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L’ORGANISMO DEL SAPERE ROSMINIANO COME ANTICIPAZIONE DELLA CRITICA DELL’EPISTEMOLOGIA

Immagine del redattore: Roberto RossiRoberto Rossi

Questa mia ipotesi interpretativa è un tentativo che ha due finalità: la prima è quella di reinserire il pensiero rosminiano DENTRO alla post-modernità, in quanto alcuni studiosi si stanno limitando, in altre sedi, alla ricostruzione del suo pensiero e al suo pieno riconoscimento in àmbito cristiano, dimenticando quella modernità “riveduta e corretta” che il Roveretano ha proposto, pagando di persona il suo coraggio intellettuale. E, tanto la post-modernità è consequenziale alla modernità -che l’aveva già in sé, seppure in nuce-, quanto, altrettanto, il pensiero di Rosmini ha in sé, in alcuni punti ancora non visibilissimi, tutti gli strumenti per parlare anche a questa nostra odierna società liquida.

L’altra finalità, non è rosminista, ma rosminiana. Ed è quella di sdoganare quella parte del pensiero post-moderno che può dare contributi e nuova vitalità ad una filosofia cristiana in generale che mi pare di poter definire in modo edulcorato ”languente”. Ancora una volta si parte dall’idea dell’essere:


E’ l’idea dell’essere, in universale, che appunto non è “concetto”, ma “idea” e come tale, genitrice di tutti i concetti; non è ricavata discorsivamente, ma intuìta; non è la ragione, ma il lume è l’oggetto della ragione; non è indotta per astrazione, perché ogni astrazione la presuppone e perché non è inducibile dall’esperienza sensibile.[1]


Questa rosminiana considerazione di Michele Federico Sciacca ci è ben nota, ma sarà qui da me utilizzata come premessa metodologica per una critica dell’epistemologia, o, se vogliamo, di una certa epistemologia. Del resto, se Rosmini fu critico del pensiero moderno, non possiamo oggi, a mio avviso, disperdere o vanificare quel coraggio e fermarci semplicemente a ricostruzioni fedeli del suo pensiero, accostandolo a questo o a quell’autore. Un accostare, cioè un giustapporre che Hegel, ma lo stesso Rosmini in termini e con concetti diversi ma analoghi, avrebbe addossato alla Reflexion illuminista, ad una settorialità “monocromatica”, più da enciclopedisti, una specializzazione che, pur nella sua indubbia intrinseca utilità, potrebbe perdere di vista quell’organismo del sapere che Rosmini voleva armonicamente costruire e che impone necessariamente almeno due considerazioni: una sul problema del cominciamento e l’altra sulla distinzione tra certezza e verità. Allora le critiche del Roveretano al sensismo, al materialismo, all’empirismo, allo sperimentalismo, che coinvolgevano la convinzione di queste correnti di poter basare l’umana conoscenza sui sensi e sull’esperienza, non richiamano soltanto ad Aristotele, esplicitamente rivisitato da Rosmini[2], ma, più in generale, a quel metodo induttivo che pretende di passare dal particolare all’universale e che si è trasformato, nel tempo, nel metodo sperimentale delle scienze. Queste, infatti, si basano su “dati”, su “fatti”, che, se ripetuti e ripetibili, sembrano autorizzare di poter annunciare al mondo una “nuova scoperta”! Così, ancor oggi, a livello di divulgazione scientifica e, quel che è peggio, presso alcuni autorevoli esponenti della metodologia scientifica (da Margherita Hack a Rita Levi Montalcini a Umberto Veronesi per fare solo dei nomi tra i più noti) questa base empirica rappresenta la forza dimostrativa da opporre a tutto il resto della conoscenza, guardato dall’alto in basso, come fosse di secondo o terzo livello. Non parliamo poi della metafisica e della teologia, rinchiuse nell’irrazionale infondato e considerate con supponenza come semplici oasi consolatorie di chi deve ancora emanciparsi sul piano intellettuale.

Le scienze vanno, nell’ottica rosminiana, inserite in uno scibile dove unità e totalità siano conciliate e capaci di ricondurre all’idea dell’essere che ha guidato quella ricerca. E qui torna la citazione di esordio. Sappiamo, infatti, che quell’idea non viene raggiunta per esperienza o astrazione, ma precede e fonda ogni altra cognizione umana. Il cominciamento è dunque la fondazione nell’Essere e la certezza è quella di una cognizione finita alla luce della Verità dell’Essere. Riconosco l’errore non in base ad altre presunte certezze, anch’esse passibili di errore, ma alla luce della Verità. Dunque, l’universale non segue, non scaturisce dal particolare. Lo precede e lo fonda, illuminandolo ed orientandolo. Dal particolare all’universale non si giunge. Il post rem nel grande tema degli Universali, non è realizzabile. Non esiste l’induzione perfetta. Le pretese dell’induzione, fondatrice del metodo sperimentale della scienza e di ogni scientismo[3] e neopositivismo, sono quelle di approdare all’universale e alla fedele ricostruzione concettuale della realtà a partire dal particolare esperito.


I fatti, –scriveva Rosmini- questi noi li accogliamo tutti caramente ondeché ci vengano; purché siano bene avverati essi appartengono tutti a noi, perché tutti valgono ad accrescere luce e conferma alla verità, che è il solo oggetto de’ nostri travagli e di tutti i nostri affetti.[4]


I fatti, dunque, non ci portano alla verità, all’èureka, ma sono chiamati alla conferma della verità, che pre-esiste e li fonda.

In Rosmini, l’astrazione toglie via qualche cosa alla cognizione (le note proprie) ed ha un valore strumentale, mentre l’universalizzazione è il possibile della cosa. L’astrazione, scrive Rosmini,«crea il mondo degli esseri di pura ragione e i concetti. Trovati in tal modo gli enti ideali, razionali, la ragione è fatta signora di nuova materia, a cui incessantemente applicar l’essere in universale. Ella può applicarlo agli esseri ideali, e così crearsi quelle scienze che si dicono pure ed astratte»[5] riferite ad enti generici o incompleti. L’astratto, rosminianamente inteso, non è la cosa reale, ma una parte di essa, al punto che un’astrazione corretta di pensieri non indica affatto che questa correttezza sia ugualmente nelle cose.[6] Le cognizioni astratte, dunque, «pur essendo in se stesse esatte, cioè svolte con rigore logico ed in piena coerenza con la premessa iniziale, hanno una “validità” limitata, in quanto considerano solamente un aspetto della cosa reale, ritenere che rappresentino interamente la cosa è causa di errori».[7]

La facoltà dell’astrazione è importante nel processo di conoscenza: porta ad un linguaggio condiviso e permette di non fermarci al ristretto campo della mera sensazione. Ma con l'astrazione, per Rosmini si formano concetti che sono determinati solamente da qualche lato e che restano indeterminati da qualche altro. Quando Rosmini parla invece di universalità, di processo di universalizzazione lo identifica con la possibilità della cosa, che trova poi conferma nella cosa stessa, cioè nelle sensazioni sulle quali opera. L’universalizzazione è propria della percezione intellettiva e si dispiega poi sulla quidditas sensoriale. Propongo di leggere l’astrazione rosminiana come coincidente con l’induzione aristotelica, laddove l’universalizzazione è la possibilità del reale, il fondamento di ciò che poi vado a conoscere. Nella famosa citazione della stella, Rosmini descrive come si arrivi a questa possibilità che è universalità:


quando l'uomo alla vista d'una stella dice col suo pensiero: qui vi ha un essere luminoso, egli allora pronuncia una affermazione, un giudizio; e noi abbiamo distinte le cognizioni di affermazione dalle semplici idee. Ma abbiamo detto che quella maniera di cognizioni suppone queste ultime, di modo che non si può affermare la sussistenza di un oggetto di cui non si abbia affatto l'idea. Dunque nel giudizio con cui io affermo la stella presente a' miei occhi, il quale si chiama percezione della stella, già si contiene l'idea.

Rimane adunque che noi con un'altra operazione dello spirito isoliamo l'idea dagli altri elementi della percezione. Ora questa operazione chiamasi universalizzazione, ed ella si fa in questo modo: nella percezione della stella il mio pensiero si trova legato coll'oggetto particolare e sensibile. Ma egli se ne può slegare prescindendo al tutto dal pensiero della sussistenza attuale della stella, mantenendone l'immagine, considerandola come stella possibile, come tipo ed esemplare di tutte quelle stelle uguali, indefinite di numero, che potrebbero essere realizzate dalla potenza del Creatore. Ora la stella possibile è appunto un'idea pura determinata. Questa determinazione possibile della stella non è più la sensazione, la quale è reale e non possibile; ma nondimeno la sensazione mi diede l'occasione di rinvenirla; e lo spirito intelligente la rinvenne col considerare siccome possibile ciò che la sensazione mi dava come reale. Il che lo spirito potè ben fare, avendo noi presupposto che egli conoscesse che cosa è essere possibile. Ma la stella possibile è universale; però questa operazione dello spirito viene da noi chiamata universalizzazione.[8]

L’universale, in quanto possibile è “prima” ed agisce sulla quidditas empirica, conoscibile solo dopo il processo di universalizzazione.

Ho affermato che dal particolare all’universale non si giunge. Ma prima di parlarne in termini epistemologici, consideriamo insieme alcune conseguenze che giustificano l’urgenza di revisione del problema. Così, in modo sparso, lancio alcuni input provocatori, per giustificare la centralità del tema che sto qui trattando e la sua decisiva necessità di risoluzione. La verità, in quanto universale, -cattolica se vogliamo usare un suo sinonimo-, si dà per consenso, per quantità estesa, per maggioranza, unanimità, per un gran numero di adesioni? Non è questo ciò che determina il concetto di “generalità” che niente ha a che fare con quello di “universalità”? Il primo infatti è quantitativo, il secondo è qualitativo.[9] L’universale resta tale indipendentemente dal numero di adesioni o consensi. I diritti universali, ad esempio, come possono essere stabiliti? fondandosi sul mero consenso quantitativo, storicamente mutevole? La verità non è raggiunta dalla mera forza della quantità estesa, per consenso democratico o diffusa sensibilità. La verità trascende il particolare, lo precede e lo fonda. Non sono le costanti empiriche e arbitrariamente fondate sul numero, su una estensione quantitativa del tutto soggettiva, a darci il vero. Come ben aveva capito Nietzsche, «non è il trionfo della scienza, che caratterizza il nostro XIX secolo, ma il trionfo del metodo scientifico sopra la scienza».[10] Oltre al versante epistemologico, quello adottato dagli addetti ai lavori, c’è un versante divulgativo che è ormai purtroppo diventato una generale forma mentis, non scienza, come detto da Nietzsche, ma acquisizione diffusa ed esaltazione del metodo scientifico. Non ce ne rendiamo più conto, ma radunare le opinioni a favore e contrapporle alle differenti è conseguenza di una metodologia scientifica, quella appunto che cerca e struttura le sue riflessioni sulle costanti quantitative, che si muove attraverso grandezze misurabili, dimenticando, apertamente o meno, la differenza. Se ragioniamo per costanti, ad esempio, si determina una visione globalizzata, uni-forme, dove domina la costante, appunto, cioè l’omos[11] o, se volete, l’in-differenza, la non-differenza o, se volete ancora, l’autoreferenzialità. Così, ecco cadere ogni differenza: tra opinione e verità, tra bene e male, tra generalità e universalità, tra umanità ed animalità, tra maschile e femminile, tra uomo e Dio. E l’equivalenza è una delle possibili definizioni del caos.

Il metodo induttivo, -quello che ho assimilato al processo astrattivo rosminiano-, avrebbe dovuto terminare la sua parabola con David Hume e le sue critiche alla base empirica del nesso causa-effetto. Conosciamo le dure critiche del Roveretano all’empirismo scettico dello scozzese, «(Questo sistema è manifestamente empio, perché, negando le cause, o mettendole in dubbio, nega o mette in dubbio anche l'esistenza della prima causa che è Dio stesso[12])», ma proprio grazie a Rosmini, sappiamo alcuni limiti di questa sua, pur giustificata, ma frettolosa interpretazione, inconsapevolmente corretta poco più avanti quando egli stesso scrive: «il pensiero va al di là della sensazione, perché si pensano anche le cose che non cadono sotto i sensi, si pensa la sostanza, la causa, gli spiriti».[13]

La causa è un’idea non un concetto. Dunque, post-factum rientra a questo punto tra i nostri interlocutori anche Hume, all’epoca di Rosmini messo da una parte tra i tanti empiristi-scettici-materialisti-sensisti perché non “funzionale” all’opera correttrice che il Roveretano intendeva svolgere e che, per questo motivo, doveva avere Kant e gli idealisti come bersaglio. Noi, oggi, rosminianamente, possiamo inserirvi anche Hume. Non stiamo parlando di un grande filosofo, ma di un pensatore che ha rappresentato, quasi certamente suo malgrado, una svolta epocale.

Nei manuali liceali le pagine su Hume sono piene delle solite banalità sulla differenza tra impressioni ed idee, sul suo empirismo antimetafisico, sulle critiche ai miracoli, sulla critica della ragione e della conoscenza certa in base all’esperienza, sulla tolleranza, sulla visione morale da collegare al sentimento più che all’astrattezza razionale. Davvero, se fossero queste, -così mediocri-, le riflessioni humeane, avrebbero svegliato Kant dal suo sonno dogmatico? A questo proposito, basti leggere la famosa lettera che Kant scrisse all’allievo Markus Herz, del 21 febbraio del 1772[14] e ci si accorgerebbe subito che le cose non stanno così. Hume è l’erede diretto del metodo induttivo aristotelico. Erede nel senso che porta a chiusura definitiva l’illusione che sorreggeva quel metodo. Se tutto deve passare per l’esperienza, se, per dirla con Tommaso, Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, si è di fronte al metodo che da Aristotele è passato poi alla scienza: è il metodo sperimentale, ufficialmente avallato da Galileo. Va anche aggiunto, per correttezza che, data l’intelligenza di Tommaso, l’innatismo platonico non venne da lui respinto: «I principi innati nella ragione si dimostrano verissimi: -scriveva l’Aquinate- al punto che non è neppure possibile pensare che siano falsi».[15] Successivamente, la pigra diffusione di un certo tomismo ha invece accentuato l’aspetto aristotelico induttivista, non prevedendo quale versante pericoloso venisse aperto e che soltanto la sensibilità filosofica di Rosmini ha per primo individuato. Fondare l’universale su una quantificazione estesa e misurabile è spacciare il condiviso ed il generale per universale, significa radicare l’universale, cioè la verità, sulle sabbie mobili dell’adesione mutevole, sull’estensione sempre variabile ed ampliabile o vanificabile, su riferimenti, insomma, interscambiabili e dunque del tutto relativi. Né vale la variante epistemologica proposta dal Wiener Kreis. Per gli empiristi logici, infatti, il significato di una proposizione era dato dal criterio della sua verificazione che, tramite una riduzione logica degli enunciati scientifici, avrebbe permesso di stabilire la loro verità o in base alla forma – nel caso delle proposizioni analitiche – oppure in base alla corrispondenza con stati di cose – nel caso degli enunciati empirici. In questo modo, tutte le proposizioni della metafisica – prive di contenuto empirico, quindi né vere né false – venivano escluse dal campo d’indagine: l’unica razionalità possibile era infatti quella scientifica, quindi l’ambito di problemi di cui la teoria della conoscenza si sarebbe dovuta occupare era esclusivamente l’ambito degli enunciati scientifici. L’istanza antimetafisica, derivata direttamente dalla critica humeana alla metafisica, divenne uno dei punti fondamentali del loro impegno programmatico, la base per stabilire il criterio di demarcazione tra quello che si poteva definire scienza e ciò che non lo era.

Ora è proprio Hume colui che sto qui proponendo per abbattere quelle pretese! Lo Hume che nega al nesso di causa ed effetto di appartenere alla realtà e, quindi, di essere oggetto di esperienza. E, inutile dirlo, la possibilità di allargare a legge una quantità di fenomeni identici e ripetibili sino a giungere alle costanti, poteva reggersi soltanto se il nesso tra i fenomeni fosse stato “interno”, per così dire, alla realtà. Non esiste un rapporto di tabula rasa del soggetto conoscente di fronte all’esperienza dei fenomeni della natura: si tratta di un’astrazione che idealizza l’osservazione, e con essa l’intero processo conoscitivo. Una situazione di questo genere –osservava Fleck[16]- non si verifica mai – il che è evidente se si guarda alla storia della scienza – in quanto il soggetto modifica sempre, nell’osservarlo, l’oggetto. In tale relazione, non soltanto nessuno dei due elementi, soggetto e oggetto, è fisso, ma essi si trovano tra loro in un rapporto di coevoluzione. Tale rapporto empirico non è mai puro, virginale, neutro. E’ del tutto ideologico pensare d’imporre come punto di vista universalmente accettabile, semplicemente un certo modo di concepire la conoscenza scientifica. Le scienze sperimentali si basano su “dati”, su “fatti”. Per giocare con le parole in modo rivelativo, si può dire con Antiseri che i fatti sono fatti perché sono stati fatti. Ma fatti da chi? «I fatti della scienza sono stati fatti dagli scienziati e … gli strumenti con cui gli scienziati istituiscono i ‘fatti’, li costituiscono e ne specificano eventualmente il comportamento sono concetti e teorie».[17]

Questa ‘nuova rivoluzione copernicana’, peraltro di per sé vecchia di quasi un secolo, e che rovescia il tradizionale rapporto tra fenomeni naturali e teorie scientifiche, chiarisce che i fenomeni della natura sono piegati alla conferma delle ipotesi di lavoro, cioè delle teorie. Allora non si tratta di astrarre una legge da una lunga e ripetibile serie di esperienze, non si tratta di scoprire la costante mediante l’esperienza di una serie di fenomeni, ma si tratta, invece, di «un’idea, un’ipotesi di connessione, una Gestalt, che induce a ‘vedere il mondo’ in forma corpuscolare o ondulatoria[18], conflittualistica o solidaristica; che, quindi, suggerisce di ‘costruire’ il dato A o B».[19]

L’universalizzazione rosminiana che è segnata dalla possibilità del reale, diventa dunque l’ipotesi, la teoria generale che deve selezionare i fatti e poi cercare in essi la conferma o meno di se stessa. Così, prospetticamente, potremmo interpretare questa precisazione del Roveretano:

presupposta adunque nella mente dell'uomo l'idea dell'essere possibile, non è difficile rinvenire le sue determinazioni; le quali la vestono, la limitano e la trasformano in tutte le altre idee. Le quali determinazioni vengono occasionate e materialmente somministrate dalle sensazioni formate poi in idee dalle due osservazioni dello spirito umano, che abbiamo descritto, cioè dall'universalizzazione e dall'astrazione[20].


L’universale fondativo, cioè l’idea dell’essere, passa all’ipotesi di un modo d’essere determinato come possibile (universalizzazione) che, adattato alla realtà empirica fornisce per astrazione una legge, che, tuttavia, non ha i crismi dell’universalità, ma della generalità, in quanto, per dirla ancora con Rosmini,


coll'astrazione si formano quelle idee che sono determinate solamente da qualche lato e che restano indeterminate da qualche altro. Così se il mio pensiero, oltre il prescindere dalla sussistenza della stella, prescinde ancora dalla grandezza, dalla forma, dal grado di luce e dagli altri accidenti della stella, che cosa gli resta? Gli resta ancora l'idea di stella, ma astratta, generica che può convenire egualmente alle stelle di I, II, III grandezza, ecc.

Questa idea è determinata in parte, perocché tale idea della stella non si può confondere coll'idea delle altre cose; ma rimane altresì in qualche parte indeterminata, poiché non conviene più a una stella che ad un'altra.


Non potrebbe, forse, essere questo il modo rosminiano per dire che la conoscenza che traiamo per astrazione non potrà mai superare la soglia dell’alta probabilità, senza mai arrivare alla verità? Non è questa la puntualizzazione che il Roveretano fa per indicare un’attendibilità certa solo in quell’ambito circoscritto e che non può essere spacciata come conoscenza certa delle leggi della natura? Non si tratta più dell’ingenua aristotelico-tomista “adeguazione del pensiero e della cosa”, giacché chi verifica l’avvenuta adeguazione?

L’esperienza? E allora siamo sensisti, empiristi e materialisti.

Il pensiero? E allora siamo idealisti, cioè, rosminianamente, nascosti empiristi, materialisti, sensisti.

Manca il tertium che possa fungere da discriminante di verifica: quis custodiet custodem? Come è possibile cercare una corrispondenza tra realtà e pensiero, quando uno dei due termini, la natura appunto, è ignota? Tale dogmatismo, che ha portato attraverso prima l’Illuminismo e poi il Positivismo, anche nelle più recenti forme di riproposizione, a considerare la scienza sperimentale, la sola degna di credibilità e autorevolezza, ebbene, questo dogmatismo è invece la sua vera anima. Tale dogmatismo[21] è quanto spinse Wittgenstein a parlare di tautologia quale unica forma di conoscenza credibile: si predica (nella dimostrazione) ciò che è già contenuto nel soggetto.[22] Per questo motivo i grandi problemi della vita, in questo modo, avvertiva sempre Wittgenstein, non venivano neppure sfiorati.

L’osservazione dei fenomeni naturali non è né totale, né neutrale, ma selettiva, particolarizzata, operata attraverso elementi scelti per ragioni diverse, ma che indirizzano a quei fenomeni e solo a quelli.[23] Così, come conferma Einstein con una nota metafora, la relazione fra teoria ed esperienza sensoria è "analoga non a quella fra il brodo e il bue, ma a quella fra lo scontrino del guardaroba e il cappotto". L’osservazione è quindi influenzata dall’osservatore ed è – aggiunge Fleck – sempre direzionata. Il ricercatore, infatti, troverà sempre delle soluzioni ai problemi che lui stesso ha posto. Concepire l’osservazione della natura da parte dello scienziato senza pregiudizi come vogliono gli induttivisti, una tabula rasa, è un vero e proprio mito: l’osservazione è sempre programmata, direzionata, orientata, selettiva: «L’osservazione scientifica, per quanto inconsciamente, è sempre programmata: programmata da una congettura che si lancia per risolvere un problema. Insomma, c’è sempre un interesse dietro ad una osservazione rilevante».[24]

Così scriveva Einstein a Michele Besso:


un ampio materiale fattuale è indispensabile per stabilire una teoria che abbia delle probabilità di successo. Questo materiale, però, non fornisce di per sé alcun punto di partenza per una teoria deduttiva. Non credo dunque che esista un cammino della conoscenza per induzione, perlomeno non in quanto metodo logico. Tanto più la teoria progredisce, tanto più chiaro diventa il fatto che non si possono trovare le leggi fondamentali per induzione a partire da fatti di esperienza".[25]


Criticare la metodologia induttivista della scienza significa toglierle ogni privilegio, smascherarne il dogmatismo, riportare ad una consapevole differenziazione tra certezze parziali e verità. Trovo in Rosmini, e per la precisione nel Breve schizzo dei sistemi di filosofia moderna, quanto ho sin qui cercato di dirvi. Così leggiamo al punto 2[26],


Le cognizioni umane si dividono in due classi, che si chiamano cognizioni per intuizione e cognizione per affermazione. Le cognizioni per intuizione sono quelle che riguardano la natura delle cose in sé, le cose nella loro possibilità. Queste cose considerate in se stesse come possibili a sussistere e non sussistere sono appunto le idee. Le cognizioni per via di affermazione o di giudizio sono quelle che noi acquistiamo coll'affermare o giudicare che una cosa sussista o non sussista.


Il considerare le cose in se stesse come possibili è l’universalizzazione che si opera mediante le idee. Interessante notare che esse scaturiscono, in quanto cognizioni, “per intuizione”. E qui Rosmini dice qualcosa che giustifica il mio intervento:


Da questa definizione- scrive il Roveretano- procedono due conseguenze: 1°) Che non possiamo avere questa seconda specie di cognizioni senza che preceda la prima, perocché non possiamo affermare che una cosa sussista o non sussista, se innanzi non conosciamo la cosa stessa nella sua natura possibile, esempio, io non posso dire che sussista un albero o che sussista un uomo, se prima non so che sia albero o che sia uomo. Ora il sapere che cosa è, viene al medesimo che conoscere la cosa nella sua possibilità, perocché io posso sapere che cosa è un albero, e tuttavia non sapere che quest'albero non ancora sussista.

Il giudizio di conoscenza, dunque, è conseguenza dell’idea per intuizione della possibilità di quel reale! L’idea non va confusa con il giudizio: essa, nella sua universalità, guida, illumina e orienta il successivo giudizio di conoscenza che afferma o nega quel sussistere della cosa. Seconda conseguenza:


gli oggetti appartengono solamente al primo genere di cognizioni, perocché col secondo genere non si fa che affermare o negare la sussistenza dell'oggetto conosciuto col primo. Laonde questa maniera di cognizioni non somministra alla mente un oggetto nuovo, ma solamente pronuncia la sussistenza dell'oggetto che già si conosce. La prima maniera, adunque, di cognizione è quella che ci porge gli oggetti possibili, e questi si chiamano idee; la seconda maniera non ci porge nuovi oggetti possibili, nuove idee, ma ci produce delle persuasioni intorno agli oggetti conosciuti.


Anche la scienza ha bisogno di una fondazione metafisica.

"Una sera –scriveva in Fisica e oltre Werner Heisenberg- mi tornarono improvvisamente alla mente le parole di Einstein: “E' la teoria a decidere che cosa possiamo osservare". E infatti, andiamo a trovare conferma nella Autobiografia scientifica dello stesso Einstein. Questo è il punto cruciale: «a poco a poco incominciai a disperare della possibilità di scoprire le vere leggi attraverso tentativi basati su fatti noti.

Quanto più a lungo e disperatamente provavo, tanto più mi convincevo che solo la scoperta di un principio formale universale avrebbe potuto portarci a risultati sicuri».

Sappiamo, all’interno dell’organismo del sapere rosminiano, il perché di questa modalità gnoseologica:

la trascendenza della verità al pensiero e per conseguenza l’esistenza in sé della Verità trascendente: se l’oggetto del pensiero non è posto dal pensiero stesso, consegue che la Verità è prima ed indipendente dal pensiero; dunque, oltre alla verità in me, esiste la Verità in sé. La verità che il soggetto conosce è un’immagine della Verità in sé e c’è verità umana perché c’è la Verità divina. Ed in termini rosminiani: se c’è in me l’idea dell’essere, esiste l’Essere in sé che trascende ogni umana conoscenza, la stessa ragione in generale ed ogni cosa creata.[27]


E la verità che il soggetto conosce è un’immagine della Verità in sé che è Dio[28], ma come quella, è universale e, in quanto tale, di conseguenza, è fondativa del conoscere, è prima di ogni esperienza: è la teoria che decide che cosa possiamo osservare, per dirla con il binomio Heisenberg-Einstein. Puntuale arriva la conferma da Rosmini :


Questo modo di esistere degli oggetti ideali, ovvero delle idee, è tale che non cade sotto i nostri sensi corporei, e da questo è avvenuto che sfuggì intieramente alle osservazioni di molti filosofi, i quali procedevano a filosofare con un pregiudizio anticipato, pel quale supponevano che tutto ciò che non cade sotto il senso fosse nulla. Ma egli è un fatto che gli oggetti possibili non cadono sotto il senso, e quindi che non si può spiegare in alcun modo la loro cognizione ricorrendo solamente ai sensi corporei, nuova confutazione ed evidente del sensismo.


Il metodo induttivo-sperimentale che arriva arbitrariamente a segnare un numero di esperienze oltre il quale ci si sente autorizzati a dire che sarà sempre così e che quanto indotto debba essere considerato una legge, ebbene, questo metodo è illusorio, dogmatico, infondato. Al punto 4 della suddetta opera, il Breve schizzo[29], leggiamo il riscontro rosminiano:

Conviene che premettiamo l'osservazione dei caratteri propri delle idee. Questi sono due principali, l'universalità e la necessità. In fatti un oggetto ideale, o meramente possibile, è sempre universale, in questo senso che egli solo fa conoscere la natura di tutti gl'indefiniti individui, ne' quali si realizza. [...].Le idee hanno in se stesse una infinità, perché sono universali. Niuno essere reale e limitato è universale, perché è determinato a se stesso e incomunicabile ad altri. Dunque le idee non appartengono alla classe degli esseri reali limitati.

Dunque le cognizioni per via di affermazione o giudizio, quelle che vengono dopo le corrispondenti idee, possono portare soltanto una certezza variabile, più o meno attendibile o verosimile. La verità è oltre e altro e solo l’intuizione che pone la possibilità di un reale può riflettere la verità, quella che trascende ogni altro concetto o giudizio di conoscenza. Ogni idea universale non fa che partecipare all’essere come fondamento di ogni pensare. Così chiariva Rosmini al punto 3 [30]:


Vi hanno adunque due termini delle cognizioni, le idee e le persuasioni: coi primi conosciamo il mondo possibile, coi secondi conosciamo il mondo reale e sussistente. Quindi due categorie delle cose: le cose possibili e le cose sussistenti; in altre parole, le idee e le cose.


Delle cose si può avere una certezza mutevole e variabile; nelle idee abbiamo la traccia evidente della verità. Questo mi premeva sottolineare con Rosmini.

Vorrei chiudere con un’indicazione che armonizza Agostino, Rosmini e Sciacca e che ci viene da quest’ultimo: «il pensiero oggettivo, “apice della mente” [...] ci è dato da Dio quale “genio tutelare” che ci “solleva dalla terra” come “piante non terrestri ma celesti” ed “esige anche tutto il nostro corpo” fino alla cima».[31]

[1] M. F. Sciacca,L’interiorità oggettiva, Marzorati, Milano 1951, p. 32. Il grassetto è mio. [2] Cfr. Aristotele esposto ed esaminato, a cura di G. Messina, Città Nuova, Roma 1995. [3] M., Bucchi, Scientisti e antiscientisti. Perché scienza e società non si capiscono, il Mulino,Bologna 2010, p. 41 [4] A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, Pogliani, Milano 1838, cap. IX, art. I, p. 146, nota 1. [5] Ivi, nn. 514-515. [6] “Nelle scienze naturali i significati sono determinati dalle teorie, sono intesi sulla base della loro coerenza teorica piuttosto che sulla base della loro corrispondenza con i fatti” (Paolo Rossi, Ludwik Fleck e una rivoluzione immaginaria, in L. Fleck, Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, il Mulino, Bologna 1983, p.12). [7] M. D’Addio, L’astratto e il concreto nella politica di Rosmini, in M. A.Raschini (ed.), Rosmini pensatore europeo, Jaca Book, Milano 1989, p. 182. [8] A. Rosmini, Breve schizzo dei sistemi di filosofia moderna, (a cura di P. Rotta) La Scuola, Brescia 1966, § XXIV, p. 126. [9] Mi permetto di rimandare a C. Giannantoni, R. Rossi, Dal multi-verso all’Uni-verso, Sigraf, Pescara 2014. [10] F. Nietzsche, La volontà di potenza, ISIS, Milano 1922, n. 358. [11] Paradossalmente, fatta passare dalla cultura dominante attraverso strategie di terrorismo intellettuale, come “diversità”. [12] Ad vocem Hume in Breve schizzo dei sistemi di filosofia moderna, cit.. [13] Ivi, Critica dei sistemi esposti. [14] Cfr. per tutti Pietro Chiodi, La deduzione nell’opera di Kant, Taylor, Torino 1961. [15] Contra Gentiles, I, c.7 n.2. [16] Cfr. la sua Filosofia della medicina, La scienza come collettivo di pensiero e Genesi e sviluppo di un fatto scientifico. L’opera filosofica principale di Fleck vide la luce, dopo molte vicissitudini, nel 1935 a Basilea. Nonostante all’epoca della sua pubblicazione non avesse ricevuto l’attenzione che meritava, attualmente il testo può senza dubbio essere definito un’opera rivoluzionaria, almeno dal punto di vista della filosofia della scienza. Lo sconvolgimento che Fleck portava in questo campo risulta evidente già dal titolo che scelse di dare al suo libro: parlare di genesi e di sviluppo in riferimento a un’entità considerata stabile come il fatto scientifico era infatti quantomeno irriverente. Eppure l’intenzione era esattamente questa: descrivere il fatto scientifico sulla base della storia della formazione di un fatto scientifico concreto come un prodotto dell’attività di ricerca del collettivo di pensiero degli scienziati. [17] D. Antiseri, Trattato di metodologia delle scienze sociali, UTET, Torino (1996) 2009, p. 331. [18] Ci si riferisce alla luce che è trattata, nello stesso tempo, come una serie di particelle e come onde: “…la luce è costituita di fotoni, cioè di entità della meccanica quantistica che presentano alcune proprietà caratteristiche delle onde ed altre proprietà caratteristiche delle particelle” [cfr. T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969, p. 31; T. S. Kuhn, La tensione essenziale e altri saggi, Einaudi, Torino 2006, p. 85; M. Bucchi, Scienza e Società, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, p. 41. [19] G. Statera, Logica dell’indagine scientifico-sociale, FrancoAngeli, Milano 1997, p. 15 [20] Rosmini, Breve schizzo dei sistemi di filosofia moderna, cit., p. 126. [21] “Un elemento ‘dogmatico’ appare ineliminabile da ogni forma di sapere scientifico e tale elemento necessariamente predomina in ogni ‘introduzione’ o ‘apprendistato’ “[Rossi, Ludwik Fleck e una rivoluzione immaginaria, in Fleck, Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, cit., pp.19- 20). Non c’è scienza che possa definirsi matura che possa fare a meno di un’adesione dogmatica alle sue ultime ipotesi, al paradigma ultimo a cui ha aderito [cfr. T. S. Kuhn, La funzione del dogma, in G. Boniolo, M. L. Dalla Chiara, G. Giorello, C. Sinigaglia, S.Tagliagambe eds), Filosofia della scienza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, p. 294. [22] Cfr. il mio Dal certo al vero. Per una esplicita fondazione metafisica del pensiero di Wittgenstein, Lateran University Press, Città del Vaticano 2014. [23] Cfr. Antiseri, Trattato di metodologia delle scienze sociali, cit., pp. 12-15. [24] Ivi, p. 30. [25] A. Einstein a Michele Besso, Princeton, 20 marzo 1952. [26] “Duplice forma della conoscenza: conoscenza per intuizione e conoscenza per riflessione”. [27] M. F. Sciacca, Interpretazioni rosminiane, Marzorati, Milano 1963 (2°), p. 63. [28] “Noi poniamo ogni diligenza nel distinguere le idee in quanto sono in Dio, e in quanto sono vedute dal nostro intelletto. Le idee sono in Dio in un modo diverso da quello nel quale risplendono alla mente nostra. Le idee in Dio hanno un modo di essere che non è diverso da quello di Dio stesso, e questo è il modo del Verbo divino; il quale è unico senza alcuna distinzione reale in se stesso, ed è Dio egli stesso. Ma non così le idee risplendono alla mente nostra” (Rosmini, Breve schizzo dei sistemi di filosofia moderna, “Esposizione del mio sistema”, § 4, “Le idee. Natura e origine”). [29] “Le idee. Natura e origine”. [30] “Caratteri delle idee e delle persuasioni”. [31] M. F. Sciacca, Filosofia e antifilosofia, Marzorati, Milano 1971, p. 109.

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