Mi è parsa cosa corretta quella di scrivere questa articolata riflessione su un concetto, -quello a cui allude il titolo- ripetuto costantemente nella nostra liturgia, ma che non mi sembra sia stato mai chiarito nella sua complessità e nelle conseguenze che comporta.
Rosmini, con la sua grandezza poteva permettersi di sottolineare le piaghe della nostra Chiesa. Per me c’è solo la possibilità di dare qualche indicazione su snodi concettuali che mi paiono confusi, ibridi, più pagani che cristiani.
GENERATO ( factum) NON CREATO (genitum)
Stiamo parlando del Redentore, del figlio di Dio, di Gesù Cristo, “generato non creato della stessa sostanza del Padre”.
Se quest’ultima affermazione (“della sostanza del Padre”) ribadisce che Gesù è Dio, la prima parte indica chiaramente che esistono due livelli sui quali riflettere: uno della generazione, cioè della trasmissione dell’esistenza terrena, nella sua precarietà, nella sua orizzontalità limitata e destinata alla morte e uno della creazione, dove non esiste la morte, dove non c’è mutamento e precarietà, dove si appartiene al progetto di salvezza, dove c’è l’autentica pace, dove ci nutriamo di qualcosa che non dà più fame e beviamo qualcosa che non darà più sete, dove il corpo che tale resterà nella sua carne, supererà il limite spazio-temporale e sarà trasfigurato, come quello del Cristo Risorto che si presenta agli Apostoli nel Cenacolo chiuso. Dunque diventa chiaro capire: “In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Gv 5, 24).
A chi è destinato questo scritto?
Ammesso che oggi ci sia ancora gente che abbia amore per il cartaceo e si dedichi a leggere un libro, questo testo è destinato al clero e a chi, con buona volontà, pur non credendo, vuole capire il proprio significato di uomo. Non che si abbia la pretesa di farlo, -di far capire e render chiaro, intendo, questo significato-, ma in una realtà come quella odierna, dove tutti parlano di tutto, chi scrive, se non altro per aver dedicato più di mezzo secolo della propria vita, con studio, conferenze e scritti, a questo problema, forse può avere il diritto, minimo, di proporre qualcosa che possa diventare utile e orientativo per chi vorrà.
Si tratta di rinnovare una prospettiva di fondo, un modo di guardare, valutare e agire in questa realtà, troppo sedimentata su luoghi comuni ereditati da vecchie ideologie, orientata da una cultura semplificata, banalizzata e piegata anch’essa a slogans, certezze fittizie (pur sempre utili per l’opinione pubblica, tenendola ancorata a certi riferimenti che non hanno le basi solide che si credono), a modelli imposti da mode, da interessi e dal gusto indotto da opinion leaders, a loro volta sostenuti da strutture o lobbies di interesse lucrativo ed ideologico (spesso interagenti).
Ovviamente non si tratta di un lavoro accademico: le citazioni che si troveranno sono poste esclusivamente a sostegno della credibilità, attendibilità o, almeno, dignitosa possibilità di avallare quanto proposto dallo scritto.
Il titolo, anche se fa riferimento ad una questione teologica, dogmatica in particolare, non deve fuorviare: è qui usato come chiave di lettura, come focus prospettico per rileggere il nostro quotidiano. In effetti, anche chi non crede, quando deve porre un quesito o una polemica, si rifà precisamente a questa distinzione, senza consapevolezza.
Così, ad esempio, affermare “perché se Dio c’è, esiste il male?” ovvero “Come fa Dio a far morire un bambino innocente fra le sofferenze?” o ancora “perché se Dio esiste ha permesso quel genocidio?”, sono tutte richieste di senso, di significato, di motivazione e rimandano ad una lettura più profonda di quella che, tranne qualche eccezione, credenti e non credenti, preti, laici e laicisti hanno sin qui fornito.
Si dice spesso che i cristiani con i loro valori, se davvero testimoniati e vissuti, creerebbero un mondo migliore. E ancora si dice che, al contrario, siano valori impraticabili, utopici, eccessivamente difficili da realizzare, astratti dalla vita reale con le sue problematiche e difficoltà. Insomma, entrambe le posizioni affermano la medesima cosa, pur da versanti diversi. In questo modo, in entrambi i casi, l’annuncio evangelico è trattato come un’utopia sociale, un diverso orizzonte politico e culturale che rivolterebbe il mondo e le sue regole laddove venisse applicato anche un minimo di valori annunciati da Gesù.
È una prospettiva ancora una volta riduttiva, che non fa memoria della distinzione tra generazione e creazione, pensando che il livello di verifica e valutazione ed intervento sia unico.
Il compito del cristiano non è cambiare il mondo. Non è quello di creare un mondo umanamente perfetto, dove tutti si amino, dove regni la pace, dove per solidarietà animale tutti si diano una mano per aiutarsi, dove tutti abbiano dignità e lavoro, dove ogni persona possa realizzare pienamente le sue aspirazioni ed essere felice, dove i giovani trovino lavoro, dove non ci sia più mafia, ecc. Il compito del cristiano non è quello di aiutare a costruire una sorta di paradiso in terra. Questo è ateismo, altro che finalità cristiana! È ateismo, cioè assolutizzazione dell’orizzontalità della vita, dei suoi pseudovalori, della precarietà eretta ed eletta a scopo. A scopo di che? Della vita! La vita rincorre il suo bene-essere, come fa qualunque materialista. Come fa qualunque organismo vivente, animale o vegetale. Mera autoreferenzialità animale.
Se si deve essere “lievito sulla terra”, allora la testimonianza cristiana è lì a proporre un altro ordine di valori, valori trascendenti, una pace che niente ha a che fare con quella rincorsa con le armi o per mera difesa egoistica del proprio sulla terra; un benessere che riguarda la quiete dello spirito, un tempo che si consuma sapendo di aver già avuto il proprio compimento nell’evento della Resurrezione, che è consapevole di quanto siano poca cosa le tecnologie, la carriera, i soldi, la vanità rincorsa ovunque, le illusioni politiche e le lotte che ne seguono, la banalità dell’esistenza. Una banalità che solo il Cristo ha redento e che ha dotato di significato.
Guardare con distacco la vita, non significa toglierle valore: significa volerne uno superiore. Se questo sguardo superiore, una superiorità che viene dalla Rivelazione e che si riversa in ogni cristiano nell’idea della gratuità e del servizio, porta a cambiamenti sociali e a miglioramenti nei rapporti umani è conseguenza, non scopo, è risultato, non fine.
È l’amore che permetterà di riconoscere chi è discepolo di Cristo. L’amore entro la generazione è partorito da una condizione di caduta, di peccato e non può, per la natura della sua scaturigine, redimersi ed essere valore: la filantropia, per quanto disperatamente rincorsa nella solidarietà della specie, è comportamento animale, orizzontale, dove ciò che conta è il raggiungimento di uno scopo, di una finalità giudicata utile, difensiva, perpetuatrice. Qui l’amore non è mai tale: né quello della solidarietà sociale, né quello di coppia. Se infatti è la dimensione generativa ad esserne l’orizzonte, questo amore non può assurgere a valore in quanto radicato nella precarietà, nel transeunte, nella interscambiabilità, nella soggettività opinabile. Un contesto negativo non può che produrre prodotti negativi e la positività può tutt’al più assurgere a identità “meno negativa”, ma mai positiva. Ciò che si produce storicamente può essere una cosa, ma altrettanto lecita anche il suo contrario. Come fanno l’amore e la solidarietà, in questo contesto, ad essere valore, se le loro radici sono marce e la loro fine è segnata dall’effimero che la nutre?
L’amore può essere valore se non è opinabile, se è assoluto, cioè se supera il livello orizzontale della generazione. Per questo motivo Gesù ce lo ha rivelato. E non ha rivelato qualcosa di banalmente già presente e diffuso, cioè quello che inflazionalmente viene definito comunemente “amore”. Ma la qualità radicalmente diversa di ẚγαπáω da φιλέω. L’amore cristiano è valore assoluto. Se sul piano orizzontale della generazione sono accettabili entrambi in quanto equivalenti, amare o non amare (è persino possibile l’ossimoro “uccidere per amore!”), un cristiano non può che amare. Per lui l’amore è valore assoluto, trascendente, sovrastorico, sovrannaturale (di qui l’indissolubilità del matrimonio, non imposta, ma condizione conseguente). Non interessa l’utilità, il ricevere, i vantaggi che se ne possono avere o altro. L’amore, per il cristiano, è prima di noi, ci fonda e ci orienta: l’amore non esiste perché l’uomo sa amare, ma l’uomo ama perché l’Amore ci pre-esiste e dà senso autentico al nostro amore. Senza raccordo con quell’Amore che ci pre-esiste, il nostro umano amore, per quanto grande e appassionato, è condannato al declino, alla morte, alla precarietà. E non supererà mai il livello della filantropia, che, a suo modo, ciascuno a suo modo, caratterizza il comportamento di tutti gli animali gregari.
In un certo senso, il cristiano non può scegliere di amare o non amare: l’amore gli è consustanziale. Per chi non è credente, l’amore è un fatto soggettivo, una scelta privata, storicamente, sentimentalmente o altro fondata, ma equivalente, -per le stesse ragioni- a chi “sente” o “prova” sentimenti opposti.
Dio ci ha creati, non generati. Per questo non ha creato la morte. Ne è superiore perché è superiore su ogni cosa finita e la morte è il trionfo del finito. Ma il fatto che Dio sia superiore alla morte non significa che Dio sia la causa della morte.
Dio ci ha creati, non generati. La pena per la peccatrice mitica Eva e della stessa condizione di ogni donna, è quella di partorire nel dolore, cioè di dar esistenza terrena, di generare e la pena per il peccatore mitico che rappresenta ogni uomo, Adamo, è di dover lavorare e sudare per sopravvivere. Insomma, la generazione è sotto il peccato e per questo motivo parliamo di peccato originale. Non è Dio a creare la morte, perché nella creazione non c’è morte. Non è Dio a creare il dolore, perché nella creazione non c’è dolore. L’uomo ha scelto di essere egli stesso creatore di sé, di autofondarsi (“eritis sicut Dei” è non a caso la tentazione serpentina alla quale cadono i nostri mitici progenitori) e ne è uscita una farsa di creazione, la generazione, dove pensiamo di creare l’esistenza soltanto perché procreiamo, ma in realtà è un’esistenza semplicemente condannata al proprio limite, cioè alla morte, al dolore, al male, fisico e morale, a tutto ciò dove il limite, come nella colpa edenica originaria, si erge ad assoluto in modo indebito e superbo, perché idolatrico.
Quest’atto di presunzione che si è rivelato subito affanno, inquietudine senza appagamento, ricerca senza risposta, tensione vana e illusoriamente risolta in placebo terreni, aveva bisogno di un Redentore, di un Salvatore, di Colui che fosse stato in grado di ridarci pienezza, felicità, compiutezza.
Il fatto che Gesù abbia mediato tra Creazione e generazione, l’influenza delle filosofie pagane (ho prima citato lo Stoicismo), ha indotto molti, clero compreso, a identificare i due piani, per cui se nasco è volere di Dio, se muoio è volere di Dio (un Dio della morte!), se ho fortuna in questo in quell’evento della mia esistenza l’ha voluto Dio, ecc. ecc. Si confonde il fatto che Dio possa tutto, che sia superiore al male, con il suo esserne causa; la Sua superiorità sulla storia dell’uomo con il suo stesso intervenire in essa (accade certamente, ma quando accade si parla di miracolo!). Il piano di salvezza di Dio sull’uomo non è direzionare la storia di qua e di là nel contingente (responsabilità soltanto nostra, ché se fosse direzionata da Dio non avrebbe avuto bisogno di un Salvatore), ma aver inviato Suo Figlio (come diciamo sempre) per far capire in modo unico, compiuto, perfetto, chiaro, universale quale sia la Via, la Verità, la vera Vita:
Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno.
E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell'anno mangiarono i frutti della terra di Canaan (Gs 5, 10-12).
E noi continuiamo a confondere la pace, miseramente costruita da noi uomini, con quella di cui parla Gesù; continuiamo a confondere la disponibilità gratuita per ogni fratello con una sorta di impegno e utopia sociale; continuiamo a confondere la ricerca di un benessere orizzontale, una sorta di Eden terrestre, con il piano di una salvezza che è oltre ed altro.
La morte è il trionfo del particolare, della precarietà: è l’assolutizzazione del particolare e, ovviamente, non può che essere NULLA. Si deve riflettere sulla morte: essa, per essenza, non può che appartenere alla precarietà. Non è da Dio, ma dall’uomo e dalla sua libertà che ha scelto, illudendosi, di poter fare da sé. Dio è padrone anche della morte, perché nulla Lo limita, ma questo NON significa che ne sia la causa. Come posso pensare, se perdo un figlio giovane che “Dio lo ha voluto chiamare a sé”?! Se Dio avesse creato la morte, la creazione avrebbe un limite e avremmo una contradizione insanabile: Dio, lo stesso che avrebbe creato la morte, manda poi Suo figlio a vincere la morte! La morte è conseguenza intima, in quanto essenza, della precarietà che presume l’assolutezza. Ed è infatti la massima espressione della precarietà.
Dio Padre è, ed è in quanto Vita Eterna, Essere, Creazione. È il Creatore.
Dio Figlio è creatore che ha scelto per amore di far parte della generazione: per questo senza peccato originale. È generato, non creato.
Gli angeli sono stati creati non generati.
L’uomo è generato e creato.
Questa appartenenza di Gesù alla dimensione della generazione, cioè della precarietà, sempre condannata a morte, spiega e giustifica quanto si legge nell’Epistola agli Ebrei, che tanto ha impegnato in acrobazie teologiche la sua interpretazione, sino a cambiarne la traduzione nella Nuova Diodati. Eppure l’Epistola agli Ebrei è chiara.
5 Difatti, non è ad angeli che Dio ha sottoposto il mondo futuro del quale parliamo; 6 anzi, qualcuno in un passo della Scrittura ha reso questa testimonianza:
«Che cos'è l'uomo perché tu ti ricordi di lui
o il figlio dell'uomo perché tu ti curi di lui?
7 Tu lo hai fatto di poco inferiore agli angeli;
lo hai coronato di gloria e d'onore;
8 tu hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi».
Avendogli sottoposto tutte le cose, Dio non ha lasciato nulla che non gli sia soggetto. Al presente però non vediamo ancora che tutte le cose gli siano sottoposte; 9 però vediamo colui che è stato fatto di poco inferiore agli angeli, cioè Gesù, coronato di gloria e di onore a motivo della morte che ha sofferto, affinché, per la grazia di Dio, gustasse la morte per tutti (Eb 2, 5-9).
Gesù è Dio ed è superiore agli angeli, ma nel momento che ha assunto la dimensione umana, è entrato nella precarietà, nella imperfezione, nella linea del mutevole e della morte. E in questo frangente, -qui sta l’umiltà e l’amore di Dio- come uomo, Gesù è inferiore agli angeli, creati ma non generati. Questo potrebbe chiarire anche perché prima di ogni miracolo Gesù chieda al Padre: sembrerebbe “inferiore”, “dipendente” e non Dio stesso. Ma la Sua natura di uomo lo “condanna” alla precarietà: non è Lui che compie miracoli, ma Lui attraverso il Padre.
E può essere in parte chiarito anche perché Gesù non è nato sotto il peccato originale, così come la stessa Maria, Sua madre. Il peccato originale è nato dall’idolatria, dalla contrapposizione: non si attacca un Assoluto se non in nome di un altro assoluto. Il peccato edenico (eritis sicut Dei) è quello di farsi Dio, dell’uomo che non ha accettato la sua dipendenza/discendenza da Dio, ma ha scelto di separarsi da Lui. E Dio lo “condanna” alle leggi della generazione: partorire nel dolore, lavorare per sopravvivere, morire e soffrire di malattie. Il peccato originale nasce dalla “scissione”, dalla frattura, dalla contrapposizione. La generazione di Gesù, come quella di Maria, nascono dall’amore, cioè dalla ricomposizione della frattura, della lacerazione, della contrapposizione. Non è un atto idolatrico, che presume, staccandosi, di trasformare il finito (l’uomo) in assoluto (Dio), ma un atto d’amore che vuole ripristinare il legame con Dio. Dunque nessun peccato originale.
Nell’accoglienza che dà inizio alla liturgia del Battesimo, il celebrante ricorda come Dio sia fonte della vita, che nel Battesimo vuole comunicare la Sua vita stessa. La vita il bambino ce l’ha già sul piano della generazione, ma essendo la vita generata condannata a morte, non è vita nella sua pienezza come Dio l’ha creata.
E il passo del Vangelo spesso collegato al rito è chiaro: «C'era tra i Farisei un uomo di nome Nicodemo, un capo dei Giudei. Egli andò a lui, di notte, e gli disse: .Rabbi, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti potrebbe fare i segni che tu fai, se Dio non fosse con lui..
Gli rispose Gesù: .In verità, in verità ti dico, se uno non nasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio..
Gli dice Nicodemo: . Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare di nuovo nel seno di sua madre e rinascere?..
Gli rispose Gesù: .In verità, in verità ti dico, se uno non nasce dall'acqua e dallo Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne, e quel che è nato dallo Spirito, è spirito..» (Gv 3, 1-6).
Dio non ci ha creato con il peccato originale. Il peccato originale è affar nostro, colpa umana, segno indelebile della generazione determinatasi dalla volontà di staccarsi dal progetto di Dio e “fare da sé”: la generazione è la goffa, impropria, scimmiottesca imitazione della Creazione, pensando che generare un essere sia equivalente a crearlo!
Ma perché chi fosse nato dalla carne, generato, potesse giungere alla pienezza della vita come nel piano della creazione e nel progetto di salvezza, giungere cioè allo Spirito aveva bisogno del Redentore, di Colui che, pietra scartata diventasse testata d’angolo, tradeunion, “interfaccia” compiuto e perfetto, nuova testa di Giano, pienamente uomo e pienamente Dio.
L’uomo è generato e creato. È adamah, terra, argilla, cenere ma con il soffio di YHWH dentro. Ogni uomo è generato in adamah, ma creato mediante l’elemento ad essa superiore (che peraltro lo rende libero fra tutti gli organismi) che è il soffio di Dio, l’esser creati a Sua immagine e somiglianza.
La prima mediazione, in risposta alla prima genitrice, doveva essere un essere umano che generava il Creatore (colui “per mezzo del quale tutte le cose sono state create”): è Maria. Immacolata Concezione significa che questa donna ha concepito (generazione) in virtù di Dio (Immacolatezza) come Spirito Santo. Questa è la prima mediazione che permette al Creatore di farsi generato. Maria non ha generato un uomo che si è dichiarato Dio (idolatria), ma un Dio che, mediante Lei, si è fatto uomo. E, nuovo Adam, fatto di Adamah, ha ridato speranza perché la generazione del peccato, scelta dall’uomo, potesse in Lui salvarsi.
Gesù è uomo (generato) e Dio (Creatore) e come uomo, cioè come generato, subisce tutto ciò che fa parte della generazione: tentazioni, dolore e morte. Come Dio non ha peccato originale (non si è staccato da Dio per superbia, ma per amore per gli uomini che ha creato) e, soprattutto, vince il più grande dei nemici, l’essenza del limite e della precarietà, ciò che definisce la generazione, cioè la morte. «E ora, Padre, guarda con amore la tua Chiesa: fa' scaturire per lei la sorgente del Battesimo, infondi in quest'acqua, per opera dello Spirito Santo, la grazia del tuo unico Figlio; affinché, con il sacramento del Battesimo, l'uomo, fatto a tua immagine, sia lavato dalla macchia del peccato, e dall'acqua e dallo Spirito Santo rinasca come nuova creatura. […] Discenda in quest'acqua la potenza dello Spirito Santo: perché coloro che in essa riceveranno il Battesimo, siano sepolti con Cristo nella morte e con lui risorgano alla vita: immortale».
Come per tutti i riti di passaggio, ovunque siano fatti e da chiunque, la nascita meramente fisiologica, naturale, generata non viene considerata, perché anche chi non conosce il Cristo ha colto l’insignificanza di una esistenza di per sé destinata alla morte, cioè al nulla. Che esistenza è? Puro apparire senza senso.
Sempre nel rito del Battesimo c’è l’orazione di esorcismo e l’unzione prebattesimale, dove si sente il sacerdote che dice: «Dio onnipotente ed eterno, tu hai mandato nel mondo il tuo Figlio per distruggere il potere di satana, spirito del male, e trasferire l'uomo dalle tenebre nel tuo regno di luce infinita; umilmente ti preghiamo: libera questo bambino dal peccato originale, e consacralo tempio della tua gloria, dimora dello Spirito Santo».
Bergoglio: “c’è qualcosa di buono in ognuno di noi”: “che tutti gli uomini sono fratelli”.. Certo, ma come sostenere queste affermazioni? Va ricordato, ribadito, sottolineato! È il fatto che siamo tutti creati da Dio e come tali, abbiamo quel soffio di YHWH che ogni uomo, qualunque sia, ha impressa in sé la traccia di Dio. E la traccia di Dio non può che essere buona. La generazione, invece, nasce dal peccato, è pretesa di sostituirsi a Dio e di essere da Lui indipendenti. È questo che ha prevalso alle origini e che, purtroppo continua a prevalere. E su questo piano, gli uomini NON sono tutti uguali! Se prevale il criterio storico, l’immanenza, in nome di cosa può affermarsi l’uguaglianza tra gli uomini? Quale criterio sovrastorico e dunque non transitorio, può permettere una tale affermazione?
Di qui una conseguenza altrettanto importante. Quando si afferma che bene e male sono nell’uomo è vero nel senso che dall’uomo si avvia ogni scelta verso il bene o il male. Il bene è nell’uomo perché è stato creato da Dio ed è solo per questo motivo che gli è presente. Il male è il particolare che si è voluto fare assoluto: la generazione è scaturita da una scissione (la Spaltung che tanto ha affannato la Mitteleuropa nel secolo scorso), da una volontà idolatrica verso se stessi: eritis sicut Dei. E lo sceglie, lo si può scegliere, decidendo nuovamente di erigere il particolare ad assoluto.
Il bene è in noi, per grazia di Dio. Il male è scelto in sua contrapposizione e lo ha “ricoperto”, “nascosto” attraverso l’atto originario generativo. Il limite che siamo può essere ciò che ci unisce o ciò che divide: nel primo caso, la linea di confine del proprio esser individuum elegge l’amore, cioè l’altro come fondamento e trasforma l’individuo in persona; nel secondo caso sceglie il proprio, l’ego come valore e ribadisce e conferma la sua individualità.
Nel primo caso, ciò avviene attraverso il Battesimo, primo passo verso l’unità con il progetto salvifico. Così infatti recita l’unzione con il sacro crisma: «Dio onnipotente, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, vi ha liberato dal peccato e vi ha fatto rinascere dall'acqua e dallo Spirito Santo, unendovi al suo popolo; egli stesso vi consacra con il crisma di salvezza, perché inseriti in Cristo, sacerdote, re e profeta, sia sempre membra del suo corpo per la vita eterna».
Il Cristo non è venuto a migliorare questo mondo, ma a salvarlo, indicandogli una strada alternativa, che, per chi vuole, per gli uomini di buona volontà o, meglio, di volontà buona, fornisce la chiave per la salvezza. E la salvezza non è che non ci sia più fame nel mondo, che non ci siano più guerre, che non ci sia più violenza, ecc. ecc. Il cristianesimo non è buonismo sociale, ma è contrasto, alternativa, alterità, che non ha lo scopo di cambiare le regole del gioco, (anche se come conseguenza è in grado di farlo!), ma di mostrarne, indirettamente, la banalità ottusa e l’insufficienza.
Quanto è ridicolo l’uomo senza Dio, l’uomo che nega Dio e che pensa nel suo minimo-che-è di aver spiegato la vita! Anche solo per un senso critico di primo livello, pensare che esista una realtà imprendibile e trascendente, è prova di ragionevole consapevolezza di essere dei nulla-viventi. E invece no! Si divinizza, si assolutizza questo o quell’aspetto del proprio esser uomo (si pensi alla scienza, tanto celebrata e che è uno starnuto di fronte all’universo!), si riveste di panni divini ciò che è precario e mortale e transeunte e ci si consola del nulla che si è celebrato. Di nuovo eritis sicut Dei. Una banale autoreferenzialità, una impossibile autofondazione, il Barone di Münchhausen che emerge dalle sabbie mobili reggendosi per il proprio codino.
Preghiamo per la pace del mondo, nel mondo, preghiamo per i poveri, perché non ci sia più gente affamata, preghiamo perché tutti abbiano salute e assistenza, perché non ci sia più disoccupazione, perché i giovani possano trovare quanto di meglio il futuro offra loro, preghiamo per i deboli, i malati, perché nessuno faccia violenza alle donne, ai bambini, sfruttati anche come guerrieri, preghiamo per i profughi, che possano trovare lavoro, casa, serenità e accoglienza, preghiamo perché non ci sia più intolleranza, razzismo, preghiamo affinché tutte le religioni siano in dialogo tra di loro per il bene comune, preghiamo per la salvaguardia del pianeta, per una economia sostenibile a vantaggio delle future generazioni, preghiamo perché non ci sia più mafia, camorra, delinquenza, violenza e sopraffazione, preghiamo perché questa pandemia ci lasci definitivamente, preghiamo per il benessere dei popoli, per quelli meno fortunati, preghiamo per un mondo migliore.
Quante volte mi sono imbattuto in queste “preghiere” dei fedeli, elencazioni sindacali e politiche edulcorate, che non hanno niente a che fare con l’identità cristiana. Infatti, avete notato che tutto quello che è stato elencato come oggetto di preghiera altro non è che quanto perseguirebbe qualunque ateo? Qualunque materialista?
Se davvero tutto questo venisse ad attuarsi, perché mai dovrei alzare gli occhi al cielo e parlare di Dio? Per ringraziarlo di avermi fatto ottenere il paradiso in terra? Ma poi dovrei maledirlo quando la morte, inesorabilmente, a qualunque età, venisse a togliermi tutto questo per cui ho pregato!
E perché quanto ho appena indicato possa acquistare credibilità, proviamo a ricominciare daccapo, ma con un altro verbo.
Lottiamo per la pace del mondo, nel mondo, lottiamo per i poveri, perché non ci sia più gente affamata, lottiamo perché tutti abbiano salute e assistenza, perché non ci sia più disoccupazione, perché i giovani possano trovare quanto di meglio il futuro offra loro, lottiamo per i deboli, i malati, perché nessuno faccia violenza alle donne, ai bambini, sfruttati anche come guerrieri, lottiamo per i profughi, che possano trovare lavoro, casa, serenità e accoglienza, lottiamo perché non ci sia più intolleranza, razzismo, lottiamo affinché tutte le religioni siano in dialogo tra di loro per il bene comune, lottiamo per la salvaguardia del pianeta, per una economia sostenibile a vantaggio delle future generazioni, lottiamo perché non ci sia più mafia, camorra, delinquenza, violenza e sopraffazione, lottiamo perché questa pandemia ci lasci definitivamente, lottiamo per il benessere dei popoli, per quelli meno fortunati, lottiamo per un mondo migliore.
Il confronto diventerebbe spietato: pregare o lottare, stare in ginocchio a snocciolare litanie o sporcarsi le mani per impattare la realtà, aspettare passivamente o agire in prima persona, subire sino all’eventuale cambiamento o trasformare subito le cose.
Il cristiano non ha come modello Barabba, il liberatore terreno, politico-sociale ed economico, ma Gesù. Se il mondo fosse trasformato come sopra, dall’agire di un cristiano, di cristiano non ci sarebbe nulla e nulla avrebbe fatto come cristiano! Anzi, si è percorsa la strada della precarietà e transitorietà storica per assegnarle risposte appaganti! L’errore idolatrico di ogni ateo. Rincorrere una perfettibilità orizzontale con riferimenti orizzontali! È stata proprio questa la tentazione serpentina dell’Eden: “sarete come Dio!”.
Eppure Gesù è stato chiaro quando ci ha avvertito che la pace che ci augurava non era la pace di questo mondo; quando ci ammoniva che non di solo pane vive l’uomo, che esiste un’acqua che disseterà per sempre e che pur morendo, se crediamo in Lui, non morremo!
Non mi si fraintenda. Non sto evocando un’astensione dall’impegno nel mondo, per il mondo. Ciò che sto criticando è che questo assurga a finalità cristiana, a impegno cristiano, a identità cristiana. Certo la pace! Certo il superamento delle diseguaglianze! Ma queste non devono rappresentare lo scopo del cristiano! Ne sono una conseguenza, una sorta di diretta derivazione dal considerare in Dio, l’altro, ogni altro come fratello.
Se l’altro come tale non ha la sua radicazione nella Verità trascendente di Dio, l’altro è soltanto uno della mia stessa specie, verso il quale sono chiamato alla solidarietà da una sorta di aggregazione e difesa della stessa, che è del tutto naturale e animale, comune e diffusa presso tutti gli animali gregari che, tuttavia, in circostanze diverse, può suggerirmi, per la medesima origine naturale e animale, di aggredire e sopraffare. Non essendoci un riferimento assoluto, le motivazioni transeunti che oggi mi fanno amico e domani possibile nemico sono del tutto consequenziali. Chi non crede, può amare e odiare allo stesso modo e con le medesime motivazioni; chi è cristiano può solo amare. Può solo amare perché per lui l’amore ha fondamento assoluto, dunque sovrastorico e nessuna variante e precarietà che il tempo e lo spazio recano con sé, può giustificare comportamenti diversi. Per questo un cristiano, come ammonisce Gesù, è riconosciuto come Suo discepolo da come saprà amare.
Tutto ciò che ha basi storiche è condannato all’effimero, alla nullificazione, alla morte.
Gesù vince questa assolutezza della precarietà che è la morte, con la Resurrezione.
Ma non è casuale che la prima immagine di essa sia il sepolcro vuoto. Cioè l’essenza dell’uomo che si riconosce figlio di Dio, che coglie l’assenza (il possibile come oltre, altro) e giudica inadempiente la presenza (natura o storia che sia). Il sepolcro vuoto è vuoto. E basta. E così, quella vuotezza riflette il nulla che è. Che ci sia dentro un cadavere o non ci sia, a ben vedere non cambia nulla: in entrambi i casi è il luogo del nulla.
Ma se riconosco che il sepolcro è vuoto, cioè intercetto in quel “vuoto” una presenza mancante, una presenza che dovrebbe esserci ma non c’è, la morte è già messa in discussione. La Resurrezione prima ancora che in modo eclatante riconoscibile dalle apparizioni successive, è lì, depositata in quell’oscurità, dove bende e sudario sono messe da una parte, in ordine. Si coglie come la morte sia, in quelle poche immagini, del tutto svanita. Stupore, paura, speranza: la dimensione della generazione è di fronte a qualcosa che non le appartiene, perché ad essa da sempre è appartenuta solo la morte.
Ma lì, in quel sepolcro “riconosciuto” vuoto, il nulla è stato, di dentro, redento.
Per questo Cristo è nostra Pasqua, perché come scrive l’apostolo, “siamo risorti con Gesù”, in Lui possiamo superare la mera dimensione dell’esistenza precaria, della linea generativa e, in Lui, risorgere alla vita eterna. E Paolo aggiunge che, proprio per questo radicarsi nella dimensione salvifica che recupera lo strappo nei confronti del piano della creazione, dobbiamo cercare “le cose di lassù”, rivolgere “il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra”. E aggiunge con chiarezza. “voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,1-3). Come nelle parole di Gesù “lascia che i morti seppelliscano i loro morti”, chi decide di appartenere alla dimensione della generazione, si condanna alla morte, al trionfo della precarietà e supplisce con disperati placebo alla sua inesorabilità nullificante. Noi come generati, siamo morti, ma come creati, con Cristo siamo nuovamente in Dio. Ecco la Pesah, la Pasqua, il Passaggio: dalla morte alla vita, dall’apparente trionfo della generazione alla creazione e al suo piano salvifico, dalla precarietà che si assolutizza all’assoluto che annienta il nulla e dà la vita eterna. È la vittoria sulla morte, cioè sulle logiche della dimensione generativa, quella del peccato, che trovano proprio nella morte la loro massima espressione (e non potrebbe essere che la morte, visto che è una indebita assolutizzazione di ciò che è particolare e precario!).
La Pasqua, per chi vuole e crede è il passaggio dalla generazione alla Creazione, dalla morte alla vita, dal finito all’infinito, dal tempo all’eternità: “Chi crede in me non morirà!”. Se fosse così sul piano della generazione, crederebbero tutti, pur di non morire! Ma Gesù sta indicando l’ardua via della creazione che mai va abbandonata, nascosta, dimenticata in mezzo alle tante banalità dolorose dell’esistenza.
Lo stesso mistero della transustanziazione può essere un’immagine di questa relazione tra generazione e creazione. Il pane e il vino (livello della generazione), per chi crede, sono il Corpo e il Sangue di Gesù Redentore (piano della creazione e della Salvezza). Ma per il credente questo dovrebbe essere chiaro, anche se appartiene al Mistero. Già il Battesimo si trova di fronte l’esistenza generata di un bambino, ma la vita non è quell’esistenza terrena, è quella che viene data dall’appartenenza alla creazione, al piano della salvezza.
È lo Spirito Santo che permette e sostiene il passaggio dalla dimensione terrena della generazione a quella celeste della creazione.
Il fatto che Bergoglio abbia esplicitamente dichiarato per due volte, in circostanze diverse, di non saper rispondere alle domande di un’infermiera circa la morte innocente di un bambino, o la malattia che fa soffrire un bambino, significa che non c’è stata in lui alcuna illuminazione dello Spirito Santo. Infatti:
1.- forse la vita ha valore dalla quantità di anni che si vive? Un bambino che muore dopo poche ore vale meno di un ultracentenario?
2.- non è forse proprio quella morte del bambino o la sua sofferenza una delle manifestazioni più eclatanti della realtà generata che è da redimere? Che ha bisogno di un Salvatore? Non è proprio quella morte, così come le sofferenze, i disagi, le imperfezioni, la precarietà quella dimensione del peccato e del male che Gesù è venuto a redimere?
3.- La Redenzione, la Salvezza non appartiene ad una vita generata. Gesù ha risuscitato bambini ed adulti durante il Suo ministero terreno, ma non è quello ciò per cui è venuto: La figlia della vedova di Nain o Lazzaro, poi, sono inesorabilmente, inevitabilmente morti. E così potrebbe essere per quei bambini del reparto oncologico che hanno suggerito la domanda all’infermiera. Gesù potrebbe farli guarire….ma così la loro vita, forse, ha acquistato un senso? O è semplicemente più lunga?!
4.- Il valore di un bambino malato di cancro e destinato a sofferenza e morte precoce, non si misura dall’assurdità di una natura precaria che è questa, da una realtà ottusamente transitoria che ne segna il corso di vita, ma dalla speranza di quella Resurrezione di Cristo che lo ha già reso immortale se in Lui si crede. Ci voleva tanto per dire e dare qualche parola di speranza e chiarezza sull’assurdità dell’esistenza generata?
A questo punto cade un vecchio concetto di Provvidenza, simile al Fato secondo il quale tutto ciò che accade devo accettarlo perché nella sua necessità di accadere c’è una volontà superiore. Era un concetto di Provvidenza che abbiamo derivato soprattutto dallo Stoicismo, che ha spesso ibridato il Cristianesimo. Ma come l’Antico Testamento è superato e inverato dal Nuovo, il nuovo concetto di Provvidenza è il Cristo: ogni uomo, se vuole e crede, troverà all’interno della generazione, il livello che gli appartiene davvero, quello della creazione mediante Chi saprà indicargliene la via:
Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione.
[…]. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.
Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio (2 Cor 5, 17-21).
Nella stessa giornata liturgica a cui fa riferimento la citazione precedente, il Vangelo propone la parabola del figliol prodigo, dove c’è un figlio che si stacca dal piano della salvezza cioè della Creazione, illudendosi di poter essere felice e appagato secondo le sue logiche di piacere e benessere e l’altro figlio che rimpiange la scelta della generazione non capendo pienamente la gratuità che è presente nel progetto di salvezza del Padre. Il figliol prodigo è l’esempio di come la Provvidenza possa agire, semplicemente immaginando che a farlo tornare non è la fame che lo attanaglia mentre pascolava i porci, ma la via che Gesù ha dato con la sua Resurrezione, quella che placa ogni fame.
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Professore grazie della riflessione! E' un tema ostico e in classe, alcuni alunni chiedono la differenza tra queste due espressioni del Credo. Però se non erro, il suo discorso si discosta dalla spiegazione classica, infatti da come ricordo (e da quello che ho studiato🙂) la sottolineatura della divinità è data dalla generazione, non dalla creazione...cioè Gesù è Eterno e Dio in quanto generato e non in quanto creato, mentre gli uomini appartengono alla creazione. Le interpretazioni teologiche credo che vertano in questa direzione, per cui la sua riflessione mi destabilizza (in senso buono) e sembra un ribaltamento rispetto alla "vulgata comune"...sempre che io non sia in errore.