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INTERSOGGETTIVITÀ

Immagine del redattore: Roberto RossiRoberto Rossi

Questo lavoro è la conseguenza di un intero anno di lezioni–seminario tenute nelle giornate di sabato dal professor Vittorio Hösle all’Istituto di Studi Filosofici, palazzo Serra Cassano di Napoli alla fine degli anni Ottanta La prima parte di questa rilettura personale della Fenomenologia dello spirito è già stata pubblicata, a puntate, sulla rivista “Filosofia Oggi” a partire dal 1991[1]. La seconda parte è, invece, rimasta inedita, pure se scritta anch’essa a ridosso di quegli incontri. Di frequente, in quei mesi, ho discusso con Vittorio di questi temi, anche in qualche incontro a Roma: egli era convinto che la filosofia hegeliana, àpice della riflessione filosofica, mancasse di quell’intersoggettività che, di fatto, ne avrebbe infranto la monolitica unilateralità. Credo che Vittorio non conoscesse Rosmini, né gliene parlai. La sua istanza teoretica, tuttavia, non è qualcosa che si riduca a qualche ritocco qua e là, a interventi sporadici di maquillage del sistema hegeliano. L’intersoggettività significa recuperare un autentico significato all’alterità, dandole uno spazio di autonomia e non considerandola più una mera “contrapposizione” da eliminare. Per questo motivo ha pubblicato nel 2012, per i tipi de La Scuola di Pitagora, Il sistema di Hegel[2]. Se per l’intersoggettività come elemento qualificante del/nel sistema, rinvio più opportunamente a Rosmini e alla sua grandiosa visione organica del sapere, per quello che, invece, riguarda la Fenomenologia in particolare, mi ha interessato dialogare direttamente con Hegel, anche perché quest’opera iniziale del suo sistema è talmente carica di suggestioni da giustificare un possibile intervento di lettura e ricomprensione.


1. Il fondamento e la coscienza[3]


1.1. L’inizio è l’individuazione, la relazione come distinzione.

Ciò che va negata per lo spirito è dunque l’unità simplex originaria come tale e l’unità immediata come tale. La relazione pre(as)sume l’io in quanto coscienza come principio di se stessa, ma essa è già in realtà esito individualizzato di se stessa. La coscienza è, per questo, limite, discriminante della distinzione che la relazione ha posto. Hegelianamente è vero per un verso che il «cominciamento è l’intiero che dalla successione nonché della sua estensione è tornato in se stesso»[4], cioè «il concetto semplice di quell’intero, ma divenuto», tuttavia l’inizio di questo cominciamento (ché altrimenti l’incominciare come trapasso dalla quiete indistinta che lo precede al suo proprio movimento sarebbe senza giustificazione), è per parte sua l’individuazione che “mette innanzi la piena struttura del nuovo mondo”, di quel mondo ideale che ci precede, fondandoci. Quel mondo ideale, che necessariamente si traduce nell’immediato del nostro riconoscimento[5], è «il generale fondamento dell’intiero medesimo», «l’intiero nell’involucro della sua semplicità», semplicità che è però in sé relazione[6]. Per Hegel il torto di ogni sapere immediato è quello di non distinguere l’articolazione interna del contenuto. Si è consapevoli perciò che questo esordio può essere giudicato come un ricadere nel dualismo del tardo Fichte dopo la polemica sul suo ateismo del ’99 (con l’opposizione tra Assoluto e Sapere assoluto posta nel 1801)[7] e dell’ultimo Schelling (come da indicazioni di Walter Schulz), alludendo ad un principio anteriore al pensiero ed inassimilabile ad esso. Un pregiudizio di tal fatta assimilerebbe queste riflessioni alle modalità conclusive kantiane che posero opposizione tra ragione ed Assoluto (una filosofia che fondava senza fondarsi), nonché al neoplatonismo (l’Assoluto fonda la ragione), dove bisognava assumere un principio che per principio non era conoscibile: sarebbe nient’altro che un’altra e–spressione di quel pensiero negativo che è arrivato sino al tardo Heidegger.

È invece l’inter–soggettività che l’idealismo ha trascurato quasi completamente[8] e che già Hölderlin oppose a Fichte e al suo idealismo soggettivo, che qui si intende proporre quale fondamento, senza voler ricadere nel dogmatismo kantiano e nella contraddittorietà della cosa–in–sé, «che non è conoscibile e però deve essere la vera essenza dell’essere». Nella filosofia pratica di Fichte l’Io che pone il non–Io considera questo come natura, sfera tecnica operativa. Ma tralascia di considerarlo come il mondo di più soggetti, tra loro in relazione. E sarebbe stato questo il passaggio decisivo.

Si è detto dell’individuazione come inizio della conoscenza e della realtà in quanto suo conseguente alter. Tale inizio se è fuori dalla giurisdizione del sapere, non è fuori da quella del conoscere, giacché questo è esattamente “relazione al fondamento”, dunque relazione che si individua come tale, rapporto tra distinti, laddove il sapere, come processo di mediazione è, per l’appunto, rapporto tra omogenei, riduzione all’omologo, cioè vanificazione della relazione come tale. E ciò valga senza che sia considerato un giudizio di valore. Hegel parlando nell’Enciclopedia di immediatezza e mediazione nella coscienza, ha voluto richiamare l’attenzione sul fatto che «se anche i due momenti appaiono come distinti, nessuno dei due può mancare, e che essi sono in connessione inscindibile». Ogni relazione col soprasensibile, per Hegel, «contiene essenzialmente un elevamento sull’apprensione sensibile o intuizione» e dunque un atteggiamento negativo verso questa, cioè la mediazione come tale. Infatti «mediazione è principio e passaggio a un secondo termine, in modo che questo secondo solo in tanto è in quanto vi si è giunti da un qualcosa che è tutt’altro rispetto ad esso»[9].

L’intersoggettività non può essere soltanto oggetto di un sapere, giacché in questo, essa resterebbe ingiustificata e, come tale, anche soltanto possibile. Essa deve risultare viceversa fondamento del sapere, anzi, in senso stretto, la relazione stessa che è conoscenza e che si esplica soltanto come relazione al fondamento, rapporto tra distinti (ché solo il fondamento è l’unico distinto, l’unico necessariamente fuori dall’ordine di successione, in quanto alter).

Connotare dunque come inizio l’individuazione del fondamento, significa impedire al sapere di assimilare il distinto e significa restare nell’intelligere che si relazione mantenendo la distinzione (eziofania). Tale distinzione tuttavia non si mantiene in sé come contenuto della conoscenza (ché significherebbe riproporre l’indifferenza dell’Identità schellinghiana) ma si rivela dinamicamente, proponendosi come conoscenza in quanto tale. In altre parole: essa sussiste in quanto c’è distinzione, rapporto discreto che non poniamo noi (poiché in questo caso l’alter sarebbe pur sempre una filiazione riduttiva) ma che ci pone per quello che siamo, in quanto siamo come coscienza del nostro sistere, il limite che ci definisce in quanto relazione all’altro.

«Il vero è il divenire di se stesso»: ma perché divenire? Perché di se stesso è posto dalla relazione con l’Altro–relazione, superando ogni unitarietà sterile perché posta tale in origine immediatamente, una unità sterile perché monolitica quando anche mediata. Nella Logica Hegel definì il cattivo infinito un infinito esso stesso finito (endliches Unendliches), unilaterale, che con la sua opposizione al primo finito, dà luogo ad un processo all’infinito. Ma anche l’infinito di Hegel resta “cattivo” perché unilaterale, giacché il possesso della mediazione altro non è che il vuoto persistere esplicato, la nuda alternanza, nell’in–sé, dell’in–sé e dell’in–sé travestito da per–sé, del semplicemente finito e del semplicemente infinito–finito. T. F. Geraets ritiene che tale unità di finito ed infinito si esprima nella processualità esterna dove la rappresentazione si ferma[10]. Ma la mediazione ha già svuotato la relazione della sua dualità discreta e nella sua unità acquisita, il finito si trasforma d’incanto (semplicemente considerandolo nella sua totalità e intierezza)[11] in infinito, cioè, ancora una volta, una indebita identità data come relazione tra differenze.

All’unità opponiamo l’intersoggettività. L’”in–sé e per–sé” hegeliano è in realtà un “in–sé”, giacché resta una universalità astratta se non fonda la necessità della propria necessità automoventesi: essenza immediata o mediata, da questa prospettiva, non muta l’astrattezza della sua unilateralità. Se il «divenir altro… deve venireripreso» è l’altro la condizione della relazione, e dunque il fondamento per cui l’essenza è in sé sterile e astratta. Non può bastarle mediarsi se questa mediazione non è fondata dalla relazione come fondamento, cioè dalla necessità dell’alter che, in quanto relazione, pone la mediazione come necessità dell’essenza. Va da sé che mediazione, cioè relazione, è solo fra distinti.


1.2. L’altro è il riconoscimento, nella relazione, della relazione. Egli era già, distinto nella relazione per la quale l’io, da esso posto, lo ha poi posto. Il suo esser–già–prima è l’astrattezza pre–coscienziale, aperta però all’effettuale: è la sua eternità astratta. Il suo tempo diviene col tempo della coscienza distinta che lo ha posto: egli è figura dell’attività dell’io come coscienza. In quanto tale, l’alter è limite anch’egli, ma, per il limite che lo ha posto, condiziona nel fondamento la coscienza di quello, cioè dell’io come limite, cioè l’autocoscienza. Questa, dunque, è, ed è tramite l’alter–limite, tale questo, perché figura del limite dell’io che lo ha posto. L’io è dunque il principio genetico, non semantico. Non basta come per Fichte che l’Io sia l’Io: per riconoscerlo nel predicato, identico al suo proprio, esso lo deve porre relazionato a sé e, in quanto tale, predicabile come Io e non altro. È dunque la relazione che, inerendogli, lo giustifica come tale. Se l’Io fosse mera autopositura senza relazioni, non avrebbe neanche bisogno di porsi quale inizio di esse. Seppure con se stesso, per ora, l’Io per appropriarsi di sé, deve relazionarsi: la relazione resta formale, in alienum formaliter, perché l’Io permane presso se stesso, ma essa consiste (cum–sistente), pure se in abstracto. L’io non si scopre come io se non in relazione ad un tu. La coscienza è dunque vuota infinita forma di sé: essa deve conformarsi alla sostanza che è spirito: essa deve diventare soggetto.


1.3. L’Assoluto, hegelianamente, dev’essere concreto, deve essere cioè risultato[12] e non principio (solo in quel modo peraltro infatti può essere dimostrato). E d’altra parte come può essere absolutum un principio come l’Io fichtiano che è, solo in quanto si riconosce in sé inadeguato? Hegel stesso svolge questa critica, asserendo che una volta esso è assoluto, un’altra invece del tutto finito. Per non cadere in una paralisi della ragione (critica ai sistemi di Fichte e Schelling in uno scritto del 1806 pubblicato postumo) o nella rigidità spinozistica della sostanza, Hegel concepisce l’Assoluto non come sostanza, ma come soggetto. Per concepirlo in tale maniera, l’Assoluto non può più essere concepito come principio, ma come risultato dello sviluppo. L’Idea assoluta di Hegel non dà inizio soltanto a categorie logiche, ma anche a quelle della filosofia reale. La struttura assoluta non può essere posta immediatamente, non deve essere un punto, ma una serie di articolazioni riflesse, ché altrimenti sarebbe una struttura astratta[13]. Essa deve essere dimostrata. In Hegel la definizione dell’assoluto è la sua dimostrazione: l’identità tra identità e non identità. Infatti una semplice entità opposta ad un’altra, come in Fichte, contraddice all’assolutezza che nulla può avere di opposto, ma che deve invece essere unione di soggettività ed oggettività, se davvero vuole proporsi come una struttura assoluta. Essa fonda sì se stessa, ma se ha valore ontologico si deve dimostrare che senza di essa si avrebbe una deficienza, cioè strutture manchevoli che devono presupporre la struttura prima assoluta. Soltanto così si potrà sfuggire al rilievo hegeliano per il quale chi cerca l’indeterminato appagamento in una indeterminata divinità, può appagarsi ovunque: gli è sufficiente «vagheggiare qualche fantasma e… farsene bello». Ma dimostrare delle strutture derivanti l’infondatezza senza la relazione prima assoluta, è l’unica possibilità che essa ha di dimostrarsi.


1.4. La determinazione della priorità dell’alter sull’io e/o viceversa, sembra in generale non competere alla filosofia (in realtà ne è parte essenziale), e parrebbe rientrare nell’ambito dell’ipotesi di una psicologia della coscienza, soprattutto nelle pregevoli riflessioni di Lacan o chiudersi nell’etichetta di una fenomenologia. Tuttavia, anche per la psicologia e la fenomenologia, vale la fondazione filosofica e non viceversa. La relazione implica certamente i due relazionandi, ma essa, qualunque sia persino la priorità reciproca tra i due, li precede in ogni caso come condizione del loro concetto e li pone per questo come differenti. Essa non si aggiunge ad essi, ma inerisce ad entrambi in quanto quel che sono[14].

L’in sé relazionato immediatamente al è nient’altro che il sé irrelato. La relazione non si pone all’interno, ma per così dire, se non in senso analogico. L’io che stabilisce una relazione con se stesso, si duplica senza uscire da sé, esprimendo, pur tuttavia, in ogni caso, nella sua duplicazione, l’essenza duale della relazione, sebbene l’abbia stabilita soltanto nell’unità reale di reale e virtuale. Questo io «si è dilatato in dualità [ed in ciò] resta eguale a sé e possiede, nella sua completa esteriorizzazione e nel suo contrario, la certezza di se stesso». La differenza fonda l’identità, giacché se fosse vero il contrario, da questa mai si potrebbe dedurre quella: ricadremmo nell’indifferenza totale tra soggettivo ed oggettivo come in Schelling.


1.5. Il primo limite, che è la coscienza, è scaturito dall’individuazione come relazione tra distinti: esso è posto dall’ eternità astratta dell’alter, non ancora ri–conosciuto, ma semplice scaturigine del conoscere. Il secondo limite è l’alter, posto come tale dal riconoscimento del primo che è coscienza. L’auto–coscienza è coscienza del limite, cioè la relazione consapevole. L’alter è ridotto al tempo dell’io che è coscienza ovvero limite che lo ha posto dopo esserne scaturito[15].

Il tempo, che è coscienza, è la prima condizione che riduce la condizione altera dell’altro: questi che è soggetto (causa) del riconoscimento e oggetto nel ri–conoscimento, cioè eternità (compimento senza tempo), è figurato dal limite coscienziale come altrettanto limite. Ma fra due limiti, omogenei nella loro condizione, non si pone relazione. La vera relazione è con ciò che, distinto, ha posto la relazione tra identici, la relazione tra identici che è l’autocoscienza. La relazione è tale solo tra distinti.


1.6. L’altro è l’Idea per la quale è possibile ogni concetto. Qui dobbiamo concordare con Hegel e dare un grande tributo, sotto questo aspetto, alla riflessione di Fichte che ha voluto dedurre ciò che Kant aveva semplicemente raccolto: è con Fichte che possiamo tentare di ricostruire un rapporto logico tra la struttura della soggettività e le singole categorie. Ciò tuttavia può non bastare.

Noi vogliamo vedere anche la soggettività come una categoria che dà inizio, geneticamente, al processo deduttivo, ma che è dedotta a sua volta da una struttura che la precede e la fonda e che è dunque la prima in ordine al significato, anzi che è il significato di per sé.

Questa esigenza di voler fondare tutto porta necessariamente anche il nostro lavoro a una struttura riflessiva, perché senza una struttura riflessiva cadremmo nell’infinito regresso: la logica nasce quando la verità sa di essere pensata. Così, in senso stretto, non possiamo parlare di dualismo per questo lavoro, ma di un monismo dove però «l’assoluto è l’intuizione che sorregge ogni distinzione concettuale»”, è «l’essenza che è realizzata anche nelle differenze della sua forma». Dunque «la differenza non è qualcosa di fondamentale nel finito, ma soltanto qualcosa che è radicalmente derivato – che il finito sussiste soltanto in virtù dell’assoluto e quindi nell’assoluto»[16]. Nella acuta (hegelianamente fedele) argomentazione di Henrich è dato più facilmente rilevare ciò che nell’idealismo è più implicito. Così scrive Henrich:


se ogni finito è l’intero in una certa prospettiva e in una certa accentuazione, si può dire che in ogni finito l’assoluto giunge ad apparire. E si può inoltre dire che questo finito è contenuto nel concetto dell’assoluto quanto alla sua idea, per cui l’assoluto è insieme la totalità delle idee del finito[17].


In quest’ultima affermazione, Henrich ha voluto rendere visibile non solo il valore e il peso quantitativo dell’Idea, ma anche la riduzione dell’assoluto ad una somma di parti, ad una intierezza quantitativa, senza che si sia tenuto in debito conto che la quantità è una figura riduttiva e riduttrice della qualità che distingue il finito dall’assoluto. Soltanto così, credo, sia salvaguardata l’indipendenza operativa del finito, e nel contempo la sua dipendenza fondativa dell’assoluto. Il concetto è dunque la condizione temporale della coscienza, per il quale essa articola il suo rapporto con l’altro–come–concetto. Tra l’altro–come–Idea, che ha posto e fondato la coscienza nel rapporto tra distinti e l’altro–come–concetto, oggetto di definizione sistematica della coscienza che lo ha posto nel limite e nel tempo, persiste un residuo ineliminabile (che pur fuori dall’ambito del sapere, è tuttavia oggetto possibile di conoscenza).

Il residuo si configura come concetto dell’Idea: esso è l’immagine mobile dell’eternità[18].


1.7. L’io delimita l’alter, il non–io. Non lo pone, ché invece, è questo, come fondamento, che pone quello. Il non–io si determina attraverso la coscienza dell’io: entrambi, come limite, sono autocoscienze. Noi cominciamo a riflettere dopo che il non–io è reso concetto, ma nel far questo presupponiamo l’io già come esito individuato (e dunque distinto), tale solo perché fondato dal suo distinto, il non–io. Se partiamo dalla coscienza, dall’io, cioè dal limite, costruiamo un sistema sul negativo: il sistema altro non sarebbe se non la rivelazione del limite (e di fatto cos’è se non il trionfo del limite?). Kierkegaard ha ricordato in una nota de Il concetto dell’angoscia che «l’errore fondamentale della filosofia moderna sta proprio in questo fatto, ch’essa voleva incominciare col negativo: invece di cominciare col positivo, ch’è sempre il primo».

Il reale differire delle due autocoscienze nella dialettica servo–padrone, è possibile soltanto perché lo squilibrio della differenza, costituiva, nel vero rapporto, l’inizio come fondamento.


1.8. Il tempo è l’io. Lo spazio non è mai il proprio: esso, nel riconoscimento del non–io da parte dell’io, è il limite del non–io. Per la coscienza dell’io che pone ogni rapporto, il limite è il tempo come condizione specifica del raccogliersi presso di sé dell’intensione. Per l’altro–come–concetto, in quanto dunque posto dall’io coscienziale, il proprio limite, che gli consegue dal riconoscimento, è costituito dallo spazio, che è presenza alternativa, extensione in atto.

Nel rapporto dialettico tra due autocoscienze come reciprocamente riconoscentesi (due coscienze reciprocamente mediatesi), tempo e spazio si rovesciano nelle due radicali prospettive possibili del limite: morte e servitù[19].

L’io in effetti è condizione precedente l’autocoscienza ed è pure autocoscienza. Esso dunque connota il raccogliersi come prima identità prodotta dall’Idea e poi il costituirsi oggetto di se stesso in quanto identità conclusiva acquisita. Chiameremo ego la prima condizione, lasciando che l’io denomini l’auto–coscienza[20].

spirito ----------------------------------------



non–io (ovvero me)

come oggetto di conoscenza


non–io

come coscienza





IO non–io

come Idea


---------------------- EGO -------------------


In egual misura, il non–io non può che conseguire dall’autocoscienza e per questo, in senso stretto, il primum che ha fondato l’ego è semplicemente l’Idea, come ordine astratto costituente di relazione.

Il processo hegeliano ha investito la triade ego–non–io–io, per poi consolidare il non–io in concetti: questa è la conoscenza come sapere: la sintesi dev’essere la verità della tesi.

Vittorio Hösle sostiene (al solito acutamente) che il sistema di Hegel è nell’Enciclopedia, mentre la Fenomenologia non è parte integrante. Lo stesso Hegel tolse alla Fenomenologia il sottotitolo di “Prima parte del Sistema trascendentale”. La Fenomenologia, infatti, presuppone una logica e dunque non può fondarla, mentre questa non ha bisogno di quella, che ha soltanto una funzione propedeutica per lo spirito finito, senza capacità di fondare il sapere assoluto.

Va da sé che, per quanto qui sto cercando di approfondire, la Logica è certamente sapere assoluto senza che questo sia tuttavia l’assoluto fondante. La Logica, in questa prospettiva, va fondata da una teoria della conoscenza, della quale essa è una particolare applicazione (=applicazione sul particolare). Per una teoria della conoscenza è necessaria una metaconoscenza, cioè il rapporto dell’io con l’Idea: essa non può essere sapere, giacché, per usare la terminologia di Hegel, ciò significherebbe per l’io salire sulle proprie stesse spalle, voltarsi per vedersi. Se Hegel è all’alter che permette la mia autocoscienza, io sono la coscienza di Hegel. Comprendere la relazione dell’io con l’Idea è il primo obiettivo della filosofia che, in seguito, per poter fondare ogni possibile sapere o agire (suo secondo obiettivo) deve chiarire dove ha le sue radici. «La forza dello spirito è grande quanto la sua estrinsecazione; la sua profondità è profonda soltanto in quella misura secondo la quale esso ardisca di espandersi e di perdersi mentre dispiega se stesso», rinunciando dunque anche alla pretesa di contenersi nel mero concetto. Soltanto così il fondare come autofondare avrà un fondamento. L’Idea è, per così dire, la struttura prima assoluta senza la quale l’articolazione del sapere è infondata anche se corretta. Non basta sostituire, come fa Apel, una fondazione razionale della razionalità (che fonda dunque su ciò che deve dimostrare), con la mera alternativa del pre–razionale o arazionale che può soltanto essere accettata o rifiutata in toto, sfuggendo ad ogni verificabilità.

Anche questo infatti significa, pure se implicitamente e in negativo, assolutizzare il sistema del sapere quale riferimento discriminante, giacché la positura dogmatica nelle tenebre non fonda, né illumina. In questo senso non si può definire dualista questa mia riflessione: non c’è un principio positivo che si oppone a un principio negativo.

La compiutezza di un sistema è la conseguenza dell’approdo dell’io presso se stesso: l’autocoscienza è il sistema[21]. La rivoluzione copernicana kantiana è così un ritorno al tolemaico geocentrismo che è ego–centrismo: l’altro è sistemato dall’ego, corretto e rivestito di simbolizzazioni che ne diminuiscono la valenza altera, il peso della diversità. Sotto queste indicazioni la rivoluzione copernicana prima ancora che di Kant, fu di Lutero, e, metodologicamente, di Galileo, che aveva dovuto operare sul reale quantificabile, per renderlo possibile oggetto di una scienza[22].

Ma questo dispotismo gnoseologico, una volta che venga posto quale unico modus sciendi, non può poi arrestarsi con malcelata umiltà davanti alla cosa–in–sé. Il noumeno è soltanto invenzione, artificioso confine dell’uomo, limite che egli ha imposto arbitrariamente a se stesso perché impaurito di se stesso. La cosa–in–sé non è dunque opposta alle categorie del pensiero, ma come sosteneva Hegel, è essa stessa una categoria, pure se molto astratta. Il noumeno non è nel processo di sistemazione, dove l’io, di fatto, non ha limiti se non appunto i propri, ma è dunque alle spalle della coscienza della quale costituisce il fondamento. È il riconoscimento del limite, infatti, a costituire la coscienza come tale, che si riconosce in esso nella relazione tra distinti, con ciò che è oggettivamente distinto da essa e che la precede. L’inizio non è l’oscura sterile vanificazione delle tenebre, ma l’individuazione, la relazione tra distinti. E tuttavia se fossero soltanto distinti, la relazione non avverrebbe. Essa è per la distinzione ma essa è anche l’affinità che la rende possibile e la realizza ogni volta. Ciò che è affine, nella distinzione della relazione, è lo spirito.


Quello che per la coscienza si produce in seguito, è l’esperienza di ciò che è lo spirito”, che precede ogni coscienza. Esso è “sostanza assoluta la quale, nella perfetta libertà e indipendenza della propria opposizione, ossia di coscienze–di–sé diverse, essenti per sé, costituisce l’unità loro: un Io che è Noi, e un Noi che è Io.


Ciò dunque ci è affine nella distinzione. Lo spirito infatti è l’identità che distingue, il “divenire a sé un altro”: lo spirito «guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione».

Esso, di per sé, non è mai «in condizione di quiete, preso com’è in un movimento sempre progressivo». Così l’Assoluto come fondamento non può essere posto sic et simpliciter come Essere distinto, esterno al mondo, l’«alterità maestosa e irriducibile all’io e al suo desiderio» come in Levinas. Del resto tra la riduzione hegeliana dell’alter allo stesso e quella di Levinas al tutt’altro, secondo le intonazioni comuni già alla Riforma e all’Ebraismo, non c’è, a ben vedere, alcuna differenza: il Tu è in ogni caso un’ombra che dilegua. Se l’Assoluto fosse opposto al mondo, avrebbe un limite: un infinito opposto al finito è anche esso un finito perché ha un limite. Se il principio è monolitico, unico, non c’è sviluppo: solo la dualità crea lo sviluppo. Il monismo concreto hegeliano si proponeva di integrare la struttura di polarità senza annullare la base dualistica. Avrebbe dovuto valere il principio positivo che non può essere negato, mentre quello negativo deve presupporre sempre il principio positivo. L’alterità dell’Assoluto fondante è la distinzione qualitativa, non la mera ganze Anderheit, categoria molto primitiva (come rettamente e da “protestante eretico” la definì Hegel) che non pone relazioni e che non rende possibile il formarsi di alcuna distinzione nella realtà, perché tutto è indifferenziato davanti all’assoluta differenza dell’Altro–Assoluto o davanti all’assoluta indifferenza, altrettanto vuota dell’Identità schellinghiana tra Io e Non–Io. L’Assoluto–fondante è la relazione che distingue. Così, complementariamente, Hegel «ha compiuto il passo decisivo verso la nozione di assoluto come spirito in quanto ha raggiunto la nozione di un finito che in relazione a se stesso è altro»[23]. La ratio sciendi ne è solo (e per questo) l’immagine speculare: essa è l’unità nella distinzione. L’incontrovertibile è la negazione dello spirito, ché di esso semmai è la trascrizione meccanica.

Tale è la sorte anche di questo scritto che rinvia al di qua di sé dove risiede lo spirito. Ma se quello è per questo, questo se se ne parla, non può che essere ogni volta da quello. Ciò che è necessario e che è di più di ogni parola, è la relazione, «un divenir–altro che deve venire ripreso, ossia una mediazione». È solo un pregiudizio pensare che la mediazione non riguardi l’Assoluto e gli sia estranea: così facendo si rinuncia alla conoscenza (conoscenza e non sapere, si badi bene) dell’Assoluto. Lo spirito è indotto dall’incontrovertibile della ratio, quale sua conseguenza, ma, per l’appunto, come sua premessa fondante: è il medesimo che tra concetti e l’Idea. La ratio non adegua lo spirito, che viceversa la trascende. Lo spirito è la verità per la quale è possibile la vera relazione, cioè una realtà fondata. Il sapere deve vedere il suo contenuto nella propria interiorità che è «la pura eguaglianza con sé nell’esser–altro». La ragione è negazione dello spirito, cioè la sua manifestazione. Essa è per il riconoscimento (distinzione nella relazione) e svolge se stessa come conoscenza nell’identità della relazione. La natura del fondamento dell’ego: è la valenza spirituale dell’ente come unità. Questo ente come spirito è posto proprio in quanto limitato e la sua identità si esprime come riconoscimento del proprio limite. L’unità del raccogliersi presso sé che è la coscienza, si rivela come unicità.


1.9. L’unicità dell’individuo è la trascrizione nel concetto delle variabili come possibilità compiute ma circoscritte della infinità dell’Idea. L’individuo che è unicità è possibile per la infinità delle variabili che sono conseguite dalla relazione con l’Idea. Questa sovra–sta qualitativamente ogni nostra partecipazione, cioè qualsivoglia relazione. Anzi è per questo motivo che si rendono possibili indefinite compiute relazioni. Infatti i presupposti genetici sono tanto più numerosi quanto meno presupposti fondativi una teoria ha.

La relazione è possibile tra distinti: la distinzione è nell’eccedenza qualitativa dell’Idea: così noi la sperimentiamo nascendo e nasciamo per tale esperienza. Questa è l’attimo del riconoscimento che sfugge al concetto, cioè al sapere, ma non all’intelligenza: in geometria è il punto infinito, cioè intensità radicale. Il punto è l’ipostasi di ogni possibile relazione. Esso, quale intensità compiuta, incrocia la dimensione temporale dell’io con quella spaziale dell’altro.


1.10. Le infinite possibilità del concetto in relazione all’Idea attestano la valenza superiore di questa rispetto a ciascuna e alla loro totalità. Questa è la storia, cioè la condizione permanente del variare. Come tale, essa figurando la serie dei possibili (ché come adeguazione compiuta non produrrebbe più relazioni e dunque variazioni) è una realtà mobile che non fonda. Sotto questo aspetto una conoscenza deve essere storica, ma il suo significato non può esserlo. Se l’‘immane fatica’ della storia, infatti, esprimesse il significato di se stessa con se stessa, o, in altre parole, trovasse in sé le ragioni del suo esplicarsi, non farebbe che esplicare la variazione come condizione della variazione: si descriverebbe cioè semplicemente come problema, il che, appunto, è il non costituirsi come soluzione. L’accidentale è reale soltanto nella sua connessione con altro. Se la storia non si assume come problema, ma quale fondamento, ogni problema è risolto, giacché la prospettiva dalla quale si affronta il problema è quello dei concetti, dove non facciamo altro che chiedere e rispondere a nostro piacimento: questo è infatti l’àmbito entro il quale esplichiamo il nostro io.

Ma il senso è sempre nella struttura relazionale trascendentale. In questo senso, lo spirito è la stessa struttura relazionale interpersonale[24]. E se pure è fondamentale chiarire i termini di questa conoscenza, in essa il suo significato non potrà che trovarsi nella variabile cioè nell’effimero cioè nell’opinione. Sotto questo riguardo, il significato di un’opinione muore con essa. La permanenza del significato è possibile soltanto quando essa trascura il tempo dell’io e lo spazio del non io concettuale. Siamo soliti chiamare questa condizione universalità. Essa figura nel tempo e nello spazio la loro negazione. Negare la permanenza del significato, se davvero vuol significare se stesso, dimostra la sua più completa innegabilità. Viceversa infatti sarebbe un negare con significato variabile, cioè negantesi come statuto. Non è possibile negare l’universale dal particolare; quando questo avviene il particolare è l’universale. Ma la filosofia «è essenzialmente nell’elemento dell’universalità».


1.11. Il concetto per sua natura non può essere universale. Questa condizione gli deriva dal partecipare della natura di ciò che lo fonda, l’Idea. Di questa esso è limite: traduce cioè l’approssimazione della qualità e con l’analogia astratta, l’ineffabilità dell’Idea. L’irriducibilità di questa si traduce nella infinità delle possibili parziali riduzioni: ciascuna non è quello che dovrebbe, manifestando tramite ciò l’alterità dell’Idea. Questo scarto si riproduce tra concetti e linguaggio e tra questo e le cose. È progressiva la discesa dalla permanenza alla variazione e in egual modo dalla universalità al particolare. Idea e cose si configurano come i due estremi, rispettivamente, dell’assoluta permanenza e universalità e dell’assoluta variazione particolare. L’Idea, che è qualità compiuta, proprio in quanto permanenza universale, è una: le cose, quantità in atto, essendo variazioni particolari, sono di numero indefinibile. Da queste a quella il passaggio è impossibile, arrestandosi al solo linguaggio. Hume rappresenta l’estremo e più coerente atto dell’empirismo: egli ha espresso e concluso sulla linea della conoscenza il significato delle variabili particolari. Hegel, ancora una volta, ha definitivamente messo a tacere le solite ricorrenti pretese dell’empirismo: fisici puri sono soltanto gli animali, mentre l’uomo come essere pensante, non può che essere metafisico. È necessario, va ripetuto agli empiristi d’ogni epoca ed estrazione, che si conoscano le strutture apriori entro le quali capire ed interpretare il fenomeno, altrimenti si potranno osservare per secoli indefiniti fatti, senza mai poterli e saperli ordinare in leggi. L’empirismo nel momento in cui sperimenta, se non ha una controfattualità, non può che ratificare il mero fatto che gli è di fronte. Così ideale e reale non si oppongono, ma hanno origine comune: la Logica vuole essere per Hegel la descrizione di Dio prima della creazione del finito, un vero e proprio salire al di qua di sé come finito, ben oltre le proprie stesse spalle.

Tutto ciò che è, è aperto, è disposto ad essere conosciuto: l’ontologia è logica.


1.12. Si dovrebbe pensare tuttavia che l’espressione del limite, cioè il particolare, non sia indefinibile, giacché tutto ciò che è limitato è definibile. Infatti l’indefinibilità delle variabili non è condizione delle cose ma relazione: è un giudizio che rispetto all’unità permanente dell’Idea è espresso dai concetti. In senso stretto dunque l’indefinito appartiene al mondo dei concetti, non alle cose. Assai riduttivo infatti è asserire (come qualche anglosassone ha fatto) che ci sono tanti concetti quante sono le cose: anche dell’assenza si ha un concetto, e persino dei concetti se ne ha uno[25].


1.13. Lo spirito rende affini l’Idea e i concetti. Esso è tuttavia il discriminante: la relazione si rende possibile nella distinzione per affinità. La distinzione è anch’essa per lo spirito: questo è la condizione dell’appagamento. La linea entro la quale si scioglie semanticamente la tensione. Sotto questa prospettiva lo spirito è la natura della verità. Il concetto si riconosce nello spirito, riconoscendosi nel contempo inadeguato: esso interpreta il proprio conseguire come dipendenza qualitativa. La svolta decisiva, in questo senso, ancora una volta operata dalla filosofia hegeliana, è che il finito viene superato da se stesso:


ogni finito va pregiudizialmente concepito come qualcosa che si rapporta a se stesso in modo negativo. È finito proprio perché, come ha detto Hegel più tardi, porta in sé il proprio limite, la propria fine, ciò mediante cui supera se stesso. Il finito può essere annientato soltanto in quanto va incontro all’annientamento di se stesso[26].


Ma il superamento del finito da parte dell’assoluto non è diverso dal suo superamento da parte di se stesso: «l’assoluto è all’opera nel finito stesso in quanto il finito annienta se stesso»[27]. La pura autorelazione dell’assoluto va dunque pensata «come relazione negativa in cui il finito si trova rispetto a se stesso»: «il finito nell’assoluto è l’altro di se stesso»[28], cioè l’assoluto si rivela (per Hegel sarebbe invece identico) attraverso l’autosuperamento del finito, cioè attraverso la successione. Ma l’Assoluto è davvero autorelazione o non piuttosto relazione per eccellenza? Il καθ’ẻαυτό greco, con l’impianto strettamente intellettualistico che lo caratterizza, va superato nell’Assoluto–relazione, cioè nel fondamento che, appunto relazionandosi, dà senso alla totalità[29]. Per questa prospettiva, trova diversa valutazione il fondamento socratico del “sapere di non sapere”, possibile all’interno del rapporto tra i concetti e l’Idea: la possibilità infatti di poter affermare la mancanza dipende da quella di potersi rapportare, seppure virtualmente e in abstracto, con l’eccedenza. E la distanza non può che essere qualitativa, se non si vuole pensare al detto socratico in termini di sterile inventario provvisorio, destinato quantitativamente a completarsi in seguito. La possibilità operativa poi, da parte dei concetti, di porre seppure in generale e in modo indefinito l’Idea, non può essere confusa con una successione fondativa: è infatti una possibilità che a quelli viene da questa e non viceversa, anche se si manifesta nel viceversa. Il particolare non fonda l’universale[30] e quando lo fa ciò gli è consentito proprio da quell’universale, che in realtà lo precede[31]. L’universale che precede non è il concetto che è il generale conseguente: anzi la sua tendenza a superare il particolarismo è fondata da quell’universalità che coinvolge ogni particolare.



2. Il tempo


2.1. Il tempo è la relazione tra l’Idea e l’ego: esso appartiene alla sfera della relazione con l’oggetto interiore che nella sua fissità compiuta devasta l’attimo dell’emulazione da parte dell’ego, costringendolo poi ad una successione incalzante. Questa emulazione si rivela nello spazio, cioè nella relazione con il non io–come–concetto; è il suo modo di essere rappresentato. In questa rappresentazione, generalmente, la figura del tempo è la sua riducibilità a calcolo[32]. In realtà esso è l’intensità dello squilibrio causato dal rapporto con una diversità riconosciuta superiore. Questa in–tensità si figura come tensione nella sfera della relazione tra ego, non–io ed io. Il tempo dunque è lo sradicamento successivo dalla propria sede di permanenza che l’idealità produce su ogni relazione coscienziale (cioè su ogni possibile relazione che la coscienza intrattiene). Tanto più marcata nell’affinità è l’alterità come valenza della relazione, quanto più il tempo è sperimentato e sperimentabile nella sua intensità: ciò che viene definito n o i a , è il permanere del permanere. L’insoddisfazione che ne scaturisce è nel rapporto con questo, riconosciuta impropria e cioè estranea condizione dell’ente. La coscienza infatti si è identificata (cioè è scaturita) dalla relazione con un’eccedenza che l’ha squilibrata e non può, di conseguenza, identificarsi con il permanere che è, in tal caso, cioè nel limite, illusoria rappresentazione del compimento.


2.2. Ciò che ho definito “sradicamento successivo dalla propria sede di permanenza” è la conseguenza dell’individuazione (cioè la relazione prima come distinzione) che è l’inizio. Il tempo conferma l’avvenuta individuazione, ma esso non compare ancora, per così dire, quando essa si realizza, giacché l’individuazione è l’attimo (prima figura dell’eternità)[33]. Sotto questo aspetto il tempo vero si distingue da quello reale nella semplificazione dialettica tra qualità e quantità, con le due rispettive contrapposte condizioni della discontinuità e della continuità. La qualità «è in generale una negazione, cioè parimenti una qualità, ma…una qualità tale, che ha il significato di una mancanza» e che proprio in questo «si determina poi come limite», come spazio definito. La negazione in quanto qualità è l’individuazione come relazione originaria.

Noi dipendiamo dalla continuità, mentre la discontinuità ‘dipende’ da noi: cioè è in essa la radice di quello che chiamiamo libertà. Essa si esercita nella continuità naturale come una forza ad essa estranea e perciò devastante. E questo, nonostante sia nelle sue competenze assorbire ed esaurire la continuità. L’es-pressione della continuità nella discontinuità è la ragione incontrovertibile (ratio mathematica o logica o politica). La discontinuità infatti si rivela principalmente nella creatività, cioè l’attimo che si traduce in exteso, l’eternità manifestata nel tempo (cioè il tempo vero espresso nel tempo reale).

A queste due coordinate (continuità e discontinuità) possono collegarsi anche i due atteggiamenti noti come proprietà pertinenti ai due livelli di conoscenza della realtà, scientifico e filosofico: il livello descrittivo (continuità) e quello giustificativo–fondativo, cioè eziologico (discontinuità). Infatti è possibile descrivere una realtà solo dove il nesso causale sia successivo, mentre per giustificare è necessaria una relazione discreta, giacché nel continuo tutto è autogiustificabile e dunque tutto è ingiustificato.


2.3. Il tempo ha origine, lo spazio no. La ragione sta nel fatto che il primo è la vera espressione della scaturigine della coscienza, mentre il secondo appartiene alla condizione dell’oggetto come conseguenza derivata dall’esplicazione della coscienza nella relazione conoscitiva. Sotto questo aspetto, il tempo è la successione (suo carattere improprio) dell’intensità di una relazione interiore che ha causato il sorgere dell’ego e ne ha connotato la qualità, cioè la discontinuità cioè la coscienza. Questa successione che definiamo cronologia e che investe una quantità indefinita di relazioni (indefinita, ma calcolabile perché limitata) è la seconda figura dell’eternità. Essa svolge in continuità la discontinuità dell’individuazione originaria (la relazione tra distinti), traducendo nel successivo lo squilibrio come compiuto momento dell’identità. Essa svolge all’esterno il suo in–tendere e si estende come tensione: ha inizio perché è l’inizio. La storia rappresenta così lo svolgimento dell’identità che riconosce la sua radice fuori dalla sua sede. La ricomposizione dell’unità dell’originaria individuazione si manifesta nella categoria dell’universalità, dove ognuno si riconosce e nel contempo si supera.


2.4. Il superamento risponde alla relazione discontinua, cioè al riconoscimento dell’alterità quale fondamento. Ma avendo posto questa relazione nel continuo della successione, risulta impossibile in essa mantenere la discontinuità dell’alterità[34]. Essa dunque rivendica il suo, nella condizione del residuo quale espressione inassimilabile della categoria dell’universale che invece vorrebbe rappresentarla. Il residuo è la terza figura dell’eternità, cioè del tempo vero e come tale è l’ostinata presenza dell’assenza nel tempo reale. In altre parole, il suo sfuggire alla sistemazione rivela un’alterità qualitativa rispetto al continuum universale, che è una mera rappresentazione quantitativa della medesima alterità. La relazione che esprime la rappresentazione quantitativa dell’alterità come continuo universale è lo spazio. Esso è la condizione dell’alterità in estensione–come–successione nel tempo reale. In senso stretto, dunque, non esiste sotto questo aspetto la simultaneità, né per lo spazio, né per il tempo reale. Essi esprimono, infatti, esattamente l’impossibilità di tradurla. In questa comune impotenza, come il tempo (reale) così anche lo spazio è una figura dell’eternità, la quarta figura. Sotto questo riguardo, il tempo reale esaurisce nello spazio la sua tensione traducendosi nella relazione di successione nella successione: il movimento. Qui è l’instabilità a figurare l’alterità nella relazione all’ulteriore. Anche il mutamento è sotto questa condizione, ma mentre il movimento è diacronico, il mutamento è sincronico. In generale entrambi, come la successione temporale, possono essere assimilati al concetto del divenire che è precarietà espressa.


2.5. Si è sempre dato, di conseguenza, all’eventuale incontro della linea del divenire con quella (generalmente raffigurata in direzione verticale) del compimento, il senso della devastazione e dell’esplosione della prima. Strauss, Feuerbach e Renan sono soltanto alcuni dei tanti profeti apocalittici dell’impossibilità e della non desiderabilità di questo incontro. L’incrocio dell’Assoluto col finito non potrebbe recare, a loro giudizio, che la fine del finito. Il loro presupposto è semplicemente quantitativo e soltanto così potrebbe spiegarsi l’esplosione e la fine di un contenuto parziale. Ma il presunto incontro avverrebbe con una qualità compiuta, indecifrabile e dunque irriconoscibile per/all’interno di una successione quantitativa. È un’illusoria alterità quella di cui essi parlano: una forza diventa esplosiva per un sistema quando è omogenea per natura al sistema, pro–vocando la fine del sistema per una capacità superiore quantitativamente. Come per una legge contenuta e superata in un’altra, non c’è più posto per la sua provvisorietà. Ma se viceversa dovessimo immaginare questo incontro davvero realizzato con l’alterità, non potremmo aspettarci altro che la negazione, quel contrapporsi negativo che in ogni caso evidenzia e denuncia la distanza (dunque la discontinuità che è alterità) tra gli interlocutori. Sarebbe perciò una presenza selettiva che obbligherebbe a mutare radicalmente il proprio modo di costruire relazioni con la realtà, rovesciarle per quanto possibile dall’evidenza quantitativa nell’invisibile qualitativo. Questo è un nuovo rapporto del tempo reale con quello vero, un rapporto compiuto (per iniziativa del secondo), che chiamiamo, con l’uso che ne fa la teologa cristiana, kairόs. Il kairόs è la quinta ed ultima figura dell’eternità[35]. Esso è definito in generale come tempo sacro e, rispondendo ai requisiti del compimento qualitativo, non muta, non ha divenire, proprio come il tempo vero.

Due sono così le figure calcolabili, e due quelle che riproducono più coerentemente nella loro eterogeneità la qualità del tempo vero; una, l’ultima, lo manifesta direttamente, e dà dunque vita e fondamento de factu alla stessa possibilità del calcolare, riproducendo la medesima relazione originaria[36].



3. La coscienza infelice


3.1. Il problema posto da Hegel rientra nella successione concettuale che è quantitativa. Infatti la riappropriazione da parte della coscienza delle sue figure scisse è la storia come struttura ideale per l’identità autocosciente. Sotto questo aspetto niente va aggiunto o tolto: quand’anche lo si facesse, i rilievi hegeliani raggiungerebbero il loro scopo: far crescere la consapevolezza dello spirito. La struttura hegeliana dell’Aufhebung, resta anche se non si condivide, anzi soprattutto per questo[37].

Ma il problema che sto invece qui delineando, riguarda il presupposto della coscienza infelice che si rende esplicito con la filosofia hegeliana: le modalità del suo riconoscimento. Essa infatti, come sappiamo, si riconosce scissa e nella parte scissa si riconosce, riconosce cioè l’appartenenza di quella a sé. Ma anche la domanda sul reciproco è fondata: come si può riconoscere la scissione e porla, se essa, di fatto, non c’è (in quanto potrebbe non esserci e, conseguentemente, per questo, verrà annullata). La divisione di cui quella coscienza vive la rappresentazione è il discontinuo del tempo vero nell’attimo dell’individuazione (del riconoscimento nella relazione discontinua originaria). Essa proietta quel non–io ideale nelle alterità concettuali, vanificandone in partenza la valenza discontinua.

Di conseguenza avendo tolto prima l’alterità, non potrà che vederne dopo la connaturalità, nient’altro che un sé distaccato dal proprio sé. Altrettanto conseguente, sotto questo aspetto, la possibilità di ricomporre la lacerazione, giacché di questa si è già in origine mitigata l’intensità della natura. Essa infatti è ora solo la totalità delle relazioni possibili nella continuità, cioè un mero conoscere quantitativo. Il peccato è infatti una delle condizioni presenti nella successione, anzi è di fatto la lettura di questa come manchevole, determinata cioè dal non–essere. La figura perfetta di questa coscienza infelice è Lutero (come si legge al § 60 della Fenomenologia), coscienza «tanto misera quanto infelice» perché si identifica con l’insignificanza e la nullità dell’uomo, quotidianamente teso ad espellere da sé il male.

Ma questa è una coscienza irrelata, perché relazionata all’identico, cioè la successione: la sua infelicità le deriva dal porsi «limitata a sé e al suo fare medesimo», una «personalità che non riesce se non a covare se stessa». Ma contro Hegel va detto che l’uscire dall’irrelato non è la mediazione della successione, diversa dal modello animale solo per complessità (cioè maggiore quantificazione come mediazione rispetto alla risposta). Il vero nemico è il modello animale, chiuso nel cerchio monadico ineluttabile di fame, sete, sesso, insomma nella linea di svolgimento della natura. Il desiderio naturale non è lo strumento che ci può aiutare a capire i nostri bisogni. Certamente alla coscienza, la quiete e l’intimo convincimento, le deriva proprio dall’«approdare a una zona di calma a lei già nota». Ma sotto questo aspetto, il fatto di aver vanificato la qualità, cioè la discontinuità quale riferimento della riflessione filosofica, è certo un errore prospettico grave. Entrando nella linea gnoseologica di metodologie per questo scopo più attrezzate, la filosofia ha finito col proporsi come semplice supporto all’indagine scientifica, di cui anzi spesso ha anelato rigore e finalità.

Dunque anche per un discorso metametodologico, essa ha tradito le sue prime istanze, accettando la continuità con la scienza (e di conseguenza una relazione di sudditanza, perché falsa relazione in quanto successione) e non invece la connessione a un rapporto discontinuo, anzi essa stessa relazione discontinua, qualitativamente diversa. Entrando in un rapporto dove l’altro, nel concetto, è assimilato al processo dell’io[38], la filosofia, di fatto, si è lasciata manipolare dalla metodologia–principe in questa linea di conoscenza che è la scienza: nella successione come continuità quantitativa la filosofia è del tutto estranea, giacché le compete la discontinuità, la relazione di qualità. La scienza, sotto questo aspetto, non ha fatto altro che quantificare nella successione la stessa riflessione filosofica, espellendone tutto ciò che la diversificava, cioè che la rendeva filosofia.


3.2. La scienza delle scienze, come dottrina della scienza è il compito della filosofia in quanto fondazione del pensare stesso. La sua forma è in se stessa: autofondazione perché c’è coerenza tra forma e contenuto. Il regresso infinito (la fondazione degli assiomi all’infinito) della fondazione non fonda. Senza una fondazione non c’è controllo dello scibile, ma uno scibile frammentario, molti saperi senza unità.

Come sapere però di aver raggiunto questa fondazione? Non vale certo in questo caso il metodo induttivo. Il fondamento metodologico è ciclico: la prima proposizione deve coincidere con quella conclusiva.

La logica è solo formale, astrae da ogni contenuto, mentre la dottrina della scienza deve poter porre l’unità di forma e contenuto. La logica si limita sempre alla descrizione formale, mentre la giustificazione appartiene alla dottrina delle scienze.

Le scienze empiriche possono condurci (e questo è quanto basta per accontentarci di esse) a capire l’infondatezza del legame tra gli assiomi. Ma l’infondabilità degli assiomi conclude nel nichilismo. Lo specifico filosofico sono i principi e i concetti fondamentali altrimenti indefinibili: la filosofia soltanto è capace di fondarli.


3.3. La coscienza infelice nella filosofia di Hegel altro non è se non la consapevolezza del sapere che, una volta raggiunte le sue mete, si volge indietro a considerare ciò che inizialmente le appariva estraneo. È la scienza che si pretende risolutiva, vanificando opportunamente sin dall’inizio il peso del problema.

Scrive Francis Jacques:


Hegel volse la tradizione speculativa del panenteismo cristiano in una filosofia propriamente critica, nella quale cioè Dio non ha alcuno status trascendentale, essendo soltanto la Gestalt nella quale la struttura trascendentale di esperienza appare come un tutto.


Ora, è chiaro che una conoscenza fondata sull’identità (relazione quantitativa, dove prevale la continuità sulla discontinuità) è fondamentale e sia detto anche in senso etimologico. La necessità della quantificazione galileiana rispetto all’ingenua pretesa di Bacone di fondare una conoscenza della qualità è certo l’inizio: anche il bambino inizia a conoscere assimilando per costanti (quando anche illusorie o presunte tali) e in tal modo inizia a ordinare il mondo che gli è davanti secondo i parametri che possiede in modo rudimentale. La crescita, in questo senso, è solo quantitativa: aumentano i parametri e crescono in proporzione i riferimenti possibili e la quantità di cognizioni. Ma la vera maturazione, in ordine persino all’interpretazione psicologica, è il riconoscimento della diversità. Essa coincide con quello che da quella disciplina (e affini) è definito Edipo: il superamento del sé e del proprio per l’individuazione e l’accettazione della persona diversa come riferimento di una nuova forma di relazione: quella discontinua, cioè con la qualità. Per far questo, come è noto, il pensiero occidentale si è a lungo affaticato e la metafisica ha rappresentato, in questa prospettiva, il luogo privilegiato di questo riconoscimento. Le stesse relazioni non sono dunque una forma infantile di conoscenza, giacché, in generale, esse riconoscono la necessità dell’alter e la sua conseguente (perché alter) ‘lontananza’ psicologica. Molto più schematizzate al rapporto primitivo di conoscenza (quello dell’assimilazione analogica) sono invece magia e scienza, accomunate dalla medesima condizione di partenza: una continuità di relazioni poste dall’io attraverso i suoi strumenti interpretativi e simbolici, tanto più forti ed efficaci quanto più capaci di mitigare e/o vanificare la valenza altera del riferimento al quale rapportarsi. Niente da dire sulla loro importanza, efficacia e necessità. Ma forse, dopo questi giusti balbettii, è forse tempo di uscire dalla continuità e riconoscere che la realtà è discontinua e che va conosciuta così. Fino ad ora l’abbiamo voluta vedere secondo una linea di continuità, semplificazione della sua complessità. Non è necessario sottolineare che qui non si sta cadendo in contraddizione, visto che si parla di “conoscere la discontinuità” dopo che più volte si è detto che la conoscenza come relazione concettuale, dunque il sapere, non può che essere una relazione di continuità (di successione). Si accetta la riduzione al legame concettuale (proposizioni) perché questa successione non sia, per così dire, la conseguenza di una eliminazione della diversità nell’atto stesso della relazione; in altre parole su una successione distinta si inserisce la successione continua come strumento che rende possibile la conoscenza e la concettualizzazione. Infatti anche la discontinuità e dunque della qualità si può avere un concetto, anche se esso si esprime in questo caso secondo un diverso grado di approssimazione (Kant ne ha intuito la presenza quando ha parlato del Verstand überhaupt). Di fatto la coscienza infelice nasce da questo residuo tra l’unica possibile conoscenza (che è successione continua, la concettualizzazione come relazione di quantità) e la discontinuità della qualità, che è figura della sfera temporale dell’io, cioè dell’ego e del suo sorgere come inizio della relazione di coscienza. Tutto è esprimibile per la coscienza ed esauribile nella linea di successione perché tutto può essere nella successione tranne che la coscienza stessa che si sfugge come misura adeguata di se stessa: il vero noumeno è la dimensione dell’intensione dell’io, ciò che lo ha in origine posto come ego, inizio di ogni possibile relazione. Così la coscienza infelice è la coscienza tout court, cioè è l’uomo. Ogni coscienza è infelice perché ogni uomo è coscienza del limite, cioè sa quel che è e quel che non è. L’infelicità gli deriva da “quel che non è” e che pure gli ha permesso di essere esattamente quel che è.

L’infelicità è concetto non legato allo stato affettivo o psicologico: la sua valenza deve essere considerata puramente intellettuale. Per questo, paradossalmente, possiamo dire che coscienza infelice è una vuota tautologia dove l’aggettivo inerisce già al soggetto che, per essere coscienza, deve identificarsi con lo stesso peso del limite, la sua infelicità.

Anche ciò che da taluni si accetta di definire inconscio appartiene alla sfera dell’ego cioè della condizione della relazione. L’io, come oggetto dell’ego, è nella continuità e, di fatto, l’autocoscienza è l’avvenuta conoscenza di sé, ma di sé come io, cioè come altro dall’ego, insomma come me. L’ego come soggetto primo è fuori da quei concetti che ne sono una trascrizione quantitativa: l’io è il contenuto, è il quid che riempie nello spazio l’ego come intensione pre–concettuale. L’io hegeliano, definito come il divenire in generale «in virtù della sua semplicità”, in quanto è «l’immediatezza che è in via di divenire, nonché l’immediato stesso», è però astratto dogmatismo. Come ego è infatti conseguenza di una relazione con chi lo precede; come io è oggetto della relazione con l’ego. Esso è dunque sempre mediato. Infatti il pensiero dogmatico, nel sapere e nella filosofia, «non è altro che l’opinione secondo la quale il vero consiste in una proposizione che è un resultato fisso, o in una proposizione che viene saputa immediatamente».

Eppure sappiamo che l’ego partecipa dello spirito dell’Idea che lo ha fondato. Ma oltre non sappiamo andare. In questa prospettiva, la coscienza infelice è la coincidenza del sapersi come oggetto e non quale soggetto, del porsi soltanto come reciprocità speculare, come richiamo a conoscersi fuori dalla propria sede originaria. Tra l’ego e l’io (che è coscienza perché autocoscienza) c’è il non–io che è il sé come me, oggetto dell’ego, presenza dell’altro che mi scinde dall’essere e dal sapere come unicum fondativo. Il non–io concettuale è dunque la stessa necessità che fonda il conoscere come tale che è come tale coscienza infelice, cioè necessariamente autocoscienza, coscienza oggetto di se stessa che è altrettanto oggetto anche come presunto soggetto di questa relazione. L’ego è approdo non più raggiungibile, condizione prima, scaturita dall’individuarsi nella relazione con quella Idea che è la discontinuità compiuta.

Si potrebbe dire che tutto questo, proprio perché semplicemente posto e non concettualizzato, non è che fantastico e illusorio presupposto. Ma il soggetto della relazione di successione ci deve pur essere e tuttavia esso si scopre soltanto dopo che si è reso oggetto e dunque la coscienza si conosce soltanto come oggetto di sé, cioè come autocoscienza. Come coscienza essa si ignora, ché altrimenti si saprebbe come soggetto, o meglio non si saprebbe affatto, nel senso che sarebbe semplicemente nel suo, nel proprio esser soggettività. Come coscienza dunque, l’ego resta nella condizione di inappagamento, alle proprie spalle, infelice condizione che si redime spostandosi nella linea della continuità.

Come qualità, come intensione, come discontinua condizione della relazione di individuazione di chi l’ha fondata essa è al di qua di ogni successione e come tale estranea al concetto. Questa estraneità è la sua infelicità. Essa non può che vedersi specularmente perché solo così le è permesso conoscersi. Tuttavia essa non si conosce: essa si traduce in altro dall’ego e ridotta la sua soggettività alla trascrizione quantitativa di ciò che si presenta come elemento continuo della successione, il non–io, si rende consapevole a se stessa senza per questo conoscersi come soggetto del conoscere se stessa. L’ego è dunque condannato a conoscersi soltanto come io, o, per usare qui parole del quotidiano, l’io può sapersi soltanto come un me. È da questo me che si parte per porre la necessità soggettiva che lo ha posto. Ma in effetti questo io è indotto per relazione reciproca, come fosse un qualcosa di estraneo. Esso non è nel suo conoscere e non si conosce per come è, ma è oltre il suo conoscersi. L’ego, d’altra parte, non può essere l’inizio; esso per individuarsi deve essere all’interno di una relazione discontinua. Tale relazione non può essere stata formata dall’io e dal non–io, omogenei ed equivalenti nella successione, cioè nella continuità quantitativa (dove infatti la relazione è rovesciabile senza mutare i valori del rapporto), ma esclusivamente da una relazione discontinua, dove il non–io è qualitativamente altro, non assimilato concettualmente all’analogia dell’io. Il non–io della relazione discontinua è l’Idea ed è questa che con l’ego ha formato la relazione discontinua, cioè il vero rapporto tra diversi, quella che ha permesso l’individuazione, cioè la relazione come distinzione, quale inizio. Secondo la terminologia di cui ho fatto già uso, posso definire la coscienza infelice come l’impossibilità del tempo reale di adeguare l’attimo nato dal rapporto con il tempo vero (l’eternità dell’Idea). Il soggetto di conseguenza è sempre sottinteso, costantemente invisibile, rinvio da parte del medesimo sotto la condizione oggettiva. Non deve spaventare questa radice indefinibile: è qui la condizione della libertà, cioè la plurima possibilità di essere (dell’) io rispetto all’ego. La propria debolezza diventa la propria forza: il limite è l’assoluta possibilità.

In qualche modo, lo scarto tra questi riflette, seppure in scala, lo scarto tra l’ego e l’Idea: è ancora tempo vero, qualità, relazione tra distinti. In altre parole è il mondo dove l’alter è il vero soggetto, la categoria imperante e, per questo, inassimilabile.

Nella linea di successione continua, l’unica azione che esplica questa condizione è l’azione creativa. Essa pur esplicandosi nel tempo reale è in grado di sfuggire ad esso esprimendo nell’universalità del raffigurato (il non–io dell’Idea) proprio l’ego come coscienza, come soggetto, condizione impossibile ad esprimersi nel resto delle possibili relazioni. L’atto creativo, di fatto, è tempo vero, e non ha senso misurarlo (tradurlo cioè nella relazione quantitativa del tempo reale): esso si esprime come intensione. Lo storicismo che ha preteso di contestualizzare quell’atto non ha fatto altro che indicare come successione continua ciò che di fatto si presenta proprio come opposto ad essa, ciò che si è espresso come si è espresso perché non ha trovato nella successione i modi per farlo, cioè la relazione qualitativa con il contesto, relazione distinta e autonoma, tempo vero (e dunque universale) in contrapposizione al tempo reale (misurabile, limitato, contingente, particolare). Si è cioè esautorato il significato di un atto costringendolo, ad una relazione che esso ha già rifiutato: la continuità con il proprio tempo non è mai creativa. Questo storicismo evirante regna negli imperi accademici filosofici italiani, dove saper ripetere bene è prova di rigore metodologico. La storia è maestra di vita solo se interviene la filosofia a renderla tale: quella infatti di per sé è nulla, cieco divenire, incalzante fallimento di effimeri che si presentano assoluti, radicale tensione alla morte. I fatti non parlano. La filosofia dà (o non dà) una linea di sviluppo, un senso, una direzione, persino l’idea del mutare che invece non tocca come problema gli altri organismi viventi. È dunque la storia a dipendere della filosofia e non viceversa. In questa prospettiva il marxismo è la più grossolana mistificazione di questo rapporto: si è fatto passare per filosofia ciò che è storia (universalizzando l’effimero) e si è ridotta a storia (in ossequio malgrado tutto a Hegel) la filosofia (evirando la discontinuità, cioè la qualità e rendendo terrestre ciò che è celeste). Di fatto erano e sono surrettiziamente premesse nel marxismo due concezioni della storia: con la prima si colpiscono le pretese del sovrastorico relativizzandolo e riducendolo a semplice conseguenza successiva; con l’altra si fa della storia il serbatoio di verità, la magistra di ogni esperienza, persino la guida delle proprie scelte, insomma l’assoluto. Si predica dello stesso soggetto (la storia) la relatività (e dunque l’interscambiabilità causa l’equivalenza, e questo quando è comodo contro gli avversari) e l’assolutezza (soltanto la storia è il luogo della verità, quando fa comodo sostenere la propria tesi). Così, come per incanto, tutto è relativizzato contestualmente tranne che il marxismo, il quale, bontà sua, pretende di superare il rapporto con il proprio tempo. Soltanto ai positivisti è riuscita una truffa più vistosa, assegnando al calcolo (che è per il limite) un valore incalcolabile (illimitato). A tutte queste concezioni manca la sensibilità per la discontinuità, il rispetto dell’alterità, la profonda attenzione alla qualità, fermando all’inessenziale particolare quel rapporto che deve essere invece con l’essenziale universale. Sono il monologo dell’unilaterale, del quantitativo, dell’omogeneo, del riduttivo, della successione, del tempo reale su quello vero, della morte sull’eternità. Ma è necessario costruire la libertà dalla unilateralità, unilateralità che altro non è se non il particolare che pretende di esaurire l’universale. Non è il grido del povero a scuotere, ma la massa, il numero considerevole che pesa e preme: la verità si misura così a numeri. La misura della coscienza infelice è data o dovrebbe essere data proprio da queste degenerazioni, dove il pensiero è di fatto incatenato alla successione e dove si avverte più forte e doloroso lo scarto con l’intensità interiore che ci rende tutti uguali ma nella radicale diversità. Voler suturare lo scarto che rende infelice la coscienza, infelice perché essa non si può attingere come coscienza ma soltanto come oggetto di sé, non può giustificare soluzioni riduttive che invece accentuano lo scarto e lo stato di scissione con se stessi. Non è bastata la paradossale, amara denuncia di Kafka o gli stessi nichilismi imperanti.


3.4. L’ego non ci appartiene: egli sostiene i processi di identificazione seguenti e ogni altra possibile relazione, ma, entrando nella relazione per appartenersi, si veste dell’oggettualità del non–io e si scopre nella figura altera: appunto, scopre che l’ego appartiene impliciter ed espliciter al non–io, prima come Idea, vera alterità, poi come concetto, alterità certamente ridotta e assimilata alle categorie di continuità, ma pur sempre Gegen–stand.

La difficoltà di questo scritto si è manifestata, tra l’altro, nel dover svolgere nella successione spaziale delle pagine (che cadenza la successione del tempo reale di lettura) i mutamenti qualitativi nell’intensità della riflessione (Tempo vero), la quale riflessione, infelicemente, deve ora prender atto della provvisorietà con la quale e nella quale ha dovuto esprimersi. Chi legge avrà il concetto di successione e non potrà forse mai pensare alla simultaneità di alcuni contenuto, né all’intensione che li ha determinati. Da questo punto di vista, l’aspetto conclusivo, «il nudo resultato è la morta spoglia che ha lasciato dietro di sé la tendenza», cioè la «vitalità stessa del suo consistere».


4. Lo spazio


Denomino spazio la successione continua concettuale, nell’ordine della necessità e quantità. Esso è non–io per definizione, cioè la sfera dell’oggetto. Lo spazio è la consistenza dell’altro come contenuti della successione. Nello spazio l’intero è la somma delle parti. per il tempo vero, viceversa, l’intero è prima delle parti. Queste non sono mai tempo, ma spazio. Il tempo è sempre l’intero.

Sotto questo aspetto lo spazio non è una dimensione dell’ego, né mai può esserlo. Solo lo spazio di conseguenza può essere concettualizzato ed esso funge da riferimento assoluto nella successione di continuità. È il parametro rispetto al quale stabilire ogni relazione. Lo spazio è dunque la condizione della definizione. Il suo valore è soprattutto strumentale, nel senso che esso traduce la possibilità in realtà.

Avevo definito lo spazio la quarta figura dell’eternità. In questo senso si può parlare spazialmente di infinito ed indefinito. Uno spazio indefinito è semplicemente la possibilità di una relazione nella successione, una virtualità che deve compiersi nella definizione. È dunque semplicemente un riferirsi a un momento provvisorio della relazione che, orientandosi alla definibilità come spazialità, ne attesta il valore essenziale. Insomma uno spazio indefinito è improprio, è soltanto una condizione intermedia, provvisoria, che concettualmente esprime la virtualità definitoria come momento di passaggio verso la definizione. Potremmo infatti definire l’indefinibilità spaziale, come vuoto, che è come dire successione virtuale.

Lo spazio infinito invece è irreale, è una condizione immisurabile solo per il concetto, non per la realtà. Esso traduce la tensione della successione non la successione nella sua estensione. Sotto questo aspetto si può parlare di quantità nella sua purezza categoriale: è il concetto–limite che funge da ultimo riferimento nel processo di calcolo. Anche questo può essere infinito, cioè può calcolare all’infinito la finitezza (misurata) che produce la successione. Né i numeri infiniti, né lo spazio infinito sono infiniti: è infinita (cioè sempre ulteriormente finibile) la loro successione finita. Il loro valore, per così dire, è dato da un vettore dinamico, non dalla statica consistenza della definizione. Ma la dinamicità tensiva della successione è tuttavia altrettanto definibile. L’infinità infatti è sempre qualitativa, stabilendo una relazione discontinua con il finito. Tale discontinuità non può essere spaziale, giacché lo spazio che è la condizione definibile, cioè il limite, non produce nella successione interruzioni. Quale sussistenza, esso «è l’eguaglianza con se stesso; giacché la sua ineguaglianza con sé sarebbe il suo dissolvimento».

Sotto questa prospettiva non deve apparire paradossale che soltanto il vuoto può essere infinito (perché indefinito). E anche questa condizione non vale come essenza ma come provvisorietà, relazione cioè possibile, non reale, tendenza virtuale alla definizione. Il vuoto è (se non scandalizza troppo la terminologia) la condizione di una concezione dinamica dello spazio, la sua virtualità complementare, la sua convessità tendente a zero. Il vuoto è più vicino al tempo vero di quanto non lo sia lo spazio: è un’assenza carica di tensione[39].

L’individuazione nasce proprio qui: riconoscere il vuoto (che come tale non è, non esiste nell’ordine dei concetti, cioè nella relazione continua di successione) è ciò che esprime e traduce immediatamente il limite, esprimendolo e traducendolo come intensione senza appagamento. In senso stretto il vero problema è il vuoto, la sua presenza assente, inquietante, o meglio, il porlo come possibile presenza, come virtuale superamento dell’assenza, di se stesso. Esso è vuoto nell’ordine dei concetti, giacché questi non sono adatti a definirlo ma solo a concepirlo. Non è il suo porsi come vuoto ad essere un problema, ma il problema è sempre una relazione con il vuoto, cioè una relazione discontinua, uno squilibrio che traduce la figura della qualità come alterità, come possibilità alternativa. Gli antichi avevano ragione a concepire il vuoto come motore (il pieno, infatti, non provoca alcun movimento, essendo appunto la pienezza, l’equilibrio).

I problemi sono risolti quando, appunto, si forma la successione continua.

Individuare il vuoto è davvero un problema del tempo vero e non appartiene dunque né alla misurabilità del tempo reale, né a quella dello spazio. Dunque il porsi di un problema come tale è sempre riconoscere la discontinuità: esso appartiene all’ordine della qualità nell’attimo del riconoscimento per tradursi poi in un mero non–essere concettuale. Fermarsi a quest’ultimo tuttavia e, come talora avviene, farne inventario di una generale valutazione della realtà come totalità, significa non aver capito di aver capito, cioè di aver posto una relazione che necessariamente, nella sua discontinuità, è avvinta all’alterità (qualitativa dunque) rispetto al vuoto, alla pienezza come possibilità. In questo senso possiamo dire che l’uomo soltanto ha problemi, mentre ogni altro organismo vivente, traducendo l’assenza in semplice mancanza quantitativa, deve soltanto attendere il completamento della successione, cioè quanto essa ha già in essa per essa (l’istinto). L’istinto è la figura radicalmente opposta al tempo vero: in quello l’uomo smarrisce la sua identità più propria, subisce semplicemente il suo limite appagandosene. È vero dunque che l’istinto è sempre cieco, in quanto è ogni volta appagato dal suo stesso esprimersi e ignora il limite in cui versa. La sua adeguazione nella successione è il monologo dell’indifferenza, il morto spirito.

Ogni monismo antimetafisico è un istinto concettualizzato, l’animalità come modello.

Lo spazio, nella sua definibilità in generale, è un istinto di conservazione, una successione persistente o che tende a permanere. La continuità come condizione permanente della successione è la solidità. Essa limita la tensione alla successione entro la continuità della sua persistenza. La sua staticità è esclusivamente nel proprio porsi in relazione continua con la successione, ma in sé essa tende a sdefinirsi, a compiersi fuori dalla persistenza. Il suo permanere è suo malgrado, è dinamico, centrifugo, giacché persistere nella successione è il medesimo che negare la continuità come precarietà. La realtà che permanesse sarebbe compiuta e come tale non soggetta più ad alcuna variazione. Viceversa la lenta consumazione della solidità è determinata dalla tendenza interna ad uscire dalla definizione di permanenza per entrare in quella della successione. La realtà intera tende all’omogeneità della successione come staticità, cioè alla conclusione della tensione alla successione per affermarsi in toto come pura successione di continuità, definizione di ogni definibilità, come morte, come entropia.



5. Lo spirito


Lo spirito è il tempo vero. E lo è anche se viene connotato da figure diverse da quello. In effetti l’elemento costante nella relazione è la fondazione, la verità della relazione, la possibilità stessa della relazione. Sotto questo aspetto, lo spirito è l’unico elemento che ci fa compartecipi della verità in quanto affine ad essa. È solo per lo spirito che sappiamo di ignorare: è tensione interiore che si traduce come limite, cioè come precarietà fondativa.

La ragione è la figura quantitativa dello spirito. Il suo modo di procedere (necessario e universale) è la modalità stessa della successione, cioè della relazione continua: necessità e universalità traducono nel continuo quantitativo la qualità di eternità che fonda la relazione discontinua con l’ego–limite: è l’intensità tradotta in tensione. L’espressione dello spirito più vicina all’intensione originaria nata dall’individuazione come relazione discontinua è la creatività. Questa rappresenta infatti il recupero dell’individuazione come attimo, cioè la discontinuità all’interno della successione. La si definisce solitamente irrazionale proprio per l’incapacità da parte della relazione continua di definirla, di inserirla cioè quale omogenea struttura continua nella continuità. Ma essa, se è fuori dal dominio della ragione non è fuori dallo spirito, del quale invece traduce nel miglior modo possibile l’intensione. È dunque lo spirito che interpreta la discontinuità originaria che è l’individuazione e che coglie nel contempo la propria affinità con l’Idea fondante.

È questo primo vero rapporto, dialettico (vera dialettica in quanto relazione discontinua) che produce le (parziali) dialettiche tra quantità e qualità all’interno della successione concettuale e cioè il movimento mutante che definiamo storia.

Parlare di storia dello spirito è di conseguenza assai pertinente a patto che ne si colga il costante offuscamento in una scansione di successioni a scapito della simultaneità dell’intensione. Sotto questo aspetto la storia sviluppa l’indefinita serie quantitativa di relazioni (successioni continue come continua successione) in risposta dell’infinita intensità del suo riconoscersi come necessaria (la originaria relazione discontinua che ha rivelato la radice limitata del proprio consistere). Il limite che essa esprime dialetticamente nella successione è l’attimo del riconoscimento fondativo dell’eccedenza Ideale come compiuto spirito. Questo è colto nello spirito soltanto come rivelazione del limite dello spirito che lo ha colto e misura infinita (nella qualità) da colmare nella infinita successione (la quantità).

L’Idea non si rivela come in sé compiuta (ché altrimenti la relazione si appagherebbe in Essa) ma come rivelazione dell’incompiutezza dello spirito che si individua (individu–azione) cogliendola nell’attimo della relazione.

L’investimento della materia di leggi ovvero di un finalismo nelle relazioni ovvero semplicemente di un legame causale, non è che l’espressione di una legge di coordinazione che nasce da una relazione originaria di discontinuità con l’Unità dell’Idea. Persino la causalità non è che il rovesciamento al negativo di questa legge di coordinazione che si dichiara senza finalità ma con la necessità di doverlo dichiarare (per strapparla ad una successione di significati giudicata priva di significato). Come in un negativo fotografico sono invertite posizioni e rapporti di chiaroscuro, ma l’immagine rappresentata è la medesima: assicurare una definibilità alla successione. Infatti se questa fosse davvero sotto accidente e non ponesse giustificate motivazioni di significativo collegamento non sarebbe stata mai individuata la definibilità positiva o negativa del suo succedere. Il giudizio, anche se negativo, conferma il soggetto: non si dichiara guerra a uno stato che non si riconosce. La negazione di un nesso sensato non è la negazione del nesso: di esso si nega l’esistenza dopo che se ne è individuata l’esistenza: un singolare rovesciamento applicativo della ‘prova ontologica’[40].

Qualcuno potrà riscontrare l’indebito inserimento nel mio discorso della ‘materia’, di cui nulla si è detto se non di un suo particolare modo d’essere (la solidità). La materia si è spesso contrapposta allo spirito, quasi che ne fosse una sua manifesta negazione. L’errore di questa tesi è duplice: se la si considera come categoria, anche nella sua variazione di ‘materia informe’ o ‘caos’, essa è pura astrazione, cioè figurazione dello spirito che la individua soltanto in una relazione con se stesso e attraverso se stesso. In questa linea la sua possibile consistenza è, per così dire, soltanto consistenza possibile, cioè vuoto, cioè assenza carica di tensione. Come tale essa si rivela nello spirito e con lo spirito, non in contrapposizione ma quale sua dipendente definibilità. In secondo luogo, la materia come consistenza cosale, definita e/o definibile, ha intanto in questa possibilità definitoria la possibilità stessa di convivere con il concetto, cioè con una figura dello spirito. È evidente che nella linea della successione, dove cioè la continuità quantitativa com–pone le relazioni, la materia vi inerisce in modo del tutto appropriato, mentre il concetto si appaga solo eliminando la sua estraneità rispetto ad essa nella definizione e ponendo la conseguente serie di relazioni nella linea di successione. La materia dipende dal concetto per la sua definibilità che è la sua identità più propria, e il concetto dipende dalla materia, anche se solo in generale, per il suo riferirsi alla coordinazione dove la materia può non esservi senza che per questo debba non esserci. La successione è in fondo terra di dominio della materia che è quantità consistente nel suo persistere e il cui concetto è la definizione come sua misurabilità. La duttilità della materia è di essere all’interno della medesima relazione di continuità in successioni diverse, cioè con molteplici definizioni. Il concetto invece non è mai il medesimo pur definendo la medesima materia. Per questa ragione si ha la certezza, seppure inconsapevole, che unico è l’oggetto e molteplici i metodi per definirlo. Questo serve soprattutto a salvaguardare in qualche modo la qualità in un rapporto che è meramente quantitativo. Ma la qualità, appunto, è del concetto (seppure come lontano retaggio di quella) non della materia. Ciò può indicare forse la giusta via per ipotizzare l’origine della materia. Parliamo di ipotesi perché per essa è il concetto che propone risposte e che anche qui ne intende definire la provenienza.

E si ripropone la possibilità della molteplicità concettuale in riferimento all’unico oggetto. E d’altra parte definire, cioè inserire nella continuità della relazione, quanto dovrebbe essere all’inizio di essa è pretesa aporetica. Infatti si produrrebbe la singolare situazione di negare proprio ciò che si vorrebbe definire, giacché l’origine è il limite della relazione di discontinuità con la successione originata. Non si può dunque pensare una relazione di continuità con la successione originata. Non si può dunque pensare una relazione di continuità come definizione di una relazione discontinua: l’origine non ha definizione. Né si può pensare che la quantità consistente nel suo persistere, cioè la materia, non abbia avuto origine, rinviando così indefinitamente alle sue spalle la quantità delle relazioni continue. Questa impossibilità le deriva dal confondere la causa con il principio fondativo o, se si vuole, la serie dei processi continui del concetto con la mera presenza di condizioni della materia. Esiste un livello semantico e uno pragmatico, cioè uno fondativo ed uno genetico nel problema della ricerca delle categorie.

L’eternità è un concetto, non è qualcosa di inerente alla materia e, come concetto, rispetto alla materia, ne rivela una qualità non una relazione quantitativa. Porre una ‘materia eterna’ significa far dipendere radicalmente la materia dal concetto per poi rovesciare surrettiziamente quella qualità in una quantità assoluta. Se la materia fosse suscettibile di eternità, o questa è eternità quantitativa (e dunque in ogni caso calcolabile anche se in apparenza il rinvio all’ulteriore detto in precedenza indurrebbe a considerare il contrario) o è qualitativa e allora dovrei supporre la materia come capace di relazioni qualitative, cioè di autosuperamento (per l’appunto relazioni oltre se stessa). La materia sarebbe dunque capace di ogni cosa, assolutamente autosufficiente, perché in grado di porre da se stessa il referente discontinuo nelle sue relazioni di qualità. In essa, insomma, si dovrebbe presupporre una progettualità ab aeterno ed eternamente in compimento: se così fosse, il tempo del compimento come movimento esplicativo di relazioni già presenti eternamente, sarebbe del tutto superfluo, anzi contraddittorio, rinnegando nel mutamento la compiutezza immobile della soluzione. Come pensare che ciò che scompare e si consuma è parte perfetta di quel progetto? Che ne esprima l’essenza più propria? Che ne riveli l’equilibrio dell’adeguatezza? Insomma, come pensare un assoluto mutante nel movimento? La qualità non muta nella continuità (che è sempre quantità) ma nella discontinuità (cioè secondo la natura che le è propria, la qualità).

Di conseguenza l’origine della materia è un mutamento qualitativo della qualità della quantità: essa è il repentino passaggio del quantitativo dal possibile al reale senza che in questo passaggio ci sia continuità (ché ritorneremmo al mutamento–movimento assoluto). In questo ha ragione Niels Bohr, secondo il quale «non si ha evento e non si ha neppure ‘oggetto’ fisico, se non si ha un dislivello energetico (o una interazione); sicché la base prima della fisica non è più un punto isolato o isolabile, ma sempre un rapporto, una coppia, una relazione»[41]. Dunque, nel rapporto con la materia attraverso se stessa, la sensazione, ogni singola e determinata sensazione, non è altro che una singola e determinata modificazione, e perciò una relazione. Mai si troverà la sensazione che fa da inizio assoluto della serie di sensazioni. Solo la qualità compiuta, lo spirito, può realizzare questa ‘catastrofe’ (καθασθροφή), giacché questa è esattamente ciò che lo connota nella sua natura: lo spirito è l’identità che distingue: la sua essenza non è la riconciliazione: questa è la sua fenomenologia.




6. La ragione


Difficile parlare di quanto si considera un’essenza e per di più retoricamente positiva. E ancor più arduo dover fare i conti con un quid che di volta in volta è atteggiamento, strumento, metodo, simbolo, criterio, modello, potenza, assoluto, struttura, valore e spesso sinonimo stesso di spirito, di conoscenza, di valore etico, di fine, se non addirittura di verità. Niente è trattato più confusamente e irrazionalmente della ragione, della quale, per l’appunto, nel momento in cui se ne vuole parlare, si abbandona l’alveo di competenza. Infine, tale confusione di fondo obbliga spesso a definire ulteriormente questa ragione: ragione conoscitiva, pratica, scientifica, politica, ecc. È evidente che in questo caso si pensa alle diverse possibili applicazioni di un’unica metodologia che tuttavia raramente è stata definita.

La ragione è lo spazio, una delle figure del tempo vero. Le regole della ragione sono infatti quelle dello spazio, cioè della successione continua, come quantità definita. Il concetto è lo strumento della definizione e come tale esso realizza la virtualità spaziale. Esso è la condizione di una relazione tra simili, cioè di una continuità di successione dove il permanere (la solidità) è soltanto una condizione del rapporto senza che sia tuttavia in grado di esaurirlo. Ciò che caratterizza fondamentalmente lo spazio, cioè la ragione, è la quantità, il numero, come strumento di omogeneizzazione e dunque di relazione definibile di definiti.

La potenza della ragione, sotto questo aspetto, è grandissima, ma essa è del tutto sterile di fronte alla qualità, cioè alla discontinuità che deriva dal tempo vero, che è competenza dello spirito. Per superare la fissità monolitica del concetto (che Hegel polemicamente vide nella riflessione matematica) il sistema hegeliano ha proposto la condizione dell’Aufhebung come trapasso a uno stadio successivo (pur sempre però assimilabile e dunque assimilato secondo la morta omogeneità) piuttosto che porre l’inquietudine vitale davvero nella relazione con l’alterità. L’alter è invece diventato un momento fugace, strumentalizzato in assimilazione entro lo schema dialettico del Sé come totalità.

Mentre il tempo vero è un rapporto discontinuo tra l’Idea come alterità compiuta e l’ego, lo spazio è sempre mediato da una alterità, da un non–io concettuale, che non lede affatto la continuità della successione, ma anzi la forma fondandola. Sotto questo aspetto lo Spirito è sempre immediato e discontinuo (intensità creativa), mentre la ragione è discorsiva, mediata e definitoria: crea appunto una successione continua, una relazione tra analoghi perché siano identici (incontrovertibilità come sua possibilità estrema). La ragione non ha dunque tempo e non perché sia eterna (linea della qualità), ma perché è universale (linea della quantità). L’aspetto poi della necessità delle sue leggi, nell’àmbito delle discipline che la richiedono, esprime esattamente il nesso quantitativo spaziale della successione continua, la salvezza di questa successione come tale, dunque la sua prevedibilità (possibile soltanto entro una relazione continua). Quando la successione si articola secondo nessi razionali necessari e continui, perfette alchimie concettuali capaci di altrettanto perfette distribuzioni quantitative, parliamo di logica. Essa è la ragione che pensa secondo le sue regole, secondo se stessa, cioè che si pensa[42]. La relazione di continuità diventa l’elemento più importante della successione ovvero la praticabilità della continuità come fondamento della relazione di successione: “la natura di ciò che è, è di essere, nel proprio essere, il proprio concetto”: questa è ciò che definiamo necessità logica. Questa necessità è il razionale, “il ritmo della totalità organica”, l’elemento speculativo.

La logica è la definizione (definibilità) della ragione come organo del definire e successione di definizioni. Sotto questo aspetto essa rappresenta una successione pura, cioè una relazione di concetti che rispetto alla successione è soltanto possibile. La sua possibilità dipende dal fatto che essa qualifica proprio la relazione di continuità, cioè la condizione della successione che è l’insieme delle relazioni continue, cioè le relazioni di continuità con relazioni di continuità.

Ad essa interessa non è la relazione con altro che sia altra relazione, ma la continuità nella relazione con se stessa come ragione, cioè come successione. In questo senso la ragione è sempre logica, si cura cioè del fondamento di continuità della relazione che compone la successione. Il fatto, apparentemente paradossale e forse ritenuto contraddittorio per le tesi fin qui esposte, che cioè la relazione logica potrebbe trovare una realtà relazionata in modo diverso e dunque essere per questo una logica priva di consistenza in quanto priva di conferma reale, è viceversa un fatto che permette di acquisire meglio quanto è stato finora proposto. L’indefinito infatti appartiene al mondo dei concetti, non alle cose che sono invece sempre una quantità definibile. Una logica che non abbia conferma nella successione, esprime nel contempo sia la quantità limitata delle cose, che l’indefinita possibilità del concetto (indefinita ma definibile), sia l’appartenenza di entrambi all’ordine dello spazio: i concetti come strumenti definitori del possibile, le cose come definizioni in atto, realizzate. Anche quando una relazione logica è irreale non abbandona il terreno della logica (a meno che questa non sia stata già abbandonata nella formulazione di una relazione scorretta, cioè non secondo le leggi di continuità della ragione), esattamente come il vuoto non abbandona la linea di successione spaziale. Una logica irreale è uno spazio irreale, cioè il vuoto, una relazione di continuità meramente ideale. Le possibilità di relazioni continue, all’interno della successione, sono chiuse dai due estremi del vuoto (relazione astratta di continuità) e del caos (relazione di continuità meramente reale). Ma entrambi sono individuati in base allo spirito che li scorge come un’unica condizione della precarietà della continuità. Per questa ragione la continuità denuncia, nel suo succedere, la parzialità del suo costituirsi quale presunto esaustivo ambito di soluzione. Essa può esprimere la definibilità come forza del conoscere e come sua condizione, ma non quella della verità che investe la profondità dell’in–tendere. Conoscere la verità significa in–tenderla non de–finirla, giacché ogni definizione rappresenta, nel suo costituirsi come rapporto di dominio, una assimilazione, una proprietà e la verità non può essere assimilata alle condizioni del soggetto. Qualcuno, in questo senso, potrà pregiudizialmente rifiutare un presupposto di questo genere e rinchiudere queste tesi in un conseguente ineluttabile irrazionalismo. Ciò che invece va risposto è che la conoscenza, intesa come scienza, non ha niente a che vedere con la verità. Essa è una qualità che non interessa una relazione quantitativa e dunque, per questa ragione, ne resta radicalmente estranea. Vi sono scienze, scrive polemicamente (e giustamente) Hegel nell’Enciclopedia, che “consistono in una semplice raccolta di conoscenze. L’unità, nella quale le scienze sono messe insieme in tale aggregato, è — poiché esse son considerate estrinsecamente — un’unità estrinseca, un semplice ordinamento”, mera nomenclatura.

Dunque la conoscenza è possibile, anzi, in senso stretto, è l’unica realtà, essendo la consapevole relazione di continuità, cioè la definizione di questa. Ma la verità non dipende dalla quantità del sapere o della stessa metodologia che presume adeguare (sempre sul piano della quantità) l’oggetto all’intelletto ovvero questo a quello. La verità è qualità compiuta, cioè appunto la fondazione della nostra tensione gnoseologica (la traduzione in numero dell’intensione interiore scaturita dalla relazione tra distinti) e non certo oggetto, possibile o reale, di quel tendere. La ragione, sotto questo aspetto, può solo raggiungere la certezza, non la verità. In questo non solo le è possibile, ma le compete più propriamente l’articolazione di una conoscenza certa, cioè la definizione della relazione di più relazioni continue di successione. La verità trascende tutto questo, anzi non è di certo una successione, ché altrimenti avremmo contraddittoriamente una compiutezza precaria.

Ma si potrà chiedere: come è possibile parlare di una cosa che non si conosce, né si potrà conoscere? Come si può porre per certo ciò che sfugge ad ogni definizione? È possibile di nuovo per la relazione originaria come relazione di discontinuità e dunque attimo dell’individuazione. Senza quelle verità che ci trascende non saremmo semplicemente nella ripetizione senza mutamento, compiuti nella nostra precarietà perché inconsapevoli in una compiutezza assoluta, che è per l’appunto la categoria dell’impossibile per l’uomo, l’uomo come non–possibile, il vuoto come possibilità assoluta, non necessariamente realtà umana. Son proprio le diverse figure a farci intendere il tempo vero, l’originaria compiutezza ideale qualitativa della quale noi viviamo soltanto cattive traduzioni, precari assoluti, soluzioni inadeguate, costante inquieto mutamento.

Questo è il senso della pascaliana limitazione della ragione e della conseguente (discutibile) valorizzazione della finesse, che certo è più vicina alla qualità e dunque alla verità di quanto non sia la ragione, ma che tuttavia non eguaglia certo l’esprit in sé e per sé, il suo essere profondità intensiva. Sotto questo aspetto è assai meglio riferirsi allora allo spirito estetico (poetico e musicale soprattutto) come riferimento più conforme al vero, non per ciò che si rappresenta in esso, né per come lo si rappresenta (tutto nel quantitativo), ma per la relazione originaria, cioè la creazione, che raccoglie un universale ancora quantitativo ma ora in virtù della qualità. Anche la creatività artistica esprime una possibilità del tempo vero: ne è dunque una figura. Essa tuttavia non è stata inclusa nelle precedenti figure dell’eterno perché non è autonoma, ma invece ne sintetizza tre delle precedenti: l’attimo, il residuo e il tempo reale come spazio (l’arte, in questo senso, è il fissare l’attimo caduco). L’arte come creazione è dunque uno strumento di conoscenza della qualità e per questo è spesso identificata con una forma d’interpretazione. Sotto questo rispetto anche la scienza è interpretazione: la relazione che essa instaura però è continua, quantitativa, definitoria. L’arte è fissata dal tempo, la scienza dallo spazio; la scienza dell’arte (l’estetica) è dunque la quantificazione della qualità, come la teologia. L’arte della scienza (tecnologia) è la qualificazione della quantità, come la filosofia.




7. La realtà


Anche per render possibile un discorso sulla realtà, è necessario chiarire le confusioni nell’uso del termine. La realtà non è la verità, che appunto di questa intende invece essere la traduzione nella successione quantitativa e nel mutamento (come successione in successione: il mutamento e il movimento, come s’è visto, mantengono la continuità della relazione). La realtà non è neppure la solidità, condizione presente ma non necessaria del suo porsi. La realtà è la definizione come individuazione. Essa dunque non è sempre definibile ma è sempre individuata. In questo, essa riflette la condizione originaria, la relazione discontinua come individuazione. Quest’ultima, nel suo originario costituirsi, ha reso possibile le relazioni di individuazione nella successione che definiamo nel loro insieme ‘realtà’. L’elemento discontinuo che permette l’identificazione del reale non è dunque in esso, ché altrimenti risulterebbe soluzione ciò che appunto è il problema: una relazione tra identici è l’omogeneità indifferenziata. La differenza che permette l’individuazione proviene dalla relazione originaria con la qualità ideale compiuta: essa permette, nella tensione che traduce l’intensità, di scandire il ritmo del riconoscimento. Questo non avviene per richiamo analogico (Platone) ma per la differenza della relazione che ha fondato le seguenti. Il concetto infatti non è il ‘perfetto’ rispetto alla realtà: esso definisce possibilità di successioni, ma resta, anzi fonda, la successione come tale. E questa non è causa sui, ché altrimenti si arresterebbe in origine nel compimento.

Essendo individuazione, la realtà può essere considerata l’insieme delle relazioni, cioè un giudizio sulla successione. Tale giudizio si traduce in una modalità inerente all’individuale, mentre viceversa è la definizione che viene dai sensi. Essi non sono perché c’è la realtà, ma questa è successione reale perché tale per i sensi. L’inganno che strumenti tanto provvisori possono provocare non deve meravigliare come spesso è avvenuto, giacché la realtà non è verità e dunque anche una illusione può (e difatti lo è) essere giudicata reale. La reazione cardiaca e l’angoscia che possono derivare da un fatto che ha destato una paura poi dimostratasi ingiustificata, un fatto dunque solo supposto, non ha certo provocato un’emozione e una risposta fisiologica meno reali, né il fatto è stato sensorialmente percepito in modo diverso da un fatto reale. Il verificare l’illusorietà di quella relazione appartiene al concetto: la realtà di quella relazione si è realizzata ed esaurita nella sua percezione. E sono dunque reali, per chi li percepisce, utopie, progetti, speranze, sogni, scopi (per definizione ‘non ancora’ reali) e quanto rientra nell’insondabile produttività dell’animo umano. La loro illusorietà o meno è del concetto, della sua capacità di successione (anche questa però potenzialmente illusoria!). La successione astratta, che è dunque propria del concetto, giudica in quanto non è vincolata al reale: essa pone il possibile e dunque il giudizio, cioè la relazione tra la successione possibile e quella reale. In questo senso può fornire il limite della definizione alla successione reale ponendo accanto all’individuazione la relazione al possibile come giudizio di conformità.

Questo è una analogia quantitativa che tende ad eliminare la distanza tra le due successioni: esso costituisce il principio stesso della conoscenza, come traduzione della linea di continuità della successione individuata (realtà) nella linea di continuità della successione definitoria (concetto). Dalla definibilità come discriminante che permette la relazione che individua e distingue si passa in tal modo alla definizione della relazione che unifica le distinzioni in una successione continua, la conoscenza. Essa è l’acquisizione delle relazioni individuate entro una continuità definitoria che traduce nella successione le loro costanti: la nostra conoscenza è dunque, com’è noto, l’assimilazione della quantità reale in una successione possibile fornita da relazioni concettuali, l’inserimento cioè del percepito (in senso lato) all’interno della relazione analogica ideale, dove la continuità concettuale è presupposta alla realtà, non dipendendo da questa.

L’esperienza non è semplicemente la relazione con la quantità individuata (la realtà): è una relazione che il concetto produce come successione di definizioni possibili e che stabilisce una nuova possibilità: che l’individuazione entri in quella continuità definitoria.

L’esperienza non è di conseguenza il magico serbatoio delle nostre conoscenze, ma lo strumento per violentare l’individuato e assimilarlo ad una relazione di possibili già presente: un’esperienza non si capisce e non si fa per secoli (nonostante sia sotto gli occhi di tutti) sono a che la successione la renderà possibile. La realtà è ciò che noi vogliamo sia: le individuazioni infatti entrano in relazione di successione secondo l’ordine dei concetti, non secondo quello della realtà, ché se così fosse non avremmo conoscenza, ma, come ogni organismo, saremmo ogni volta ciò che la successione di realtà accidentalmente pone. Quest’ultima possibilità, di fatto, fu rincorsa dal ‘pensiero’ di Telesio, più vicino al modello dell’omogeneità istintiva, che all’alternativa di successione concettuale.

La sua ‘non filosofia’ fu proprio quella di spingere il pensiero alla successione dell’individuazione, annullando il possibile (cioè la relazione concettuale): esattamente come qualsiasi animale fa perfettamente già da millenni. Erano ben oltre le intelligenze pre–socratiche, già volte, se non altro, proprio a quella trascrizione nell’ordine dell’unità della successione concettuale della multi forme quantità individuata.



Capitolo I


Essenza e Fenomenologia del Fondamento



Premessa


Il nulla non è l’inizio, ché dal nulla non si esce, poiché in esso è nulla e non è possibile che vi sia anche soltanto una virtualità che vanificherebbe allora la nullità del nulla. Esso non è l’inizio, né il fondamento, giacché non fonda nulla, neanche se stesso, cioè il suo essere nulla è spiegabile dal nulla. Il nulla non è e come tale non può essere in alcun modo entificato. Tuttavia questo non essere, siamo in grado di individuarlo. di riconoscerlo, di problematizzarlo. Il nulla infatti, di per sé, non permetterebbe alcun rapporto perché non esiste una relazione con nulla. Una relazione con nulla, annullerebbe la relazione come tale: essa sarebbe semplicemente l’ente uno in sé posto. Sotto questo aspetto una possibile relazione con nulla, renderebbe possibile ogni relazione, nel senso che semplicemente ogni cosa si porrebbe e nel porsi sarebbe ciò che è.

Dunque le cose non sono in relazione al nulla, cioè non si pongono da se stesse. L’inizio è la relazione in quanto noi individuiamo, identifichiamo cioè i nessi, i problemi, le realtà, le definizioni, il proprio, l’altrui, il possibile. In altre parole noi riconosciamo il limite. Il limite è una relazione; il riconoscimento è un’altra relazione. Limite e riconoscimento non possono essere l’inizio fondante giacché, nel loro costituirsi come relazione, ciascuno per così dire, sfugge dalla sua sede, reca in sé la presenza del cor–relato, si pro–pone non per virtù propria: ciascuno si definisce oltre la propria definizione, nel superamento della propria unilateralità.

Questa unilateralità non può fondarci: una fondazione di questo genere esaurirebbe immediatamente già all’origine ogni possibile, costituendosi come un unico compiuto fin dall’inizio, con il solo fine di esplicare in una successione continua (dove la quantità crescente è crescente sua espressione) quanto è già presso di sé. Ritrovarsi alla fine del processo è nient’altro che aver percorso consapevolmente il proprio ciclo vitale, identificandolo con la sola totalità possibile. Dopo aver accusato di cattiva infinità ogni relazione con la discontinuità, cioè con l’infinito qualitativo e aver pietosamente compatito quelle anime che anelano senza approdo, si è tradotto l’infinito in una successione continua e se ne è fatto un numero (de–)finito di compiute relazioni: la totalità è l’infinito come quantità: la successione chiusa delle possibili successioni. Sotto questo aspetto Hegel ha svolto esemplarmente una conoscenza dello spazio, la definizione cioè del definibile (Wirklichkeit). È certo per la conoscenza che un infinito qualitativo è ‘cattivo’ perché frustrante rinvio all’ulteriore, indefinibilità costante. Il genio possente di Hegel ha esaurito il versante del concetto, come tensione definitoria, ma l’anarchia in cui ha lasciato l’intensione della relazione di discontinuità, ha aperto la strada e persino giustificato il tragico solipsismo irrazionalistico. Su esso cala oggi, quale suo esito fatale e conseguente, il frammentarismo soggettivistico, l’equivalenza relativistica e nichilista. È possibile allora ordinare la qualità, indicandola, nella successione continua, come la relazione fondante? Darle una collocazione sostanziale nella successione? Mantenere intatta la relazione intersoggettiva, discontinua, senza ridurla a quantità? In altre parole: è davvero aporetico riflettere sul fondamento che ha poi permesso la fondazione di una dottrina della scienza? Può certamente essere un’analisi che giunge soltanto a pensieri, ma anch’essi possono tuttavia essere considerati come “determinazioni note, salde e ferme”. La quantità chiusa (anche se costantemente virtualmente aperta, mancando la verifica dell’avvenuta presunta ‘chiusura’) della conoscenza ha il suo fondamento nella relazione. La ‘meraviglia’ e lo ‘stupore’ che i maestri del pensiero classico adducevano a motivazione psicologico–ontologica della tensione conoscitiva, devono essere tematizzati per diventare problema e nel rivelarsi tali, essi riveleranno non la radice psicologica del conoscere (che è come dire, descrivere la successione nella successione), ma piuttosto un argomentare dello spirito, capace di riprodurre nel microcosmo di quella originaria relazione fondativa, il macrocosmo di ogni altra possibile relazione fondativa, il macrocosmo di ogni altra possibile relazione. L’essenza del fondamento è la relazione che permette l’identificazione del limite, cioè l’individuazione. Questo è l’inizio solo per il versante della relazione quantitativa che presiede ad ogni successione gnoseologica, cioè ad ogni relazione di continuità. Ma sotto l’altro aspetto, esso è già il prodotto di una relazione che certamente non può essere con il proprio, né con l’identico: questi infatti non danno relazione (e in questo caso, dunque, neanche fondazione) perché, di fatto, sono mera vuota verbalità che pretende di giustificare l’autofondazione. La relazione, per essere tale, e dunque indurre a riconoscere il limite, deve realizzarsi con il diverso, l’eccedente rispetto al limite. L’eccedente non può essere definito, ma esso, per noi che ne subiamo la dipendenza qualitativa, si rivela nel rivelarci il limite, il fin–qui e l’altro come i termini quantitativi dell’avvenuta individuazione. Mi si dirà: il limite dell’identità limitata non si pone nel contempo a danno dell’eccedenza che si trova, anch’essa, il suo limite? Limitandoci, per converso, non si limita anch’essa? Tale rovesciamento è possibile solo in modo improprio: dovremmo considerare l’eccedenza come semplice quantità e solo in tal caso avrebbe senso un limitare, nel contempo autolimite. Ma in ordine ad una relazione discontinua, è assai singolare pensare un’eventualità di questo genere. È come se si ritenesse una fonte di luce posta in alto, limitata da un corpo che gli si frappone e che sembra spezzarne la continuità illuminante: di fatto il corpo, per così dire, si conosce per quel che è soltanto quando sotto l’illuminazione si scopre per quel che è la luce non perde alcunché di sé, né riduce la quantità della sua intensità perché svolge la sua potenza in una successione definita. Da quel che essa è, niente si perde. Per chi invece rappresenta, nell’esemplificazione, il corpo, il rapporto risulta necessariamente parziale e nel contempo fondativo. Anzi, per essere precisi, è fondativo proprio perché avvertito come parziale: qui ha radice, accanto alla consapevolezza del limite, la tensione ad una successione di indefinite relazioni di continuità. L’eccedenza è ideale, cioè qualitativamente radicata in sé, e non può entrare in un ordine concettuale, cioè in una successione continua di quantità definite: ciò spiega la costante tensione all’ulteriore che è la storia e nello stesso tempo l’interna contraddizione che essa presenta di assolutizzare (implicitamente o esplicitamente) ogni volta il parziale.



Dialettica del fondamento


L’idea alternativa all’assimilazione all’identico e al costante, propria delle metodologie quantitative, è la dialettica, cioè il rapporto nella diversità, la relazione discontinua. Hegel e poi Marx ne hanno voluto fare oggetto di una metodologia quantitativa, inserendola in una successione continua e vanificandone, per questo, l’intrinseca valenza. L’illusione, peraltro geniale, di Feuerbach e Marx, di rovesciare la filosofia stessa nella forza trasformatrice dell’azione si è rivelata tuttavia indicativa: la prassi è solo un modo d’essere del pensiero e non la sua alternativa. Ma lo spirito è intrinsecamente, essenzialmente, strutturalmente dialettico. Unilaterale è solo la quantità (concettuale) della ragione e della realtà. Per questo la libertà è dello spirito, non della ragione, né della realtà, sottoposte la prima a se stessa (libertà come necessità) e la seconda alla prima (dipendenza come necessità), e, in questo, capaci di una relazione continua di successioni nella successione. Il fondamento, di conseguenza, sotto questo aspetto non è altro che dialettica, rapporto di discontinuità, o, se accettiamo una terminologia in linea con quanto detto, relazione, rapporto semplicemente, giacché esso è solo tra diversi.




Ego come individuazione

realtà

nella relazione con l’Idea

concetto

spirito

La dialettica del fondamento è dunque scoprirsi come inizio della successione nell’attimo dell’individuazione di sé come sé e non altro, che è l’idea e che, eccedendo il sé, si rivela rivelandolo a se stesso. La virtualità del riconoscimento è l’analogia, nello spirito, con l’Idea che è attiva nel fondare, ma che, per quanto concerne il mondo degli uomini, è la causa del riconoscimento come fondamento. Questo è l’azione dell’individuare, come tensione in rapporto di chiarificazione del proprio limite, riconosciutosi solo per una qualità che lo trascende e lo connota come identità discriminante. Essa sorge per l’Altro e si svolge perciò all’altro come derivazione del suo esser posto quale inizio della successione. La meraviglia come inizio, è lo squilibrio riconosciuto, e volto, per una sua soluzione, alla categoria dell’alterità, la stessa che lo ha posto. Ma l’alterità cui tende l’azione individuante è ormai già qualcosa di suo, un suo inarrestabile prodursi al di fuori di sé, dove essa sa, risiede la sua possibile ricomposta stabilità. Questa serie di possibili successioni non potranno che svilupparsi ed esprimersi nella successione, cioè nel regno del limite: continuità, definizione e definibilità, necessità, coerenza, conoscenza, giacché il perfetto e compiuto non conosce, sa. Questo intelletto–tabella, infatti, non fa che dare la semplice indicazione del contenuto, “ma il contenuto stesso non lo fornisce”. Ogni determinazione è vista come “qualcosa di morto”, una determinazione che viene semplicemente predicata per quel soggetto.

Lo spirito sa senza conoscere e può sapere anche senza poter conoscere, sapendo persino ciò che non conosce. La logica è lo spirito definito, che dunque definisce per esprimersi nella successione: essa, cioè, è strumento dell’organo del definire, la ragione, e come orizzonte di riferimento della successione di definizioni. Ma qui lo spirito è solo rappresentato, entra cioè in figure diverse: non è più quel che è. Per questo potremmo qui identificare spirito e fondamento: entrambi sono l’unità qualitativa del rapporto di individuazione del quale l’identità dell’ego come limite in tensione figura come prima definizione. La seconda è l’alterità, riconosciuta come la categoria della causa del fondamento: essa viene rincorsa e rappresenta l’intrinseca costante apertura del limite all’ulteriore. La dialettica del fondamento (il rapporto fondante come discontinuità rivelatrice) si esprime così nella dialettica del concetto, illusorio ripristino di una relazione che non appartiene alla successione e alla rappresentazione: se il fondamento si fosse costituito in una unilateralità ovvero in una relazione con l’identico, cioè in un rapporto di continuità, il movimento e il mutamento storico non sarebbero stati possibili: la successione che ne sarebbe derivata sarebbe stata l’esplicazione di un implicito compiuto in sé che si sarebbe svolto in una necessità non problematica, un mero factum organico, come è del resto possibile ravvisare nel resto della realtà che ci circonda.

La necessità di interpretare il reale, denuncia il passaggio di trascrizione tra il codice qualitativo dello spirito e quello di una realtà che nella propria condizione, è potenzialmente definibile, ma appunto solo nella definibilità in quanto successione continua, quantità individuata. Sotto questo aspetto è possibile parlare di una (anche se spesso presunta) capacità evolutiva della conoscenza, cioè di una produzione concettuale che sia in grado di tradurre in modo sempre più opportuno la definibilità del reale. Se il fondamento non fosse stato dialettico, la conoscenza sarebbe stata fin dall’inizio perfettamente adeguata al suo oggetto, lasciando al mutamento le scorie accidentali, che non sarebbero state prese in considerazione perché non riconosciute mutevoli: di volta in volta, ogni volta che vi si fossero espresse, avrebbero semplicemente costituito il fatto. Qui è il motivo per il quale non è possibile parlare, in filosofia, di evoluzione: possono essere mutate le forme espressive, non il riconoscimento del problema come tale e, quand’anche ciò fosse accaduto, ha costituito e costituisce elemento trascurabile in una storia della filosofia. Questa, mettendo in gioco lo spirito (e soltanto in un secondo momento la ragione) è sfuggita, per così dire, all’effimero, condannata a questo soltanto in quei casi dove appunto in essa la ragione ha preso il sopravvento sullo spirito: accettata la successione come sua linea espressiva, quella filosofia vi è poi inevitabilmente rimasta condannata come suo momento passeggero. Nell’ambito delle scienze è possibile affermare un numero maggiore di conoscenze o, che è lo stesso, un minor numero di assiomi fondanti (la complementarietà qualitativa dell’accresciuta quantità). Ma ciò è del tutto impensabile in filosofia, almeno per quello che concerne il suo rapporto con lo spirito.

Il riduzionismo facilita la risposta riducendo a termini unilaterali una realtà multiforme. Il suo errore è che esso trascura i nessi categoriali, ciò che si produce in modo complesso da quei presupposti. La teoria più progredita non è quella che supera e comprende quella precedente, ma quella che riduce i propri assiomi generali.

Il fatto è che non servono soltanto gli assiomi: è necessario porre la regola che li regola e questo è l’invalicabile che già Fichte aveva compreso.

I concetti ritenuti indefiniti, possono però essere definiti dal contesto degli assiomi entro i quali sono inseriti. La diminuzione degli assiomi diminuirebbe la fatticità empirica, permettendo la deduzione di tutto da poco. Ciò non significa avallare la logica formale, ma, fichteanamente, l’unità di forma e contenuto del fondamento come base dell’inizio di ogni deduzione. La logica non fonda i suoi assiomi, non è scienza autofondante. Hegel integrò logica e metafisica a Jena, unendo dunque forma e contenuto. Sulla linea della successione concettuale anche la filosofia ha la sua evoluzione, ma ciò non la connota nella sua essenza.

Idea, individuazione, relazione e limite sono il tempo, l’attimo dell’intensione.

Concetto, autocoscienza, successione e Idea sono lo spazio, durata della tensione.

La prima linea di relazioni è qualitativa e si compie nello spazio. La seconda linea di relazioni è quantitativa e non può compiersi nel tempo, soltanto riproducendo nella successione il ritorno impossibile all’Idea fondante. Ciò che è riuscito all’Idea, non riesce al concetto che definisce senza esaurire, che ordina senza compiere.

Il fondamento è dialettico perché il tempo è dialettico. Esso per noi si esplica in una successione continua solo per la prospettiva spaziale (concettuale) entro la quale lo avviciniamo. In realtà esso è discontinuità, relazione di squilibrio e di in–tensione.



Dialetticità della coscienza


Avendo posto la vera dialettica nella relazione fondante, preferisco chiamare la condizione della coscienza ‘dialetticità’, piuttosto che dialettica. La coscienza è la conseguenza dell’individuazione che viene dall’originaria relazione e costituisce l’avvio delle molteplici successive relazioni di continuità. La sua dialetticità è il suo esser costituito in quanto limite: questa definizione che è la coscienza infatti resta aperta proprio perché il limite non è situazione unilaterale, ma rapporto e dunque, come tale, rinvia, implicitamente alla dialettica del fondamento. Ma per noi che ora intendiamo qui valutare la coscienza nella sua definibilità, cioè all’interno della successione, come inizio della successione, non può suscitare interesse ciò che la coscienza non sarà mai (il suo fondamento) ma ciò che invece è e il modo in cui si esprime. In questo si evidenzia quanto ho chiamato dialetticità. Il limite è una definizione impossibile, o meglio è l’ipostasi della precarietà del definire. Qui va inserito il sistema hegeliano inerente alla coscienza scissa e al suo tendere verso quella parte di sé che deve tornare ad appartenerle.

Del resto tutto quanto si doveva dire sul piano della relazione qualitativa riguardo la coscienza, si è già detto nel paragrafo sulla ‘coscienza infelice’. Il resto è Hegel.

Uso Hegel contra Hegel: la confutazione consiste proprio nell’indicare la deficienza di un principio, cioè nel sottolineare la mera generalità, la sua semplice astratta funzione di principio, di cominciamento. Ma se la confutazione è esauriente, essa lo è proprio perché tratta e sviluppa da quel principio stesso, non già perché dal di fuori messa in opera mediante opposte gratuite asserzioni[43].

Così “la confutazione sarebbe propriamente lo sviluppo del principio e quindi il complemento di ciò che gli manca”. Tutto sta dunque nel non opporglielo nell’inconsapevolezza, come “proprio operare negativo”, ma facendolo divenire oggetto di consapevolezza, come cioè elemento costitutivo “del proprio processo e del proprio risultato”, anche secondo il significato positivo. Sotto questo riguardo l’unilaterale astratto del principio, non è superato dall’unilaterale della successione come serie di rapporti omogenei, giacché la differenza, davvero tale, è la relazione discreta dell’origine, che dunque, per questo non è, come vuole Hegel, indeterminata.

Essenza della coscienza


La coscienza non si sa, poiché in tal caso chiamerei in modo più adeguato la stessa autocoscienza. Essa è sempre per l’altro e per l’io, solo come deduzione necessaria dall’auto–coscienza, e primo momento, oggettivato dall’auto–coscienza, della successione che connota l’identità personale. Essa quando si presenta quale soggetto è inconsapevole, come soggettività invece dedotta dal suo esser oggettivato dall’auto–coscienza dall’auto–coscienza, è semplicemente un momento necessario, posto astrattamente come soggetto. Ma se è l’auto–coscienza che pone la necessità della coscienza, quella può esserci solo per questa: tale reciprocità complementare l’ho già definita dialetticità. L’essenza della coscienza è la dipendenza: il suo definirsi non è autodefinirsi e il suo riconoscersi esprime il suo prodursi da una relazione fondante. Essa è nell’atto stesso di dipendere. La figura che delinea lo stato della coscienza è certamente quella della relazione di figliolanza: autonoma e dipendente. In questa prospettiva la sua tensione è alla figura paterna che essa sa aver costituito la sua fondazione. L’esser figlio essendo nel contempo padre è l’autocoscienza[44]. Ma questa paternità non è la stessa che ha fondato la prima individuazione: lì il padre era solo tale, senza aver nel contempo alcun ruolo di figlio.

Ciò che noi deduciamo con l’autocoscienza, sul processo di relazione originaria di individuazione come fondazione, è una sorta di feedback, un retrovalutare a partire dalla successione delle relazioni di continuità entro la quale l’autocoscienza ipotizza il suo al di qua.

L’errore di Fichte, se così può essere definito, sotto questo aspetto è stato quello di riprodurre l’intensità qualitativa indefinibile che ha fondato la coscienza in una successione quantitativa indefinita che tuttavia restava contraddittoria in origine: lo spostamento infatti dalla relazione distinta a quella continua, rende possibile, nella mutazione di codice, la conclusione definitoria della successione continua, che può restare inconclusa in fieri, non come condizione valutata nella sua totalità e nel suo significato di totalità. Dunque era possibile (come con Hegel è stato possibile), proporre la successione ideale entro la quale la totalità è tale, anche se deve ancora esprimersi quantitativamente in questa sua totalità, ed era possibile giacché nella successione di continuità la definibilità è l’essenza. È certo ‘cattivo infinito’ quello fichteano, poiché si volge alla relazione sbagliata: esso può avere senso come denuncia del fondamento non come sua esplicazione.

Della relazione dunque che ha fondato la coscienza non è possibile una definizione, ma la sua illuminazione attraverso quegli elementi che la figurano e che esprimono propriamente la dimensione del tempo, l’intensione della qualità come discontinuità, quella che ha definito la coscienza e che ne ha connotato il suo limite come dialetticità (cioè, sotto questo aspetto, come precarietà). Quando ho definito la coscienza come dipendenza, intendevo quello che ora appare chiaro: è solo l’autocoscienza che libera concettualmente la coscienza dalla dipendenza, vanificandone l’aspetto di estraneità (l’appartenere all’alter) e introducendo la continuità definitoria, che articola la successione. Ma questo non significa che questa dipendenza non ci sia come condizione fondante. Essa non pregiudica l’autonomia della successione, che anzi trova in quella discontinuità originaria, la sua originalità, il suo essere questo e non altro. La condizione del poter essere, che è la condizione della libertà, può giustificarsi soltanto qui: la relazione originaria discontinua apre l’ego al possibile proprio in quanto lo connota come limite. Questo infatti nel suo rapporto costitutivo, si individua in virtù di un’eccedenza che è rivelativa dell’infinito possibile (tale questo solo per la precarietà del proprio cogliersi limite) rispetto alla limitazione definitoria. L’essenza della coscienza come dipendenza, dunque, è il cogliersi per ciò che essa è in virtù dell’altro, altro che non è quello che per la coscienza vede l’autocoscienza mediante il concetto (un non–io che è l’io scisso, e dunque una coscienza che deve semplicemente riprendersi il proprio), ma il non–io per il quale la coscienza è e si è individuata, è nata cioè come limite, così come poi dichiarato dall’autocoscienza. Il fondamento non è la consapevolezza, che è invece già soluzione di una tensione. È anzi proprio la realtà della consapevolezza come autocoscienza che pone il quesito del fondamento del proprio esserci.

L’essenza della coscienza è il tempo per quella relazione d’individuazione scaturita in origine; è, viceversa, l’inizio della successione spaziale per quanto le è assegnato dall’autocoscienza che la pone in abstracto quale suo primo momento. La sua bivalenza è la sua dialetticità; è il limite come relazione (in questo caso duplice: temporale con l’Idea, spaziale con l’autocoscienza). Essa dunque vive originariamente la dimensione dello spirito tramite il quale si individua, per poi definire attraverso la ragione (i concetti) la successione entro la quale definirsi.

Lo spazio della successione e il tempo dell’Idea trovano il loro punto di contatto nella coscienza, definibile sul versante della successione, qualitativamente sfuggente in quello della relazione discontinua originaria. Il primo versante è quello della comunicazione, l’altro della libertà creativa: i due livelli possono interagire perché li accumuna l’unità della coscienza. Il linguaggio umano, sotto questo aspetto, non è semplicemente riproduttivo perché scaturisce dalla interazione dei due livelli: si pensi per tutti al simbolo. Così come, sia detto in termini esemplificativi, il giudizio di Croce sul valore dell’arte al di qua di ogni risoluzione tecnica, confondeva la libertà di creazione con l’arte che invece deve saper e poter comunicare, giacché sorgendo nella successione, cioè nella definibilità, essa deve definire il suo contenuto, deve cioè (perché non può far altro) inserirsi in relazione di continuità nella continuità della successione. In fondo il giudizio crociano non fa altro che confermare il rilievo hegeliano sull’arte romantica che nel suo tendere lirico arriva ad un tale soggettivismo da sfociare nel solipsismo e decretare di conseguenza la ‘morte dell’arte’. L’al di qua crociano, quale versante della vera opera d’arte, radicalizza cioè la superiorità del vettore soggettivo su quello oggettivo: è una sorta di ‘cattivo infinito’ applicato al campo estetico, dove, indebitamente, si intende l’estensione qualitativa in termini di intensione qualitativa. Questa, certamente, non può essere definita, ma il fatto è che esso non rappresenta l’opera d’arte, ma soltanto la condizione temporale della relazione discontinua originaria che appartiene anche ad altre figure della successione, del tutto estranee al valore artistico.

Unità della coscienza


L’unità è un giudizio, una relazione possibile con il reale e il possibile. Essa è la condizione della coscienza dopo che è stato espresso il giudizio da parte dell’autocoscienza. L’unità è la definizione dei frammenti nella relazione che si individua: l’altro è un frammento che si rivela estraneo, costringendo dunque alla definizione del proprio (l’insieme definito dei frammenti). Questo insieme definito, non è l’essenza, che invece si rivela come consapevolezza unitaria: il tutto, anche qui, non è la somma delle parti. Il raccogliersi presso sé che definisce, è l’atto di difesa del proprio, nato dal riconoscimento della relazione con l’altro. L’unità, dunque, è la condizione passiva della definizione, un giudizio che si subisce in quanto definiti. Esso sorge da chi (l’Idea) ha il potere nel suo sovrastare, di definire il limite, che non rappresenta, per converso, per l’Idea anche il proprio limite, ma la propria forza di rivelazione: rivelare il limite e porlo nella condizione definitoria è il nostro modo di vedere la rivelazione dell’Idea, che in tanto si rivela in quanto, per l’appunto, eccede il limite (e non già dunque in quanto ne resti reciprocamente limitato). Il suo definirsi è nel definire: qui è la sua potenza sovrastante: di per sé niente lo definisce.

L’unità non è una proprietà attiva dell’ente come coscienza, ma una condizione subita attraverso la conoscenza: è il connotato che gli deriva all’interno della successione: è l’autocoscienza che giudica unitaria la coscienza come inizio del suo processo di mediazioni. L’autocoscienza riflette sulla coscienza la sua già acquisita consapevolezza, il suo sapersi limite, non già semplicemente il suo esser limite. Questo è infatti anche degli animali che sono ciò che possono fare e ciò che loro non compete: cioè sono il loro limite. Ma essi non pongono (perché non sono stati posti da) una relazione discontinua, non raggiungono la consapevolezza del limite che deriverebbe loro dal rapporto con un’eccedenza tuttavia analoga nello spirito. Dunque non si può parlare di unità di coscienza (cioè di coscienza) per gli altri organismi, giacché ad essi manca il giudizio consapevole della loro autocoscienza: essi sono ogni volta il perfetto frammento che il frammento reale richiede loro in una immediatezza necessaria e conforme. La perfetta adeguazione alla natura è loro possibile perché ad essi manca la relazione con il possibile, cioè la conseguenza della relazione discontinua originaria con l’Idea.

Unità della coscienza dunque, significa esser pervenuti alla propria conoscenza nell’autocoscienza e porsi a ritroso come limite aperto alla relazione.

È quest’ultimo aspetto che permette, nella realizzazione autocoscienziale, il giudizio di unità da parte di questa sulla coscienza come causa indotta e postulata da ciò che ne realizza l’essenza (cioè l’autocoscienza). È la discendenza dell’autocoscienza che si sa, che realizza nel giudizio retroattivo l’unità coscienziale, che in sé non rappresenta l’inizio, essendo già il risultato di una relazione, quella discontinua originaria. La coscienza è l’inizio per l’autocoscienza (anzi, si può dire anche il suo fondamento), ma non rappresenta di per sé l’origine di tutte le possibili successioni. Infatti, la successione non si presenta come automatica relazione secondo le leggi della necessità (cioè identiche a quelle di ogni altra relazione di successione in natura), ma secondo la categoria del problema: la successione infatti, cioè la relazione definitoria continua, si presenta solo quale conseguenza di un problema risolto, non dato in questi termini. La problematicità della successione può giustificarsi soltanto se l’artefice di essa (l’autocoscienza) e l’inizio di essa (la coscienza) fossero altrettanto problematici.

L’autocoscienza lo è per definizione: essa non si presenta come tale ma si conquista in relazione con il reale (coscienza) e il possibile (l’altro). Essa non è tout court, ma si raggiunge, perviene a realizzarsi.

La coscienza, apparentemente, non manifestando nulla al di qua del proprio costituito, sembrerebbe l’atto immediato iniziale dello spirito umano: in questa figura iniziale, la coscienza non ha espansione, né ulteriore specificazione di contenuto e le manca anche “quel raffinamento formale, in virtù del quale le differenze vengono con sicurezza determinate e ordinate nelle loro salde relazioni”. Ma essa è essenzialmente problema, cioè relazione discontinua. Se così non fosse non le sarebbe stato possibile l’individuazione che l’ha contrapposta all’eccedenza dell’Idea (dalla quale è fondata) e l’ha di conseguenza spinta a raccogliersi come unità, cioè come limitazione–distinzione.

Unità della coscienza allora non significa altro che la coscienza tout court, cioè il suo costituirsi come entità dello spirito, definita e individuata, cioè relazionata (con il fondamento che l’ha posta) e relazionabile (come inizio della successione di relazioni continue). Sotto questo aspetto pare chiaro come questa unità non sia una condizione statica dell’ente, ma un mantenimento costantemente in atto, dove la definizione svolge un ruolo di difesa del proprio, dialetticamente però aperta alla contrapposizione (cioè al valore dinamico della distinzione).



Unicità della coscienza


La figura della unicità della coscienza è di fatto la condizione alla quale si è giunti nell’ultima connotazione dell’unità coscienziale come difesa dinamica.

L’unicità, infatti, è la condizione dinamica della definizione, la volontà di radicare nella qualità il limite quantitativo (l’unità). Questa volontà si rivela infelice, esattamente come condizione complementare della coscienza infelice. È infatti una volontà che nel dichiararsi in quanto coscienza, unica, rovescia il valore del limite in assoluto. La consapevolezza di questa unicità ha rappresentato il concetto di totalità in Hegel, dove ciascuno (come unico) è il tutto nell’autocoscienza di ciascuno. Ma ciascuno è unico, cioè, non lo è. Tuttavia l’unicità resta la radicale denuncia dell’avvenuta individuazione: essa perciò è la condizione della specie, non dell’individuo. Dunque la coscienza come espressione dell’avvenuta relazione di individuazione è unica come coscienza dell’uomo, universale condizione dello spirito, non certo come coscienza di questo o quello. Sotto questo aspetto la coscienza reca in sé l’illusione di essere unica nella sua propria individuazione (Stirner), perché unica è l’Idea che l’ha fondata: di essa, la coscienza s’è nutrita per sorgere e anzi è stata proprio quella qualità compiuta (è appunto questa la definizione di ‘unicità’) a porre la relazione fondante. Dunque l’unicità è il retaggio di quell’Idea, eredità che appartiene a tutti gli uomini, ma non a ciascuno. L’unicità infatti sottolinea il valore di distinzione dell’uomo sul resto: ciò spiega la conoscenza come problematicità (gli oggetti debbono essere assimilati al codice gnoseologico in quanto in origine del tutto estranei) e la valenza della nostra diversità rispetto alla natura. Una pianta è diversa dall’animale, ma la sua diversità non ha nulla a che vedere con la diversità dell’uomo rispetto al resto. Animali o piante, ad esempio, nella loro diversità, confermano le leggi di successione, mentre la diversità dell’uomo sta nel trovare problematica proprio quella naturale successione. Questa volontà infelice che intende affermare il proprio come l’unico, rappresenta emblematicamente la ragione e la causa della storia. Essa, cioè, rappresenta, nello scarto infinito tra le molteplici relazioni di continuità e il sottinteso anelito di compiutezza (dunque di unicità), il medesimo scarto della relazione originaria, dove però la produzione è rovesciata (è l’Idea che fonda la coscienza) e, di conseguenza, non esiste la successione ma l’individuazione come rapporto discontinuo. La coscienza non può essere da sé causa dello squilibrio fondante: come detto, il rapporto con l’altro inteso come una parte di sé infelicemente ed erroneamente scissa, non avrebbe fondato l’infinità quantitativa delle soluzioni, ma la semplice attesa di una riunificazione necessaria, consequenziale: ciò che mi appartiene ed è scisso impone una sola unica strada risolutrice, giacché lo ‘squilibrio’ è soltanto una divisione tra omogenei, tra termini equivalenti, finiti, definiti, limitati. Insomma mi è già potenziale la risposta e, in senso stretto, ciò indica che la domanda, intesa come problema, tale non era, giacché omogenea al sistema, non altro da essa: è semplicemente un atto di ‘impazienza ontologica’, tematizzato. Come se un bambino vedesse la figura della maturità, a lui prossima ma ora scissa e lontana, e tendesse a saldarla con la sua coscienza di bambino in una relazione ideale che di fatto lo fa crescere ante litteram, compiendo in abstracto quanto egli avrebbe necessariamente (anche se non necessariamente consapevole) vissuto in praxi. La relazione infatti tra elementi di egual valore e anzi qui addirittura medesimi (il sé e l’altro da sé come un sé scisso) non è, in senso stretto, una relazione: sono semplici momenti di un mutamento, cioè di una definizione definibile provvisoriamente da definire. Si è dunque annacquato all’inizio il vino per impedire che qualcuno poi, in ebbrezza, dicesse il vero. La persuasione e l’intimo convincimento della verità qui deriva dall’“approdare a una zona di calma a lei già nota”. Scriveva Wittgenstein, che bene aveva compreso ogni meccanismo riduttivo conoscitivo della scienza, da Galileo in poi e di conseguenza anche i suoi ovvii trionfi gnoseologici: “Si può descrivere completamente il mondo mediante proposizioni perfettamente generalizzate […]” (5.526). Così ad esempio “la meccanica determina una forma di descrizione del mondo dicendo: Tutte le proposizioni della descrizione del mondo devono ottenersi da un certo numero di proposizioni date — gli assiomi della meccanica — in un modo dato. Così essa fornisce le pietre per la costruzione dell’edificio della scienza e dice: Qualunque edificio voglia tu innalzare, lo devi comunque costruire con queste pietre e con queste soltanto” (6.341). Conseguentemente, come ha scritto altrove, è sufficiente ridurre all’inizio il problema ad uno schema categoriale già noto e la cui articolazione è padroneggiata, per risolvere poi alla fine quel problema, che, come si vede, essendo stato ridotto e manipolato simbolicamente, può aver perduto tutta la sua carica integrale di problematicità.

Una coordinata dunque che possa segnare il tema dell’unicità della coscienza è quella di osservare tale unicità, in origine, come condizione generale della specie umana, come fine essa diventa invece pretesa individuale al compianto, giacché ognuno è nato per quella qualità compiuta, per quell’unico che è l’Idea. La volontà infelice, dunque, sotto questo aspetto, è la volontà di ri–individuarsi, di ri–nascere: ciascuno tende ad uscire dalla unicità della specie per affermare la propria: il principium individuationis si ripresenta, ora però nella successione, cioè all’interno di relazioni continue, cioè come una mera differenza quantitativa.

Le logiche del consumo, del profitto, dell’arrivismo, della stessa mercificazione (riduzione di tutto a quantità di denaro) sono le naturali grossolane conseguenze nate dall’oblio della qualità, della differenza, del limite: insomma del fondamento. Sono gli epigoni ormai dequalificati di una tensione nata per approdare a ben altri lidi, non certo ad una unicità quantitativamente emergente. Tale unicità, come peculiarità generale, invece di sollecitare la solidarietà come forza di coesione nella successione, viene spesso dimenticata a favore di un valore privato che, se fosse la riflessione sul fondamento, recupererebbe le proprie radici significative e con queste anche quelle altrui, ma che, invece, si rivela come sterile antagonismo quantitativo, piena accettazione delle regole quantitative (e dunque dimenticanza della qualità) che vengono sostituite, senza nostalgie, a quelle discontinue fondanti.

Si vorrebbe insomma, all’interno della successione e senza contraddire le sue regole, creare una relazione discontinua che, viceversa, è soltanto totale assoggettamento alla continuità.









da Roberto Rossi, Lineamenti per una filosofia dell’intersoggettività, con prefazione di Markus Krienke, Aracne, Roma 2018, pp. 27-102.

[1] Per la precisione in “Filosofia Oggi”, III,1991, pp. 353–390; IV, 1992, pp. 521–551; II–IV, 1993, pp. 293–316; III, 1994, pp. 365–387 e I–II 1996, pp. 45–68. [2] In particolare nel § 4.2.4, Intersoggettività e logica: riflessioni sulla necessità di un ampliamento della Scienza della Logica di Hegel. [3] Hegel alluse al tema che sto affrontando: quel «puro autoriconoscersi nell’assoluto esser–altro», «è il fondamento, il terreno della scienza, o il sapere nella sua universalità generale». Per cominciare a filosofare, bisogna presupporre ed esigere «che la coscienza si trovi in questo elemento”. Ma anche questo elemento, che Hegel chiama eteros, non è immoto cominciamento, ricevendo «la sua perfezione e la sua trasparenza soltanto mediante il movimento del suo divenire» che è la pura spiritualità. Ma anche questo movimento del suo divenire deve potersi fondare, deve cioè dimostrare che quella è la sua configurazione più pertinente e ad essa necessaria, e ciò è quanto Hegel ha taciuto. [4] Il sistema fichtiano non riesce a raggiungere una struttura veramente riflessiva, in quanto il momento iniziale del sistema non riemerge al suo termine. Ma anche in Schelling l’Assoluto è qualificato con un elenco di proprietà, raccolte tuttavia in modo rapsodico e non dedotte dall’Assoluto stesso. Schelling inoltre non scorge alcun rapporto logico fra queste determinazioni, non collocandole di conseguenza secondo un ordine gerarchico di deduzione. Il sistema hegeliano prende invece le mosse dai rapporti formali più semplici «muovendo dai quali e procedendo secondo uno sviluppo lineare e, per così dire, senza alcun apporto esterno di ulteriori dati o premesse, deve essere costruita una sequenza di tutti i rapporti formali e, in conclusione, deve essere sviluppato un insieme di tutti i rapporti pensabili in generale, insieme che include ogni altro. Questo insieme è, quindi, un risultato in se stesso, e non soltanto per la nostra conoscenza, ma è anche la realtà prima e l’unica realtà del tutto indipendente. Secondo il modo in cui Hegel affronta questa realtà, essa è l’intero, l’assoluto, e come tale, il soggetto o lo spirito». Essendo intero, essa «scaturisce dall’interno dei rapporti più semplici, è anche aperta da se stessa al pensiero. La filosofia non ha dunque bisogno di alcun ulteriore apparato analitico–critico per giungere a conoscere tale realtà», purché ripercorra «con il pensiero il corso dello sviluppo formale proprio dell’assoluto stesso» (D. Henrich, Alterità e Assolutezza dello Spirito. Sette passi nel cammino da Schelling a Hegel, Istituto Italiano per gli Studi filosofici di Napoli, p. 1). [5] «La forma della verità è dunque quella posta nella scientificità», scrive Hegel, e deduce che «soltanto il concetto esaurisce l’esistenza della verità». Anche un sapere immediato, infatti, già nell’aver posto la sua esigenza, è «oltre quell’immediatezza della sua fede, oltre quell’appagamento e quella sicura certezza che era consapevole della conciliazione dello spirito con l’essenza e della presenza universale, sia interiore che esteriore, di questa essenza medesima». Dunque «la sua vita essenziale è per esso perduta» e il pensiero deve aprirsi alla relazione senza poter esaurire l’essenza sotto forma di sentimento, nel “turgido entusiasmo”. Ma quel pensiero immediato è la relazione ed il pensiero muore alla sua astratta essenza di primum gnoseologico (dove si confonde il mezzo col fine) perché si costituisce come tale nell’immediato scorgersi per la relazione come pensiero che si relaziona. Ancora una volta, Hegel è principio autoreferente: «dalla facilità con cui lo spirito si contenta si può misurare la grandezza di ciò che ha perduto». [6] Fichte, a cui va il merito di aver recuperato la struttura platonica per la quale l’assoluto è unità dell’unità e della molteplicità, era partito da un assioma logico che si esprimeva nella proposizione “non a” non è identico ad “a”. Per tradurre questa proposizione nell’altra più nota di “un Io opposto a un non–Io”, Fichte ha dovuto considerare il non–Io come principio negativo che non genera nulla: solo il principio positivo per Platone, per Hegel stesso e per Fichte, genera l’opposizione tra principio positivo e negativo. È il principio strutturale della dialettica. Ma non può giudicarsi negativo un principio soltanto perché geneticamente cominciamo a definirlo come un non–me: la logica del senso, per così dire, pone proprio l’apparente positività dell’io come acquisito prodotto di una relazione e dunque come un principio non solo fenomenologicamente e concettualmente, ma eziologicamente negativo: esso è il primo genetico, non fondativo, tanto è che necessita dell’ulteriore serie di relazioni (queste tutte con categorie dell’alter, rappresentazioni dell’ipostasi originaria del non–Io) per raggiungere se stesso e, tramite ciò, qualsivoglia altra realtà (che altra, non è più). Fichte fu esplicito: il non–Io era essenziale all’Io, al punto che questo era in dovere di porlo all’infinito. Hegel finse una necessità dialettica, ponendo però un’alterità ridicolizzata (e valga qui a titolo definitivo il genio critico del giovane Feuerbach). In ogni caso, il non–Io, scaturito idealmente dall’Io, doveva inerirgli, fondarlo in quanto Io: è il riconoscimento della natura altera del fondamento: perché in ogni caso l’Altro, se la verità è essenza dell’Io? [7] Nelle lezioni berlinesi Hegel scrisse a proposito della seconda proposizione fichtiana: «Qui Fichte ha già finito di dedurre». Sia Hegel che Schelling avevano criticato la triade delle proposizioni fondamentali di Fichte che invece pretendeva si trattasse di una soltanto. Questo tipo di critica è diventata ufficiale in tutta la scuola hegeliana (cfr. per questo Erdmann). Inoltre l’Assoluto come Io è indeterminato e tale resta, cioè senza predicati: qui è la base del pensiero del tardo Fichte. proprio per l’astrattezza del principio assoluto, Fichte non riuscì a dedurre una filosofia della natura. Il passo decisivo, quello che portò dall’idealismo soggettivo all’idealismo oggettivo fu fatto, come è noto, da Schelling. [8] Riprendendo l’immagine hegeliana che intende superare I diversi momenti di uno sviluppo, creduti a torto incompatibili e invece passaggi necessari per il progressivo sviluppo della verità, possiamo dire che se il sistema hegeliano è il frutto che subentra “al posto del fiore come sua verità”, queste mie riflessioni vogliono essere semplicemente il bocciolo che poi sparisce nella fioritura e sembrerebbe “confutato da questa” e la fioritura stessa come momento immediatamente precedente al frutto. Con ciò l’intero hegeliano non è quantitativamente allargato, ma messo in relazione con il proprio fondamento che è relazione e che dunque lo ha posto in quanto intiero (successione). Sotto questo preciso riguardo, si badi bene, proprio l’intiero del sistema hegeliano diventa “il nudo resultato”, l’aspetto conclusivo che è «la morta spoglia che ha lasciato dietro di sé la tendenza», cioè la vitalità della relazione discreta originaria. [9] Enciclopedia delle scienze filosofiche, § 12. [10] Cfr. Lo spirito assoluto come apertura del sistema hegeliano, Napoli 1985, p. 59. [11] È il tributo storico che Hegel ha pagato al contingente problema dei rapporti fra intelletto e ragione e alla sua conseguente volontà di attaccare l’astrattezza dell’intelletto. È passata come categoria universale la polemica di quel momento storico. [12] Come sapere che il risultato è tale e che l’assoluto si è posto compiutamente? È solo nella coincidenza con il principio che può essere possibile ritrovare, nel medesimo principio riflessivo trascendentale, il compimento della deduzione trascendentale delle categorie. Fichte, in questo, non ha una struttura riflessiva, poiché la fine del sistema coincide con l’inizio. [13] In Schelling bisognava arrivare dalla natura all’intelligenza e viceversa. Ma non è chiaro come il rapporto tra una filosofia teoretica ed una pratica potesse essere simmetrico e soprattutto non si riesce a capire come lo spirito portasse alla natura. Il problema è che in Schelling non si ritrova quell’elemento precedente e unificante natura e spirito che Hegel elaborò nella Scienza della Logica come Idea. Nella filosofia schellinghiana insomma, manca l’esplicazione di strutture ontologiche universali implicite nella natura come nello spirito. [14] L’analogia con il linguaggio può servire: questo non è strumento del pensiero, ma lo costituisce nella sua funzione. Pensare è operare con simboli in un campo semantico universale. [15] Fichte distinse una sfera del sapere teoretico dove l’Io deve porre se stesso come determinato attraverso il non–Io, ed una sfera del pratico dove il non–Io deve porre se stesso come determinato dall’Io. [16] Henrich, op. cit., p. 5. [17] Ivi, p. 6. [18] Nell’espressione ‘mobile’ si dice il codice spaziale (quantitativo) dell’apparire. In tal senso la precedente definizione «il concetto è la condizione temporale della coscienza», come si vedrà in seguito, in realtà va considerato come la configurazione spaziale di questa. [19] Harris chiarisce che nel rapporto tra due autocoscienze in relazione tra loro la presenza di un’altra autocoscienza fornisce, per la propria, la condizione del desiderio e dunque il raggiungimento della soddisfazione di sé. Ciò obbliga ad annullare un’autocoscienza come sostanza da consumare per l’altra. Il sé, commenta Harris (Fenomenologia, § 11), in quanto desiderio per raggiungere la sua soddisfazione, vuole mostrare come il suo oggetto serve solo a quel suo desiderio. Senza un altro sé, non è possibile che il desiderio possa esplicarsi. Harris, secondo un’ottica tipicamente anglosassone, dà figura ad astrazioni e articolazioni che Hegel lascia prive di determinazioni. [20] Hegel non ha certo trascurato questa bivalenza, ma ha scelto unilateralmente, partendo dall’autocoscienza, cioè già dal prodotto di una relazione che è avvenuta alle sue spalle e che l’ha fondata: «soltanto nell’autocoscienza come concetto dello spirito, la coscienza raggiunge il suo punto di volta: qui essa, movendo dalla variopinta parvenza dell’al di qua sensibile e dalla vuota notte dell’al di là ultrasensibile, accede al giorno spirituale del presente». È forse vuota perché ultra–sensibile? La filosofia dell’Idea è diventata dunque un surrettizio empirismo o materialismo? L’idealismo della Wircklichkeit si è dunque rivelato una squallida idealizzazione sublimata della Realität? [21] La verifica della verità in questo senso si compie nel sistema stesso, come già giudicava Schleiermacher (cfr. W. Dilthey, Storia della giovinezza di Hegel e frammenti postumi, p. 280) e dunque la verità si identifica col sistema stesso. Ma questo per dover essere e imporsi, avrebbe potuto anche non essere (che è questa condizione a fornirgli l’intrinseca necessità). Dunque non può assolutizzarsi un criterio assoluto — perché — relativo e poi farlo coincidere con l’oggetto di cui è sistema e che però come sistema non si è presentato (se è stato poi necessario presentarlo in quel modo). [22] La rivoluzione galileiana fu quella di applicare il sistema formale della matematica ad enti reali e non ad enti formali, come voleva Aristotele e tutta la cultura precedente di matrice greca. In questo senso la dimostrazione è sintesi, non semantica: scienza come metafora. [23] Henrich, op. cit., p. 9. [24] Scrive Francis Jacques: «l’uomo che è communicans è anche animal symbolicus, il solo che sembra poter condividere lo spirito. Quale ‘spirito’ ci fa comunicare? Dietro il sostantivo non si cercherà la sostanza e neanche un’istanza semplice e visibile. Lo spirito non è in noi ma tra noi…Lo spirito è un momento dell’interrogazione umana al mondo, un momento cosciente di se stesso che si realizza inter homines. Lo spirito umano non è un io interiore di carattere fantasmatico e privato, ma una capacità di fare certe cose con altri uomini comunicando con essi». A questi rilievi pure importanti, va comunque ricordato che affinché davvero lo spirito non sia in noi, ma tra noi, esso deve poter rivelarsi come relazione, come differenza qualitativa, prima di esplicarsi nella successione come tale. Il suo esprimersi deve rimandare al suo fondamento, giacché, come espressione, questa non esaurisce quello, ché altrimenti qualsivoglia relazione interpersonale si chiuderebbe come compiuta realizzazione del proprio fondamento, annullando conseguentemente ogni altra e dunque restando anch’essa annullata. «L’uomo è relazione all’Essere che è relazione» (scrive ancora Jacques) attraverso lo spirito. [25] A questo proposito sarà bene precisare l’autoreferenza delle categorie logiche in Hegel: la categoria dello spazio, ad esempio, non è spaziale, mentre il concetto è un concetto. Se queste categorie non fossero autoreferenti, la loro stessa propria essenza cadrebbe fuori della loro definizione. È proprio questa autoreferenza che le fa essere universali (come le categorie logiche hegeliane dell’Essere, del Qualcosa, dell’Altro). Mentre nel negare il tempo e lo spazio non si usano ‘concetti’ temporali o spaziali, negare l’Essere, il Qualcosa o l’Altro significa usarle per negarle e dunque ammetterle in quanto cadono in ogni caso sotto il concetto che intendono negare. Così è anche per i giudizi sintetici apriori. Dire che «non esistono giudizi sintetici apriori» è un giudizio sintetico apriori. [26] Henrich, op. cit., p. 11. [27] Ivi, p. 12. [28] Ivi, p. 13. [29] Anche questo, tuttavia, è in Hegel anche se poi sviluppato sotto altre mediazioni. L’Assoluto è infatti ciò in cui ogni finito, e quindi il suo autosuperamento, giunge alla meta ed è anche questo finito nel suo processo di autosuperarsi. Così l’Assoluto è dunque «altro in sé e rispetto a se stesso». L’Assoluto è dunque «tanto il risultato, che il processo, e, in questo senso, è se stesso e il suo altro». In ciò, l’Assoluto è spirito. [30] Valgano per tutte le parole hegeliane nella Prefazione alla Fenomenologia: il “prendere in considerazione il particolare” e chiudere nel rapporto concretamente particolarizzato l’insieme delle nozioni generali, nella filosofia sarebbe fuori luogo, giacché essa trova espressa «la cosa stessa proprio nella sua perfetta essenza» e non nel particolare del profilo storico, “incapace a cogliere la verità”, perché inessenziale particolare. [31] Ciò è visibile anche nel rapporto hegeliano tra la coscienza che concede il perdono all’altra coscienza agente. La conciliazione è nello spirito che supera il particolare e pur tuttavia vi è presente: in quel «puro sapere di sé come singolarità che è assolutamente in se stessa», scrive Laparriere, lo spirito, nel rapporto tra le due coscienze, in quel reciproco riconoscimento si riconosce come spirito assoluto. Lo Spirito si rivela dunque come la struttura semplice che si articola nelle differenze. [32] Eccellente la riflessione di Henrich (op. cit., p. 5): la differenza dei finiti che sono ammessi per mezzo dell’assoluto «non può più essere caratterizzata dalle qualità di un determinato finito, ma soltanto dal tipo di partizione di queste qualità. Ogni differenza tra i finiti, che tutti quanti sono totali, e quindi anche una totalità, non può che essere quantitativa». [33] Kierkegaard ha affrontato ne Il concetto dell’angoscia la categoria del momento. Ricordando il Parmenide platonico, lo ha connotato come ciò «che sta tra il movimento e la quiete senza essere in alcun tempo; entrando in esso quel che si muove passa in quiete, e uscendo da esso ciò che è in quiete passa in movimento. Perciò il ‘momento’ diventa la categoria del passaggio per eccellenza» (μεταβολή), della relazione come tale (cioè tra distinti). Il tempo di cui Kierkegaard ha parlato è quello che ho definito tempo reale, cioè spazio (come del resto i greci avevano perfettamente compreso, connotando appunto l’attimo in termini spaziali: ά̉τοπον). [34] La dialettica hegeliana piega il dialogismo in un monologismo dove l’alterità è vanificata. Rileva a questo proposito Francis Jacques: «L’Altro non ha esistenza autonoma: esso è semplicemente un mezzo per l’io di attingere la pienezza della forma, la perfezione universale». Così, «il senso dell’Altro è di istituire in seno allo Stesso un rapporto intimo che gli permette di conquistare sé attraverso esso, inteso come suo altro, cioè come una frazione della sua propria realtà». La concezione dialettica hegeliana dunque ha impedito «di vedere nel dialogo e nella comunicazione il luogo in cui le particolarità personali potrebbero essere superate senza perdere la loro realtà propria». Accanto ad una giusta diagnosi, Jacques pone un’ingenua terapia, affidandosi al dialogo dove, come egli stesso scrive, «le particolarità personali potrebbero essere superate senza perdere la loro realtà propria»: ma chi giudica che esse si siano superate e che poi non si siano, in questo, perdute? [35] Hegel aveva per questo difeso la religiosità cattolica medievale che aveva contrapposto al principio astratto del mondo moderno, cioè la soggettività, dove è evaporato ogni contenuto oggettivo. La verità è concreta, oggettiva e storica. Per questo, a giudizio di Hegel, la religione cristiana è la religione compiuta rispetto alle altre, che hanno sempre proposto figure inadeguate dell’assoluto. Dio è l’Idea, l’unità di concetto e realtà: lo spirito è la processualità del concetto: lo spirito che non appare, non è. Vedremo in seguito i rilievi su queste riflessioni hegeliane. [36] Si può paragonare l’articolazione della successione che parte dalla relazione originaria, al manifestarsi di una super–nova: la stella è esplosa centinaia di migliaia di anni prima e se ne vede ora la diffusione luminosa. Su questa esperienza si postula, pur essendo avvenuta lontana nel tempo e nello spazio, l’esplosione originaria. [37] In questo ascolto il suggerimento di D. Henrich, che ricorda come «ogni tentativo di utilizzare il metodo hegeliano e staccarsi al tempo stesso dal fondamento speculativo del sistema abbia condotto a una situazione teoreticamente insostenibile» (p. 20). [38]«L’idea hegeliana del desiderio […] — annota Francis Jacques — è centrata sull’io da cui il desiderio procede come quel movimento di appropriazione, anzi di negazione dell’altro per assimilazione a sé, grazie al quale la coscienza si sforza appunto di diventare coscienza di sé. Come se gli altri attorno a noi si agitassero solo per aumentare il sentimento della nostra vita personale». In questo senso è chiaro che la relazione delle due coscienze, l’Io e l’Altro, finisce in una lotta, dove l’Altro, reso mio oggetto, è servo dell’Io, considerato dall’Altro come coscienza che lo oggettualizza, è figurato come padrone. [39] Hegel lo ricorda nella sua Prefazione alla Fenomenologia : è la manchevolezza la causa del movimento. Gli antichi giustamente escludevano che la stasi fosse l’origine del moto. Lo stupore, la meraviglia che, platonicamente ed aristotelicamente, sono alla base del pensare filosofico, altro non sono, se non appunto, la rottura di un equilibrio, di una stasi, l’interpolazione repentina del vuoto all’interno di un sistema illusoriamente ritenuto compiuto. Non si definirebbe mai ciò che non c’è se questo non fosse allusione di ciò che potrebbe esserci: il vuoto è dunque l’ipostasi di ogni qualsivoglia problema che, come tale, è la messa in discussione della presenza in nome di ciò che non c’è e che pure quella presenza dovrebbe avere. Il riconoscimento del vuoto obbliga dunque a superare il suo livello, perché possa essere riconosciuto: soltanto la pienezza dello spirito può riconoscere il vuoto, problematizzare la presenza e l’assenza, giudicare e sollecitare la realtà in nome d’altro. In questo senso, ogni relazione problematica è vuoto, essendo questa una relazione dove l’uomo scopre l’assenza, una presenza mancante, la necessità dell’ulteriore. [40] Davvero singolare è la situazione di coloro che sostengono la casualità. La loro pervicacia è pari solo alla loro presunzione intellettuale, anche se mascherata da umiltà e asettica esposizione teorica. Il nesso tra causa ed effetto, infatti, è (kantianamente) posto pure se ne è ignorato il significato. Ma questa impotenza a spiegare il senso del nesso dev’essere dichiarata, ché altrimenti è soltanto una mera buona intenzione che muore nell’implicito. Ora, posto dunque che il nesso abbia realizzato se stesso, per così dire, senza che io ne veda un senso, dovrei allora per questo coerentemente concludere che 1) il senso può esserci e se c’è, in ogni caso, per definizione 2) deve appartenere ad un livello più alto di interpretazione, ad un contesto ulteriore che mi sfugge (per l’appunto). Invece, vecchi feticismi mai del tutto cancellati da taluni ‘scienziati’ si riaffacciano in costoro: la mia ignoranza del senso viene oggettivata, quasi appartenesse alle cose e tradotta in una parola dal magico significato (pseudo) ‘scientifico’: Caso. È il caso che ‘regola’ l’origine della vita! (Cioè: io non so perché la vita ci sia, ma questa mia ignoranza non può essere pubblicizzata e ne faccio dunque una legge di natura!). La volpe e l’uva, semplice antica favoletta, è nuovamente messa in scena da questi ineffabili prestigiatori: non arrivo a possedere e dichiaro che quanto mi sfugge non ha per me senso. Parlare di finalismo è, viceversa, onesta dichiarazione di ignoranza: il senso del nesso mi sfugge, esso dunque non può che essere oltre il mio livello d’indagine, visto che, in ogni caso, ho posto un quesito (“che senso può avere quel nesso?”) che pure ha un senso! Cos’è allora la casualità? Il feticcio oggettivo che maschera l’ignoranza del senso del nesso causale e che pretende di farne legge di natura, una legge senza leggi. Un artifizio a metà tra il sofisma, il gioco di prestigio, la truffa e la presunzione. [41] Cfr. L. Scaravelli, Scritti kantiani, Firenze 1968, p. 26. [42] La Logica per Hegel era il programma della filosofia reale (che doveva poi ritornare alla Logica) e nel contempo parte del sistema. Essa cioè era il paradigma, il modello della filosofia reale e anche la struttura del sistema: TESI: Logica (scienza dell’idea) ANTITESI: - negazione formale (Filosofia reale) à filosofia della natura (scienza dell’idea della realtà) - negazione assoluta (negazione della negazione) à filosofia dello spirito SINTESI: Filosofia dello Spirito assoluto. [43] Corsivo mio. [44] Scrive Hegel: “l’autocoscienza universale è il sapere affermativo di se stesso nell’altro sé, ciascuno dei quali come singolarità libera ha indipendenza assoluta, ma in tal modo che ciascuno in forza della negazione della sua immediatezza o appetito, non si distingue dall’altro, è qualcosa di universale, è oggettivo, ed ha l’universalità reale come reciprocità, per quanto precisamente esso si sa riconosciuto nell’altro sé libero e sa ciò in quanto riconosce l’altro sé e sa che questo è libero”. Così, ciascuna coscienza vede l’altra fare quello che anch’essa fa: il fatto che ciò che deve accadere, può essere attuato soltanto per l’opera di entrambe le coscienze esclude l’operare unilaterale.

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