bestia, era il suo capobranco, da seguire e al quale essere fedele. Un cane abbandonato più volte, ad esempio, ogni volta si legherà a chi lo adotta, perché non sceglie, ma si aggrega per istinto di specie. Riflessioni dunque, quelle della Celentano, che fanno davvero male, perché sono il termometro di una ignoranza diffusa e acritica. Sull’antropocentrismo poi, non è il caso di tornare. Ho già chiarito come quella che sembra una dedizione all’animale, nasconda invece una selettività, una visione e un comportamento tutto umano e centralizzato sull’uomo e su quanto egli ritenga, in modo del tutto opinabile, più giusto in questo momento storico.
APPAGAMENTO: Si confonde il benessere e la felicità ed il piacere terreni con quel senso di compimento che non ha e non è nel tempo. Come se, -errore costante e ripetuto nei millenni- una vita appagante in superficie su questa terra possa dare un senso alla nostra vita.
ATEISMO: La grande ingenuità dell’ateismo, in tutte le sue numerose sfaccettature, è quello di credersi fuori dalle religioni e dalle fedi religiose, di porsi come posizione autonoma e libera. Una ingenuità basata ideologicamente su un certo modo, quello più funzionale a sé, di definire le religioni e Dio in modo tale da giustificarsi.
L’ateismo ignora di essere stato e di essere tuttora un momento, prevedibile e scontato, propedeutico nella relazione religiosa. Non si parla di un Crocifisso? Cioè della prevedibile scontata prima reazione umana, quella del rifiuto, sino all’assassinio? Non è il Crocifisso l’immagine stessa della libertà dell’uomo che si è permesso di mettere a morte Colui che, a torto o a ragione si professava Dio? Non è la storica vittoria dell’ateismo, visto che la Resurrezione appartiene al piano della fede? Il Cristianesimo è talmente liberante, nella sua essenza, da avere nel suo cuore il no dell’uomo, quel no che inchioda Gesù su una croce. E ne fa strumento di salvezza. Il no è dell’ateo, di colui che ha creduto che Gesù non fosse il Figlio di Dio; l’ateo è parte integrante della relazione religiosa, non ne è fuori. Ogni crocifisso, in ogni parte del mondo ricorda che ogni uomo è dentro quel progetto di salvezza ed il no od il sì sono entrambi dentro la relazione personale con Gesù.
CAOS: Dopo ed accanto ad una (pseudo)cultura che cerca di animalizzare l’uomo ed umanizzare l’animale, ecco l’altra perla: femminilizzare il maschio e mascolinizzare la femmina. Ancora una volta trionfa l’in-differenza, l’equivalenza, l’omo-geneità, cioè i tre elementi che definiscono il caos. Si sta orientando i giovani e giovanissimi al dis-orientamento: aveva ragione Goethe: non si va mai tanto oltre, come quando non si sappia dove si vada[1].
Ribadisco che la differenza fa paura alla cultura dominante.
Sembrerebbe un’affermazione temeraria, vista la solerte attività cosiddetta anti-omofoba, strettamente collegata alla nuova ideologia gender. Ma chi valuta criticamente l’omo-sessualità è “giustamente” omo-fobo, cioè teme ogni forma di omo-logazione, di omo-geneizzazione, di indifferenza, di equivalenza, di omo-geneità, di falsa relazione: non l’ego e l’alter, ma l’ego e l’alter-ego. Qui e solo qui sta la differenza, non nel fatto di presentare l’omosessuale come “diverso”.
La sua cosiddetta diversità è tale rispetto a chi ama e sceglie relazioni con il diverso, cioè che non teme la differenza: ciò che definisce l’atteggiamento omosessuale, dunque, è precisamente il rifiuto della differenza (etero) in favore dell’identità (omo). Allora, il cosiddetto “diverso” dall’ideologia dominante è colui che non vuole la diversità: non si può assumere una definizione così precaria e di mero utilizzo pratico quale indicatore di valore: si assume la superficie della definizione e non si guarda alla sostanza di chi è definito. Il suo esser diverso è rispetto a chi fonda le relazioni sulla diversità. L’omosessuale, allora, non è un “diverso”, ma un uguale, il paladino dell’identità, un Narciso redivivo, che abbraccia se stesso nell’altro, nel fittizio tu di chi è solo alter-ego.
Si sente con terrorismo ideologico parlare di omofobia. No, nessuna paura dell’omosessuale, ma paura che essa possa ergersi a norma. E perché non si dice dunque, per gli omosessuali, che sono eterofobi, vista la loro scelta nell’identico dell’identico? Non è, la scelta omosessuale, paura dell’altro, -ma in questo caso altro davvero-, non fittizio come nella relazione omo-sessuale?
Si conferma anche per il problema dell’omosessualità la confusione drammatica e carica di conseguenze pericolose tra persona e personalità.
Tutti hanno gli stessi diritti come persone. È l’esser persona che tutti ci accomuna e che rende tutti, allo stesso modo, uguali davanti alla legge, uguali nel vivere i propri diritti e doveri inalienabili in quanto persone, tutte da considerare sacre e inviolabili, degne di rispetto e solidarietà, condizione che, ovviamente, coinvolge anche l’omosessuale. Ma lo stato di omosessualità appartiene al mondo delle variabili, alla personalità, non è essenziale alla definizione della persona. Come tale, come variabile, che sia una scelta o una tendenza naturale, è sottoponibile a critica, ad assenso o dissenso come qualunque altra variabile. Se una variabile diventa criterio assoluto nella definizione della persona si fa razzismo in quanto una variabile diventa in modo ingiustificato parte integrante delle costanti. E qui, paradossalmente, si assiste a un razzismo rovesciato: guai a chi ricorda che la norma (=normalità) è la coppia maschio-femmina, uomo-donna! Proprio da poco leggo che sei giocatori del Tolosa che non hanno voluto indossare la maglia arcobaleno a favore dei diritti Lgbt sono stati esclusi dalla partita che avrebbero dovuto giocare! Una prova di democrazia e tolleranza! La si richiede agli altri, ma non si è capaci di darla.
CONFUSIONE: Una delle tante confusioni lessicali e concettuali riguarda l’accusa di dogmatismo alla Chiesa cattolica, accusa che si fonderebbe sulla presenza di dogmi in essa. Un dogma è un principio oggettivo che illumina ogni soggettività, quella del Papa compresa. Ne orienta la fede e costituisce un pilastro dottrinario, in linea significativa e sensata con la tradizione e l’essenza stessa della dottrina.
Dogmatico, invece, malgrado la confusione semantica cui alludevo, non significa portatore di dogma. Non va connesso, insomma, sul piano del significato, al concetto di dogma. Infatti, è dogmatico chi impone un principio soggettivo come oggettivo, cioè l’esatto opposto del dogma. Confondere dogma e dogmatico è come confondere Dio con l’idolo. Una Chiesa senza dogmi diventa automaticamente dogmatica in quanto non avendo più riferimenti oggettivi, non può che assolutizzare soggettività, cioè indebiti assoluti.
COPPIA: L’amore di coppia come via d’accesso all’alterità ha diversi livelli di espressione. Se dovessi sintetizzare il quadro di queste relazioni, parlerei di tre livelli:
quello che sembrerebbe solo animale e che coinvolge la sola genitalità e dove la coppia si manifesta come maschio-femmina.
Poi c’è un livello antropologico-sociale, dove la coppia si delinea sul piano sessuale (inteso, dunque, anche sul piano psicologico e culturale) come uomo-donna;
infine una relazione che è ontologica, tra persone e dove la relazione si esprime come io-tu. Quest’ultima relazione è chiamata a completare la relazione che diventa amore.
L’amore dei figli per i genitori e viceversa implica amore e sessualità: per un bambino o una bambina è cosa ben diversa confidarsi con il padre o la madre, dove, senza pensarci, è tenuta in conto proprio la differenza sessuale.
La relazione sessuale investe il piano sociale: rappresenta la prima comunicazione: dal riconoscimento delle persone alle quali ci si rivolge secondo la loro identità sessuale, sino ai caratteri sessuali definiti dalla psicologia “secondari” (il seno, la voce, la barba, ecc.), che permettono di ricevere una telefonata e riconoscere l’identità sessuale della voce, senza vedere la persona.
Rapporti promiscui sono quelli che investono la genitalità e la sessualità senza implicare la relazione d’amore, mentre rapporti di amicizia e relazioni familiari implicano la sessualità e l’amore. Quando invece tutte e tre le forme di relazione sono in gioco si esprime il massimo del rapporto, perché, se è vero che l’unica costante è la sessualità e le due variabili sono la genitalità e l’amore, in questo rapporto, dove sono in gioco tutte e tre le dimensioni, siamo di fronte a qualcosa di umanamente perfetto, in quanto tutte e tre le relazioni diventano presenti e vitali.
Quando la prospettiva tende all’amore, ciascuna di queste relazioni qualifica il proprio solo ed esclusivamente in relazione all’altro.
1.- Sul piano della genitalità, nella realtà umana, il maschio è tanto più maschio quanto più acquisisce e attua, durante il rapporto, i tempi di coinvolgimento della femmina. Un maschio che realizzasse solo il proprio piacere secondo i propri tempi fisiologici, sarebbe precox, un “cattivo” maschio. E dunque l’alterità femminile che lo orienta: tanto più è maschio quanto più fa suoi i tempi di coinvolgimento della femmina (acquisizione che, ovviamente, non esiste nel mondo animale).
Complementariamente, sempre sul piano della genitalità, la femmina umana non subisce la propria natura entrando in calore in uno o più periodi l’anno, dove avrebbe realizzato se stessa “consumando” il maschio come mero strumento. La sua possibilità di realizzare la propria natura femminile dipende dalla sua capacità di relazionarsi all’altro-come-maschio, in una tensività all’alterità che le comporta sempre un rischio e di cui, spesso, purtroppo, il maschio può approfittare, ingannandola. Tanto più si realizza quanto più si relaziona al mondo maschile.
Dunque, già a livello apparentemente solo animale, cioè quello della genitalità, l’uomo segna l’atto del coito nell’alterità come valore. Non che non ci sia o non possa vivere il rapporto con l’altra genitalità sul mero piano del consumo, cioè per se stesso/a senza alcuna attenzione all’altro/a: ma sarebbe precisamente questa scelta che farebbe restare l’uomo sul piano meramente animale, togliendo ogni specificità umana ed autorizzando, implicitamente, ad esempio, lo stupro, visto che sul piano animale questo tipo di problema e reato non esiste. Né si può vivere sul modello animale la sessualità e poi richiamare quello umano quando fa comodo, scandalizzandosi dello stupro: è mera ipocrisia. Lo stupro altro non è che la conseguenza di un comportamento animale che “consuma” l’altro per il proprio piacere e che non tiene in alcun conto l’alterità come valore. Carpire un assenso dopo aver sedotto, in ogni modo e con ogni mezzo, non muta la natura violenta e consumistica dell’altro.
2.- Se passiamo al secondo livello, quello sociale-sessuale dell’uomo e della donna, qui il superamento dell’egoità è talmente evidente da essere collegato agli stessi riti di iniziazione, dove, appunto, si passa dalla maturazione naturale, fisiologica, a quella sociale e sessuale soltanto attraverso questi riti. Ciò significa che sia l’esser uomo che donna si riferisce ad un fondamento che è oltre la propria mera maturazione fisiologica ed è depositato nell’alterità. È questa, come gruppo sociale, che stabilisce l’identità di “uomo” e “donna”. Se essere maschi e femmine coinvolge l’individualità stretta provocando pudore, la sessualità è esibita come identità e ha caratteristiche sociali.
3.- L’ultimo livello, infine, quello ontologico, è il più chiaro in ordine alla fondazione della relazione: è l’altro il senso della relazione.
Ogni rapporto duale, come insegna Hegel dopo le sue perfette critiche all’indifferenza dell’identità schellinghiana, ogni rapporto io-tu, perché non resti nell’indifferenza (può significare un’azione altruista come egoista) ha bisogno di un tertium che ne qualifichi ed orienti il significato. Dunque due le possibilità:
io-tu-io
io-tu-tu (noi).
Nel primo caso l’altro mi completa, mi fa felice, come fosse uno strumento atto a permettere la realizzazione e l’appagamento dell’io.
Nel secondo caso è la felicità dell’altro che mi orienta, è il suo appagamento, la sua realizzazione.
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È talmente radicata la prima forma di relazione, pienamente narcisistica, in quanto la scelta del tu assume come criterio soltanto la soddisfazione dell’io, che la cultura dominante continua a parlare di “anima gemella”, cioè di “alter-ego” oppure di legame con un’altra persona con la quale si ha molto in comune. Anche in questo caso, come è dato verificare con chiarezza dalla semplice tavola qui sopra proposta, la parte in comune, discrimen della scelta, evidenzia come nessuno dei due esca dal proprio ego e si limita ad amare nell’altro il proprio io o ciò che gli è analogo.
Ciò che rende altro l’altro è tollerato, sopportato o, addirittura, se ne richiede l’eliminazione in quanto giudicato estraneo, ostile, incompatibile con il proprio ego. E invece sarebbe esattamente ciò che andrebbe amato.
CUORE: Il clero, spesso inadeguato, affondando il proprio “insegnamento” e la propria testimonianza sull’emozionale, sul sentimentale, sulle ragioni del cuore o sui “cammini esperienziali” e sciocchezze di questo tipo, ha contribuito notevolmente a schiacciare il fatto religioso sul poco credibile, sul poco autorevole, sul per nulla scientifico, sull’irrazionale, sull’umorale, togliendo alla fede ogni dignità, serietà, rigore, maturità, logos, autorevolezza. La conseguenza è inevitabile: tutto questo ammasso di pregiudizi che si sono sedimentati e stratificati hanno dato vita ad una concezione della religione che ci si illude sia personale, ma che di fatto è il risultato deviato di indebite intrusioni e ibridazioni ed inquinamenti semantici che poi trovano, nella privata aggiunta valutativa, un ulteriore elemento di degenerazione.
DONNE: Mi basta sentirne la voce per rasserenarmi. Tonalità inimmaginabili, dolci, lievi. Sono il capolavoro di Dio: di più non è concepibile. Non c’è una parte di loro che non comunichi: la donna è l’antineutralità, è il significato pieno, completo della vita. Da lasciare senza parole. C’è qualcosa di più grandioso della loro presenza?
FAZIO(so): L’apparente democratico quotidiano “la Repubblica” ha aperto la sua edizione del 15 maggio 2023 con il titolo: “RAI a destra. Fazio lascia”, facendo riferimento alla decisione dei nuovi vertici Rai (decisi dalla destra al governo) di escludere la coppia Fazio-Littizzetto e la loro trasmissione “Che tempo che fa”. Il titolo del quotidiano fa capire, dunque, che prima, la RAI era schierata a sinistra. Ora, (a me interessa soltanto la chiarezza morale delle proprie idee e azioni), per quale remoto motivo una Rai a sinistra era più legittimata della nuova scelta a destra? Forse la sinistra ha il diritto di monopolio culturale? Pare di sì: ciò che fa la sinistra è democratico, mentre dall’altra parte c’è solo fascismo. Così, o si è di sinistra o si è fascisti. Una squallida alternativa davvero pessima e senza vera possibilità di scelta. E quello che più mi rattrista è che non c’è traccia di una cultura alternativa come è quella cristiana.
FIGLI: E’ quasi convinzione comune che l’amore per i figli sia il più grande e il più fedele. È una convinzione che nasce post factum, osservando i tanti fallimenti del legame di coppia. Una sorta di ricognizione statistica che vedendo più stabile e duraturo il legame affettivo tra genitori e figli (soprattutto, con molta amplificazione retorica, tra madre e figli) rispetto alla precarietà di quello della coppia, conclude che questo amore materno (anche paterno, ma in misura minore per ragioni culturali e biologiche) sia l’unico vero esempio dell’amore. Ho sentito in questo senso anche molti preti nelle loro omelie affermare queste convinzioni. Ora, quando si cerca di proporre un confronto bisogna essere alla pari: si deve mettere insieme da una parte il rapporto “perfetto” tra genitori e figli e dall’altra quello altrettanto “perfetto” tra un uomo e una donna. E allora ci si dovrebbe render conto che mentre l’amore genitoriale è facile perché coinvolto dal legame di sangue, quasi che i figli fossero una protesi dei genitori (dalla scelta del nome sino a sognarne questo o quel sesso per arrivare ai progetti per il futuro dei figli sino alla convinzione soprattutto della madre che il figlio sia una sua viscerale appartenenza, la stessa che se da una parte spinge ad un amore talvolta possessivo, dall’altro spinge, per lo stesso motivo, ad abortire), l’amore tra un uomo e una donna è qualcosa di straordinario. Due persone così differenti per psicologia, sessualità e genitalità, lontane sino ad essere estranee, scelgono di condividere insieme un progetto e creano una nuova vita per amore e conducono la loro vita insieme sino alla fine. Due estranei che diventano un’unica realtà! Questo è amore. Vivere l’alterità sino in fondo e amarne concretamente la presenza. Non è semplicemente amare chi è derivazione del tuo sangue, alter-ego allargato, parte di te che si oggettivizza in una persona che può realizzare i sogni che sono mancati nella propria esistenza, una sorta di compensazione privata. Quale educazione all’alterità è presente nell’amore genitoriale? Un ego allargato che, paradossalmente, persino se non ci fosse amore, manterrebbe oggettivamente, il legame di sangue, sia a livello giuridico, che sociale e culturale. Una sorta di automatismo affettivo, una conseguenzialità che appartiene, in linea di massima, all’intero mondo animale. Non c’è scelta, laddove la coppia vive costantemente nella libertà la possibilità di sciogliersi e annullarsi come coppia. E se resta invece tale, è costante capacità di relazione con chi è altro sino in fondo, come persona, come sessualità, come genitalità, come cultura, come estrazione sociale ed economica, come provenienza geografica…Insomma, come piena alterità.
GENERALITA’: E’ ben diverso il concetto di “generalità” da quello di “universalità”: quest’ultimo non risente del numero di adesioni, del consenso o meno sulla sua (presunta) veridicità, sul piano dell’estensione quantitativa dei suoi possibili sostenitori o denigratori.
JUSSUM-JUSTUM: la distinzione che titola questa breve riflessione non è certo fatta per erudizione, ma per distinguere ciò che è legale da ciò che è giusto. Che i due piani non vadano d’accordo è talmente evidente, soprattutto agli occhi di un cristiano che non si dovrebbe neanche accennare ad una eventuale problematicità interpretativa. Eppure, tra le preghiere dei fedeli di questa domenica mattina, stampate sul foglietto domenicale, ho dovuto sentire: “per gli amministratori del bene comune, perché possano infondere nei cittadini una rinnovata fiducia nelle istituzioni, attraverso scelte equilibrate, mirate alla promozione della legalità e della giustizia. Noi ti preghiamo”. Si tratta di un tipico esempio di preghiera che non dice proprio nulla e che quello che dice lo dice generando solo confusione. Fiducia nelle istituzioni? Sta parlando Mattarella o la Chiesa? Promozione della legalità? Quella che ha legittimato il divorzio, l’aborto, la teoria gender ed altre nefandezze di genere? Siamo sempre alla solita storia, la consueta Chiesa pavida che si abbassa al potere e ne diventa implicita complice. Il cristiano è sempre inattuale, mai schematizzabile, mai integrabile, mai politicizzabile. E invece qui si piega la testa ad un sistema che si dà per scontato sia giusto, democratico ed altre illusioni di questo tipo, ideologizzando la Parola di Dio. Io dovrei auspicare che ai cittadini venga infusa “una rinnovata fiducia nelle istituzioni”? E quale sarebbe il motivo cristiano? Fare gli usignoli dell’imperatore? Le prostitute di corte? Gli oscuri servitori di Mamòn, Mammona, emblema dell’idolatria sono tutti quei fedeli, preti e gerarchia compresa, che per paura di perdere consenso e audience, annacquano il Vangelo sino a farlo diventare un vademecum di buonismo acritico, untuoso e ipocrita.
LEGGI SCIENTIFICHE: L’immagine usata da Einstein, per quanto un po’ greve, risulta chiara: la relazione fra teoria ed esperienza sensoria è «analoga non a quella fra il brodo e il bue, ma a quella fra lo scontrino del guardaroba e il cappotto»: il brodo è un “estratto”, un “concentrato” di carne bovina; lo scontrino del guardaroba, a teatro, vale solo a identificare, convenzionalmente, un determinato cappotto. Le leggi non vengono dunque “estratte” dalla natura (metodo induttivo, metodo sperimentale), ma lo scontrino che ho ricevuto, che ho in base alla mia posizione “logistica”, al mio esser collocato in quello spazio-tempo (la teoria) e che, dunque, può mutare se muta questa posizione, ogni volta mi fa avere il cappotto, il mio cappotto, cioè la mia immagine della natura. Dunque le “leggi” non sono indotte dalla serie di esperienze di quel metodo, -l’induttivo-sperimentale di aristotelica memoria-, non sono estratte dai fatti come ne fossero l’essenza (il brodo dalla carne), ma hanno ogni volta una corrispondenza “certa” con i fenomeni, anche se la teoria muta (lo scontrino al guardaroba ed il mio soprabito). E' dunque la teoria a decidere che cosa possiamo osservare, sosteneva Einstein. Già «la decisione di usare una particolare apparecchiatura e di usarla in un particolare modo indica che si dà per scontato in forma più o meno cosciente che si dovranno verificare solo circostanze di un certo tipo»[2]. Come ricordava il compianto Paolo Rossi ogni scoperta scientifica è oblio voluto e cosciente di alcune relazioni a vantaggio di altre. Così, ad esempio, sappiamo che la teoria di Newton non prevede correttamente la precessione del perielio dell’orbita del pianeta Mercurio, cioè del punto di minima distanza di un corpo del sistema solare dal sole, dando un risultato che non si accorda con le sue “osservazioni”, di alcune decine dei cosiddetti “secondi d’arco” ogni secolo. I “secondi d’arco” misurano i valori angolari estremamente piccoli (1 grado corrisponde a 60 primi ed 1 primo a 60 secondi ed 1 secondo corrisponde ad 1/3600 di grado). Un secondo di tempo equivale a quindici secondi d'arco della rotazione terrestre. Anche se gli esperti erano a conoscenza di questi movimenti, scrive esplicitamente Fleck, essi «vennero tuttavia tenuti nascosti al pubblico, poiché contraddicevano le concezioni allora dominanti in quel campo. Se ne parlò soltanto quando divennero necessari per la teoria della relatività»[3].
Non si può continuare a pensare che le vecchie teorie siano sbagliate soltanto perché superate da quelle nuove che, altrettanto ingenuamente, vengono giudicate vere. Il conoscere umano non può più essere il risultato del processo d’induzione, cioè dello sviluppo dell’originario metodo induttivo aristotelico, quello che dal particolare degli esperimenti pretendeva di giungere all’universalità dei concetti e delle leggi. Non si tratta di un progresso teso all’”avvicinamento alla verità”, giacché per poter fare un’affermazione del genere, dovremmo conoscere come stiano davvero le cose, cioè la verità! Ma è precisamente questo ciò che ignoriamo ed è per tale motivo che avanziamo ipotesi e teorie scientifiche. Ci si accontenta di una certezza relativa, ma si dovrebbe pervenire alla consapevolezza che queste confermano quale sia la portata sovra-scientifica della verità.
È sempre l’universale che precede e fonda. E la nostra è nostalgia per l’universalità, cioè per la verità.
MAGIA-SCIENZA: La religione, persino nella sua etimologia, è fidarsi e abbandono, legame di dipendenza e il potere è appartenuto all’istituzione ecclesiastica, non all’atteggiamento religioso che è esattamente l’opposto di quello del mago, dell’alchimista e di quegli scienziati che diventano scientisti, abusando del loro potere di conoscenza. Ma «quando la scienza si arrocca su un certo paradigma, magari per difendere posizioni di potere acquisite, escludendo come pazzo o eretico chi lo contesta, non si comporta in modo dogmatico?»[4]. In un contesto di totale soggettivismo e conseguente disorientamento, dove tutti possono dire tutto, anche nello specifico scientifico come si è visto nella ridda di valutazione del virus da parte dei virologi, ogni cosa o notizia o informazione, per acquisire credibilità, anche la più imprevedibile, viene presentata come “scientifica”. Si è ancora legati, nostalgicamente e banalmente al fatto che la scienza ci possa dare una conoscenza certa e sicura della natura o di ciò che chiamiamo impropriamente “natura”.
Una tale conoscenza certa scaturirebbe dall’ingenua convinzione che il metodo induttivo aristotelico, poi trasformato in metodo sperimentale, sia davvero in grado di passare dal particolare empirico all’universale concettuale. Stando così le cose, lo scienziato è interpretato come il fedele custode di una conoscenza fedele al reale, riflessiva della natura (un suo riflesso), specularmente riprodotta (speculazione, actio in speculum).
Circola diffusamente, insomma, fra i non addetti ai lavori, -il pubblico e la cultura dominante-, ma anche fra alcuni addetti ai lavori poco critici o scarsamente preparati sul piano teoretico e metodologico, circola, dicevo, la convinzione di essere i custodi del certo e del vero (ovviamente confusi tra loro), precisamente in base all’idea che le leggi proposte dallo scienziato altro non siano che quanto scaturisce “oggettivamente” dall’esperienza da lui fatta e ripetuta (e ripetibile) dei fenomeni naturali. Dunque una conoscenza-copia riflessa, una conoscenza-riproduzione del reale.
E cosa succede se parliamo di “storia della scienza”?
L’impressione generale, certamente a livello divulgativo, ma forse, non solo, è che ci sia un crescente progresso della scienza dovuto ad una strumentazione più sofisticata che le permette scoperte precedentemente impossibili.
Per questo motivo, le pubblicità abbondano di (fasulli) grafici pseudoscientifici, gente in camice bianco che dovrebbe, per banale associazione di idee, alludere al ruolo di medico o presunto ricercatore scientifico (fasulli anche loro), quando, addirittura, non ci si inventi qualche presunta componente frutto di fantomatiche elaborazioni scientifiche. E’ la spia di come l’identità scientifica sia giunta e a quale livello sia consumata dalla gente. Ebbene, «in questa accezione la scienza finisce davvero con l’assomigliare alla magia nel senso antropologico descritto da Malinowski, non tanto per i suoi contenuti specifici ma in quanto si trova ad assumere un obiettivo preciso intimamente connesso con gli istinti, i bisogni e le aspirazioni umane»[5], alla faccia di certe pubblicità che con sussiego e supponenza contrappongono, mediante una ridicola voce fuori campo, il loro prodotto che non è mistica e magia, ma è invece scienza. Così, da una parte si alimenta la confusione magia-mistica e dall’altra si eleva a vera conoscenza ed unico riferimento ciò che è scientifico. Atteggiamento mercantile e ignorante. Se c’è qualcosa che ha preparato la scienza attuale è stata precisamente la magia e l’alchimia, pratiche che, guarda caso, anche lì, con la padronanza di certe formule, permettevano il dominio della natura. Tutti atteggiamenti di dominio, di potere attraverso presunte competenze e acquisizioni.
MARIA: Gesù due volte si rivolge alla madre, ma non la chiama “madre”, bensì “donna”, secondo un uso orientale di rispetto, ma che allinea Maria alle altre donne così appellate in egual modo da Gesù. I due unici casi che riguardano Maria sono nella vicenda delle nozze di Cana e ai piedi della Croce e a me sembra che i due fatti meritino approfondimento. Per la verità Mariologi di chiara fama lo hanno già fatto, ma il loro insegnamento non è entrato nelle omelie per il popolo dei fedeli e questo credo non ha fatto crescere e maturare la fede. I miei rilievi sono poca cosa, ma li propongo in linea con la tematica “generato non creato”, altrove affrontata.
A Cana, dove Gesù, Maria e i discepoli di Gesù erano stati invitati a una festa di nozze, “venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora” (Gv 2, 1-3). Maria non si scompose ed era così sicura dell’obbedienza di Gesù che disse ai servitori di ascoltare quanto Suo Figlio avrebbe detto loro. E Gesù, dopo quell’affermazione, le obbedisce come un figlio fa con la propria madre, non certo con una donna estranea.
Qui, dunque, il riconoscimento di essere stato generato da Maria avviene su un piano orizzontale, dell’ascolto e dell’obbedienza filiale, senza che ci sia un riconoscimento esplicito della maternità di Maria, quell’appellativo “madre” che avrebbe potuto confondere i piani. Se infatti avesse chiamato Maria “madre”, il piano della generazione andava a confondersi con quello della creazione, dove Gesù non ha madre, ma per il quale, invece, non ha riserve a chiamare Dio come Padre. Basti leggere con quale lucida consapevolezza Gesù risponde ai genitori che lo cercavano e che lo trovarono in Sinagoga: “perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2, 50).
E Gesù è sì uomo, ma anche Dio e “madre” non può legarsi alle due nature della stessa persona: dunque, per Gesù generato, basta il termine “donna” e l’obbedienza filiale di un figlio verso la madre.
Ma è l’altro evento che svela tutto ancora meglio.
Gesù è ai piedi della croce e dice a Maria, indicando l’apostolo Giovanni: “donna, ecco tuo figlio!” e a Giovanni “ecco tua madre!” (Gv 19, 26-27). Ora sì che Gesù può parlare di “madre” e lo fa per chi, come Giovanni e tutti noi, siamo stati creati e generati. E Maria non è la madre di Giovanni come non è nostra madre per generazione, ma per il piano di salvezza della creazione. Ecco perché qui Gesù può parlare di “madre”. Se lo avesse fatto per sé, di quale madre parlava? Lo avrebbe potuto fare soltanto se fosse stato solo uomo. E proprio il non appellare Maria come “madre”, ma come “donna” è un ulteriore indicatore della sua divinità.
La verifica può avvenire mediante il criterio di chi non crede nel Gesù-Dio risorto. Per costoro, per i quali Gesù è stato soltanto un uomo, Maria è la madre di Gesù e non è ritenuta la madre dell’umanità. Maria è la madre di tutti solo perché a darle questo crisma è Dio stesso, Gesù sulla croce.
È corretto dire “Maria madre di Gesù e madre nostra”, purché si abbia consapevolezza di ciò che si stia dicendo. È madre nostra per mandato di Gesù ed è questo l’aspetto più importante. Il “nato da donna” che segna l’umanità di Gesù è aspetto fondamentale per l’Incarnazione, dove Maria è però soltanto strumento del dono di salvezza. Ma quando Gesù la investe di una maternità spirituale Maria abbandona il suo ruolo strumentale generativo e diventa il fine ed è soltanto qui che andrebbe radicata la nostra devozione per Lei.
NATURA: Il buon senso ci induce a pensare a un habitat precedente alla comparsa dell’uomo. Ma, ovviamente, non è questo il problema, giacché è ovvio che ci sia stato un ambiente naturale precedente all’uomo e sul quale, poi, l’uomo ha agito, mutandolo. Il problema riguarda l’utilizzo acritico, inflazionato ed ideologico del termine “natura” e di un concetto connesso a questo termine, del tutto inesistente.
In una lettera a Luigi Bonelli da Rovereto, del 1 ottobre 1825, così scriveva Antonio Rosmini: «chi osservasse gli errori venuti dall’abuso della parola NATURA, nella scienza del diritto e della morale, delle parole SENSAZIONE, PIACERE, DOLORE nella metafisica, delle parole UGUAGLIANZA e LIBERTA’ nella politica, della parola RICCHEZZA nella economia, e di molte altre consimili, alle quali comunemente non si fece che aggiungere un senso più esteso del senso dato loro dal comune uso, avrebbe raccolto le origini d’incredibili inganni alla mente, e d’incredibili guai all’Umanità»[6].
La nostra epoca si caratterizza con il suo infantile acritico «entusiasmo per la Natura, Natura da proteggere e vezzeggiare, descrivere e ripensare, a seconda dei gusti di ciascuno, dei valori di tutti, degli interessi della collettività, degli scrupoli dei potenti, dell’intelligenza dei sapienti.
Natura da indagare nei dettagli, conoscere in ogni meandro, scavare nel profondo. Natura madre e sorella, base d’ogni esistenza e orizzonte di tutti gli esseri viventi.
Natura come bene comune, luogo di riconoscimento di un’umanità che trascende le differenze etniche e le diseguaglianze sociali. Natura come origine e principio, causa prima e fine ultimo. Natura come realtà, immediatezza, spontaneità, evidenza. Natura in tanti, troppi umani modi, ma sempre e in ogni caso al singolare, e con la lettera rigorosamente maiuscola»[7].
La Natura, dunque, viene assunta come un sistema unitario, laddove è noto ad ogni scienziato che essa è strutturalmente ben diversa al suo interno, con leggi tra loro anche opposte (se in biologia potrebbe essere adottato il criterio della continuità, per la microfisica, invece, per l’elettrone in particolare, varrebbe, al contrario, l’elemento discontinuo).
In un suo scritto del 1874, Nature, Stuart Mill così scriveva: «la parola Natura ha due sensi principali: o denota il sistema totale delle cose, con tutte le loro proprietà; oppure denota le cose così come sarebbero al di fuori di ogni intervento umano. Nel primo senso, la dottrina che raccomanda all’uomo di seguire la natura è assurda, poiché l’uomo non può fare altrimenti. Nel secondo, la dottrina che raccomanda all’uomo di seguire la natura, vale a dire di prendere il corso spontaneo delle cose come modello delle sue azioni volontarie, è irrazionale e immorale: irrazionale, perché ogni azione umana consiste nel mutare il corso della natura, così definita, e ogni azione utile nel migliorarlo; immorale, perché il corso delle cose è pieno di eventi che sono unanimemente giudicati odiosi allorché risultano dalla volontà umana»[8].
Quello che si sta via via radicando come prospettiva generale, sia a livello specialistico che popolare è una visione che ha secolarizzato il concetto cristiano di Provvidenza trasformandolo in una “Madre Natura che a tutto provvede”, l’idea di una Natura che, come una grande dea “laica”, regola ed equilibra le realtà più diverse e lontane con un interno ordine che già Aristotele poneva sotto precisa domanda: “come può un sistema privo di intelligenza essere ordinato?”. Si affida alla natura anche il compito intelligente di ordinare, di auto-ordinare, in se stessa, come un sistema autosufficiente ed autoregolantesi, sia le grandi leggi regolative, sia quelle più piccole, sia i fenomeni tra loro uniti. Ovviamente, questo sistema dogmaticamente assunto come auto-ordinato, non viene per nulla problematizzato, non viene sottoposto ad alcuna riflessione critica. Come un perfetto ragioniere, con una sofisticata strumentazione, sempre aggiornata, questa ‘natura’ provvede, predispone, stempera riuscendo sempre a conservare il suo equilibrio. Una evidente “sacralizzazione” secolarizzata e personificazione magica della natura sorregge queste tesi, tese ad una visione finalistica ed ordinata del mondo naturale, senza preoccupazioni di ordine metafisico, pensando ad un sistema conchiuso in modo immanente che si pone da sé e si autofonda in modo dogmatico. Mi sento di aggiungere l’aggettivo già usato a suo tempo dal Susca, che ne ha ribadito il carattere “magico”[9].
Non ci si accorge di questo atteggiamento ciecamente fiducioso in un’entità fittizia, reificata, personificata, che ci riporta alle prime forme del cosiddetto “animismo”, secondo la classica definizione che ne diede il baronetto E. B. Tylor, un atteggiamento che ha fatto e fa della Natura una sorta di deus ex machina post-moderno e che lungi dall’essere scientifico come vorrebbe e pretenderebbe, è infantile e regressivo.
Ma cosa è questa Natura? «Un richiamo alla Realtà tanto variegato nei temi quanto complesso e pluri-significante […], parola magica della contemporaneità, ricchissima, prima ancora che di significati concreti, di un alone al tempo stesso sacrale e sbarazzino, serioso e svagato, accigliato e trendy»[10]. Così, «richiamarsi alla Natura, riempirsi la bocca con questa parola –o con qualcuno dei suoi derivati e affini (naturale, naturalismo, naturalmente)- è darsi un tono niente male. E soprattutto è porsi sempre e comunque dalla parte della Giustizia, della Verità, della Ragione»[11]. La stessa ecologia, nata e sviluppatasi accanto al ‘mito-natura’, come indica il suo stesso nome, «non ha direttamente accesso alla natura qual essa è: come tutte le discipline scientifiche, è una ‘logia’»[12]. Il paradosso è precisamente questo: che l’ecologia, più s’interessa, alla natura e alla sua protezione, più “sostiene di proteggere la natura mettendola al riparo dall’uomo”[13], anzi, in modo ancor più ampio ed intrusivo tutto questo comporta, paradossalmente, in ogni caso, anzi in tutti i casi, «un coinvolgimento ancor più stretto degli esseri umani, che intervengono con maggiore frequenza in modo ancora più sottile, più intimo e con un’attrezzatura scientifica ancora più evidente»[14].
Accanto a queste caricaturali visioni della natura, c’è un ulteriore modo, anch’esso caricaturale ed è quello di richiamarsi alla Natura, con «l’idea della spontaneità, dell’immediatezza, della genuinità, della naturalezza. Qui il naturale è ciò che si oppone all’artefatto, al costruito, a una troppo umana volontà di potenza che si fa strada senza pietà, ma anche all’artificiosità delle forme, alle buone e barocche maniere fini a se stesse»[15].
Con questa sdolcinata visione della natura, di stampo rousseauiano, che cosa si vorrebbe evocare con il termine Natura, termine “ovvio nei principi e problematico nei fatti”? Una fiction reificata: «paesaggi verdeggianti e ghiacciai immemori, foreste equatoriali e oceani immensi, ambienti incontaminati e aria pura, ancestrali tradizioni contadine e greggi che brucano lietamente la fresca erba alpina»[16]. Giacomo Leopardi così scriveva nell’Elegia agli uccelli: «una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le piante disposte in ordine, i fiumi stretti in fra certi termini e indirizzati in certo corso, e cose simili non hanno quello stato e quella sembianza che avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese […] è cosa artificiata e diversa molto da quella che sarebbe in natura». Come nota Marrone, «è la scienza a dire la Natura, a costituirla come oggetto di conoscenza e implicitamente d’esistenza, a disegnarne i confini e conseguentemente la forza, a dettarne le fattezze e indirettamente i valori. Ne deriva il grosso intrico di cui è portatore malsano il senso comune»[17]. Una tale equivocità, questo diffuso possibile (e ormai attuato) fraintendimento « filosofi, in fondo, l’hanno sempre saputo. La Natura, in natura, non esiste; nessuna evidenza, nessuna immediatezza, nessuno stato precedente all’uomo se non come ipotesi strampalata, finzione concettuale»[18]. Credo che sia giusto smascherare queste entificazioni fittizie che hanno fatto e fanno della Natura una sorta di deus ex machina post-moderno, pronto a salvare istituzioni e individui da situazioni problematiche (di ordine etico, ad esempio) o da novità giudicate destabilizzanti, «ora postulandola come principio primo e fine ultimo, ora come armonia profonda e organismo onnicomprensivo[19], ora come contingenza assoluta, giù giù sino alle concezioni moderne che la vedono come un complesso meccanismo ottimamente funzionante eppure freddo, oggettivo, lontano dall’uomo e dai suoi liberi arbitri»[20]. Di qui la confusione tra Cultura e Natura, dove quella sarebbe una componente della seconda[21].
Tra gli aspetti evolutivi dell’uomo, per ora ultimo stadio evoluto dell’animalità, c’è anche la visione di chi nega valore fondativo alla natura rifugiandosi nella trascendenza. Cos’è questa? Un fenomeno di regressione? Una improvvisa svolta di ribellione verso chi dovrebbe essere assolutizzato dato che ne siamo figli ad altissimo livello? Un parricidio o un matricidio ontologico? Negare valore a quella natura che dovrebbe costituire unico riferimento e della quale dovremmo essere orgoglioso vanto evoluto? E tutti i problemi connessi allo squasso ambientale? Conseguenze dell’evoluzione sfuggita di mano alla natura, o anche questo fenomeno di regressione? Persino i gravi problemi ecologici e i disastri ambientali che abbiamo recato alla natura da quando siamo su questo pianeta, evidenziano la nostra estraneità e goffaggine a stare entro i limiti imposti dalla natura e dalle sue cadenze. Quale sarebbe il motivo per cui alcuni di questi animali si sono direzionati altrimenti rispetto ai consimili? Se avesse avuto forza cogente e ruolo essenziale l’ambiente o la necessità naturale, questa evoluzione avrebbe coinvolto inesorabilmente tutti gli organismi simili che erano presenti in quel determinato ambiente. Ma non è stato così.
PERSONA: Il latino libertas, dall’aggettivo liber che, come il greco eléutheros, ha l’antica radice indoeuropea LEUDH-, “crescere”, detto in particolare di una comunità umana (il DH diventa nella lingua latina B). LEUDHO, “il popolo”, diventa nel greco laós, nel germanico Leute o nello slavo ljudie. Per questo motivo i “figli” erano definiti, in latino, liberi, perché sono riconosciuti in possesso di un determinato statuto giuridico. L’idea espressa originariamente dal termine era dunque quella che solo l’appartenenza al proprio gruppo rendeva un individuo «libero». Dunque libero non già perché non sottoposto a vincoli e ad autorità di sorta, ma perché soltanto in un contesto culturale e sociale, egli è riconosciuto come soggetto di diritto e può svolgere il suo ruolo e coltivare entro i suoi interessi. Diritti, interessi e tutto quanto vi può essere connesso prima della libertà sono soltanto possibili. Ma essendo questa libertà inscritta ontologicamente in ogni uomo in quanto “unità discontinua” dove è compresente il reale finito e limitato insieme al possibile indefinito e illimitato, l’uomo è diritto sussistente. Non posso parlare di “individuo” perché è un’accezione ambigua che può indicare anche animali e piante. Devo invece parlare di “persona”, una qualità che appartiene come specificità solo all’uomo in quanto libero, in quanto “unità ontologica discontinua”. È allora la persona a costituire diritto sussistente, l’uomo, cioè, in quanto libero, cioè, in relazione, la relazione che lo marchia come libero: relazione intima tra la realtà che è e l’ulteriore che è altro, cui tende.
POTERE: È difficile mantenere equilibrio e misura quando si ha un indiscusso e acritico potere culturale. L’opinione pubblica, pigra intellettualmente e facilmente rimorchiabile dietro facili soluzioni con la seduzione dell’utile e del pratico non può essere la coscienza vigile e attenta sull’evento. Non lo sono i diretti interessati perché se da una parte la loro onestà intellettuale li spingerebbe a correzioni, revisioni e aggiustamenti, da un’altra, in fondo, pur sempre arriva acqua al loro mulino. E poi i cosiddetti intellettuali, piegati alle ideologie e alla cultura dominante, veri “filistei della cultura” come li aveva già e li avrebbe definiti anche oggi Nietzsche, paladini del fatto compiuto, ancorati al potere anche quando paiono controcorrente o rivoluzionari o di controcultura: tutti tesi al successo, all’immagine, alla vanità, sempre pronti a sposare cause eclatanti e in silenzio omertoso quando possono rischiare in proprio.
PREGHIERA: Ti prego mio Signore, dammi la forza, l’incanto e il tempo di sognare ancora, malgrado tutto.
PSEUDOSCIENZA: Ho sentito in certe trasmissioni di divulgazione scientifica promosse da giornalisti passati per scienziati, de “i miracoli dell’evoluzione” (stando così i contesti, un vero e proprio ossimoro!), o, all’interno di una delle innumerevoli e peraltro pregevoli puntate sul mondo degli animali, dedicata alla vita nell’oceano, nel parlare dei leoni marini, la seguente affermazione: «i piccoli leoni marini entreranno in acqua solo quando avranno imparato i pericoli dell’oceano».
Come possono imparare i pericoli dell’oceano standosene al di fuori? Sapere dei diversi predatori e delle loro strategie? Delle varianti di difesa che sappiano ogni volta trovare la via d’uscita giusta alle diverse forme di aggressione? Dobbiamo forse presupporre un linguaggio così complesso ed articolato presso i leoni marini che alcuni di loro, più anziani, siano in grado di trasmettere a terra tutte le indicazioni del caso? Tutte le strategie da adottare? Tutti i potenziali predatori?
Ovviamente, durante la trasmissione, non si sollevano problemi del genere e tutto scorre, acriticamente, come fosse un perfetto progetto di “Madre Natura” che da tempo si attua in questo modo.
Altra perla. La trasmissione ci propone poi il mondo degli squali ed anche qui, puntuale, arriva, perentoria, la sciocchezza parascientifica: «gli squali sono come i leoni nella savana al vertice della catena alimentare. Eliminano tutti gli organismi malati, vecchi e controllano che tutto l’ambiente che abitano resti in equilibrio». Dunque, come netturbini od operatori ecologici o ragionieri del bilancio e dell’equilibrio del pianeta-oceano, gli squali si mettono al lavoro e ripuliscono l’ambiente, anzi lo “controllano”, come sentinelle ecologiche.
Al fondo di queste banalità, tutte peraltro antropocentriche, c’è però una visione ben precisa, che ha secolarizzato il concetto cristiano di Provvidenza trasformandolo in una “Madre Natura che a tutto provvede”. Si è increduli, sospettosi, critici di fronte al Dio cristiano provvidente e poi, persino mascherata di (pseudo)scientificità, si accetta senza riserve l’idea di una Natura che, come una grande dea laica, regola ed equilibra le realtà più diverse e lontane con un interno ordine che già Aristotele poneva sotto precisa domanda: “come può un sistema privo di intelligenza essere ordinato?”.
RELIGIONE: Tutti sanno o pensano di sapere cosa sia religioso, come si possa definire la religione e cosa non lo sia. Come se il fenomeno-religione non abbia bisogno di competenze ed approfondimenti e possa essere attinto, velleitariamente, dalla propria piccola esperienza privata. L’opinione pubblica ritiene di poter contare su quanto è stato insegnato durante il periodo scolare o, mancando un tale appiglio, di essere in grado di capire dopo aver “origliato” alcuni particolari avvenimenti della cronaca filtrati attraverso i propri (pre) giudizi, cosa sia religioso e cosa non lo sia. Ne scaturisce una confusione terminologica (che riflette quella concettuale) e che talvolta coinvolge anche le stesse persone esplicitamente e coscientemente religiose.
RELIGIONI: Non tutte le proposte religiose hanno lo stesso significato e valore. Se l’adepto di un’altra religione è da me considerato un fratello, mentre dal suo punto di vista io sono un nemico da eliminare, è ipocrita ed immorale e falso dichiarare l’equivalenza tra queste due visioni. La prima è oggettivamente superiore alla seconda. Superiore non perché elimina, aggredisce, distrugge l’altro, ma perché accoglie, cum-prende, dà significato a ciò che le si para davanti come alterità, anche irriducibile.
UGUAGLIANZA e dintorni: In nome di che cosa, per quale ragione, quale giustificazione può, anzi deve, farci dire che abbiamo tutti lo stesso valore come persone? Se la ragione, la giustificazione fosse storica, non potremmo mai affermare questa uguaglianza, perché sul piano storico ognuno è diverso dall’altro. La Rivoluzione Francese cercò di radicare questo valore dell’uguaglianza nella ragione, pensando che essa fosse un valore metastorico, sovrastorico: il suo esito nel Terrore bene fa capire quanto fosse ideologica e dunque parziale quella pretesa. Né basta usare sinonimi affermando che tutti in quanto esseri umani vanno considerati allo stesso modo, in quanto questo è un modo approssimativo di affermare la stessa cosa: cioè che tutte le persone hanno i medesimi diritti in quanto persone. Ma perché devono avere gli stessi diritti? Per quale motivo è giusto affermare questo e lottare perché questo possa realizzarsi?
Qualunque valore si voglia dare per fondare il diritto universale e l’uguaglianza ontologica e valoriale di ogni persona, esso non può avere radici storiche, cioè passeggere, instabili, mutevoli, soggettive, ma radici sovrastoriche, sovrasoggettive. Al di là di qualunque riferimento metafisico quale fondamento ontologico della persona, questa breve ultima riflessione ci fa capire che non si può fondare una legge che pretenda l’universalità sulla variabilità storica.
[1] Lettera a Carl Friedrich Zelter, 3 dicembre 1812. [2] T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969, p. 83. [3] L. Fleck, Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, il Mulino, Bologna 1983, p. 88. [4] U. Eco, La maestria di Barthes, in Barthes R., 1957, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 2010, p. 190. [5] M. Bucchi, Scienza e Società, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, p. 34. [6] A. Rosmini, Lettera a Luigi Bonelli, 1 ottobre 1850, in Introduzione alla filosofia, Tipografia Casuccio, Casale, 1850, p. 430. L’evidenziazione è di Rosmini stesso. [7] G. Marrone, Corpi sociali. Processi comunicativi e semiotica del testo, Einaudi, Torino 2011, p. 4. [8] Citato in ivi, p. 19. [9] Cfr. V. Susca, Tecnomagia. Meraviglie, incantesimi, idolatrie in Id., Gioia tragica. Le forme elementari della vita elettronica, Lupetti, Milano 2010. [10] G. Marrone, Corpi sociali. Processi comunicativi e semiotica del testo, cit., p. 4. [11] Ibidem. [12] B. Latour, Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. xiv. [13] Ivi, p. 14. [14] Ibidem. [15] G. Marrone, Corpi sociali. Processi comunicativi e semiotica del testo, cit., p. 6. [16]Ivi, pp. 4-5. [17] Ivi, p. 29. [18] Ivi, p. 13. [20] Ibidem. [21] Ivi, p. 8.
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