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Queste riflessioni vanno lette in modo speculare. La seconda parte riprende e ri-orienta la prima, paragrafo per paragrafo. Si può dire che nella prima parte si cerca, senza compiacimenti, senza consolazioni, luoghi comuni e timori, un’osservazione e valutazione radicale, estrema, spietatamente realista della vita, di ciò che la essenzializza, dove l’avverbio “spietatamente” vuole indicare un’attenzione non distratta né distraibile.
Nella seconda parte, ci si apre a una nuova lettura. Che risponda alla domanda: come mai per i cristiani e per l’intera umanità, la Salvezza, la Redenzione (anche per colui che non crede) è stata così cruenta sino a passare attraverso il dolore e la morte? E per quale motivo quel Sacrificio si rinnova ogni volta nel mangiare e bere eucaristico?
C’è una recondita possibilità al logos umano, pur così imperfetto, di intercettare almeno in parte il significato di quel mistero?
Parte prima: La legge della vita
1.1.- Divenire come appropriazione
La precarietà si paga.
Ciò che la segna inesorabilmente è la sua essenza mutevole, cangiante, quel divenire senza il quale morrebbe. La fissità che è stabilità non ci compete e ci si accontenta di palliativi come quiete, pace, tranquillità, riposo. Diveniamo, finché si è vivi, ma anche da morti. Siamo in quanto divenienti e diveniamo anche post mortem. Il nostro esser precari coincide con il nostro stare in vita ed esso è, in quanto diviene. Il compimento è un obiettivo fuori portata, fuori dal tempo che scorre, fuori dalle nostre possibilità, proprio perché “possibilità”, condizione che deve divenire per risolversi, negarsi per essere.
Nel divenire, l’oltre e l’altro sono terre di conquista: soltanto perché sussistono è permesso al divenire di realizzarsi in quanto tale.
In un tale contesto di divenire, ogni relazione è appropriazione. Dal sapere, la cui verifica d’apprendimento è data dall’as-simil-azione, sino alle più intime relazioni umane, dove inevitabilmente domina, anche se non dovrebbe, il possessivo mio: mia moglie, mio figlio, il mio amico, e persino “mio Dio”.
Ho bisogno del mio perché sono precario, perché non sono compiuto, perché divenendo, incontro e ritengo degno di attenzione e giudizio, positivo o negativo, tutto ciò che è degno di cadere sotto la mia relazione.
Il coito, anche e soprattutto il coito, riassume in modo completo ed esauriente questa relazione violenta. La violenza è maschile in quanto penetrazione, violazione del corpo femminile dove il maschio entra, talora anche con sofferenza di lei; la violenza è femminile, come attrazione che seduce ed eccita il maschio e che ella possiede ed usa per il proprio piacere o concepimento. Ciascuno dei due ha potere sull’altro.
L’atto è talmente violento che la società ha indicato nel solo consenso la linea di demarcazione tra la “violenza carnale” e l’atto sessuale lecito.
Ma il consenso di entrambi non toglie l’intrinseca oggettiva reciproca violenza del coito e che non basti lo dimostra il fatto che, se uno dei due è minorenne, l’atto è comunque dichiarato violento.
Paradossalmente, il consenso rende duale quella violenza che altrimenti sarebbe solo unilaterale. Senza consenso è solo lo stupratore a compiere la violenza. Se ci fosse il consenso, il rapporto è reciprocamente accettato come violento e reso, in gran parte dei casi, lecito. Che resti, anche nel reciproco consenso, un atto di violenza, lo sa bene chi è tradito, il quale percepisce il tradimento come un’esclusione, un perder possesso, un non aver più l’esclusività. Un suo riflesso traslato è la gelosia, altro rapporto costruito sulla contrapposizione e sull’esclusività del possesso.
Il coito presuppone l’appropriazione dell’altro, il suo consumo, la sua violazione. Eppure da lì, precisamente dal coito, ha inizio tutto: è da lì che scaturisce la vita. Quella penetrazione e quella seduzione che hanno indotto all’atto, generano una nuova presenza che si fa largo, che pretende di vivere, che si nutre del corpo che la accoglie.
Una volta concepito, il vivente inizia la prima relazione potenzialmente violenta. Occupa uno spazio che non è il proprio, vive appropriandosi e cibandosi di tutto ciò che appartiene a colei che lo tiene dentro: il conflitto è ormai aperto, dentro di lei e fuori.
Lei accetterà di farsi da parte perché l’altro viva?
Se lo farà, il graduale prender posto nel ventre di una donna, sino al parto lacerante è la prima violenta e dolorosa espressione della vita: l’indiscutibile pretesa di uno spazio per vivere.
Se non lo farà, sarà la prima violenta e dolorosa espressione della morte: la l’egocentrata decisione di preservare e conservare come proprio ed esclusivo quello stesso spazio.
E l’intruso-neovivente cresce e chiede spazio e alla fine pretende di nascere. Come un parassita, si è avvinghiato ad una vita che lo ha preceduto togliendole energie, risorse vitali, per poi staccarsene in modo autonomo e definitivo col taglio del cordone ombelicale.
Dopo la evidente, esplicita drammatica violenza del parto, ecco il nato.
E il nato deve piangere! Guai se non esprimesse così il suo primo contatto con la vita esterna! E’ stato strappato con violenza dal corpo della madre e dalla sua protezione. Piangere, dapprima per respirare, poi per richiedere, protestare, contrapporsi: in definitiva, per richiamare e concentrare su di sé tutte le attenzioni. Una volta che è venuto al mondo, tutto ruota attorno a lui, in modo crescente e consapevole.
A chi nasce è imposto un nome, perché il nome lo dà chi esercita potere, “patria potestà”, affinché il nuovo vivente sappia che qualcuno è stato disposto ad accettarlo e a riconoscerlo, ma solo perché ora è suo figlio. E il cerchio si allarga: la società lo deve registrare in quanto nato, far proprio in quanto vivente, perché il nuovo vivente sia considerato tale: senza testimoni né registrazione d’ufficio nessuno esiste, anche se esiste.
Si nasce come parassiti per poi diventare proprietà d’altri (do ut des), si vive per ridurre a proprietà gli altri, che siano conoscenze, oggetti, animali o persone.
1.2.- Vivere: occupare dis-occupando
Da un seme che cresce e si fa largo “dando di gomito” nella terra, ai batteri e parassiti che, appena germoglia come piantina, lo assalgono, incuranti di distruggerlo. Ma a loro volta altri organismi sono pronti ad eliminare questi microscopici esseri, sino ad arrivare, per graduale e crescente eliminazione, in cima a quella che viene definita, in modo edulcorato, la “catena alimentare”, dove, prendendo il punto di vista umano - dunque, ancora una volta eleggendo più o meno consapevolmente una prospettiva antropocentrica - tutto si chiude.
In realtà, anche noi siamo dei virus, dei parassiti, che tutto attaccano e tutto prendono e depredano, pur di sopravvivere o semplicemente vivere bene, ogni volta che un essere vivente subentra, toglie spazio, aria, energie e risorse. Non può che esser così, ma proprio questo esser così delinea e definisce la vita come violenza, oltr-aggio (agire oltre), violazione dell’altro che, si badi bene, a sua volta, ha tolto ad altri.
La vita invade, si radica, si estende e, così facendo, la vita di ognuno toglie qualcosa o tutto a quella degli altri. È un atto di sopraffazione, di occupazione, che trova la sua unica legittimazione nel fatto che “la vita è questa”. E ciascuno trova assolutamente “normale” vivere, anzi la propria vita, si dice, va difesa anche a danno di quella altrui. La legittima difesa indica il diritto di considerare la vita propria, a parità di pericolo, come superiore alla vita altrui.
Tutto questo si rivela come profondamente animale, radicato nella nostra appartenenza alla natura e alla spietata legge della sopravvivenza.
Inutili palliativi alla moda risultano la scelta animalista, quella vegetariana o vegana... La sostanza non cambia. Viene semplicemente – ancora una volta in modo antropocentrico - scelto, arbitrariamente, un certo livello della vita da non violare, magari quello più evidente e che più spinge a reazioni emotive, ma senza toccare neppure la superficie del problema. Sintomi, in ogni caso, più o meno consapevoli, che la vita ha uno strascico continuo di sopraffazioni, di vessazioni che essa stessa autogiustifica, in nome di se stessa.
E l’uomo? Ha forse costruito nel suo celebrato progresso un sistema di vita più rispettoso? E come avrebbe potuto, se, vivendo, è già in uno stato di appropriazione dell’altrui?
La nostra impotenza a risolvere il problema - giacché il suicidio sarebbe un’ulteriore prova di sopraffazione e violenza - convive però, in modo dilaniato, con la consapevolezza che la vita è segnata inesorabilmente da questo male originario, da questo segno di invadenza opprimente: mors tua vita mea. Chi la può liberare da questo peso? Chi può redimerla da questo male intrinseco?
Come ho accennato, non basta spostarsi sul “vegetariano”, dando per scontata una classificazione del vivente secondo una scala gerarchica che continua a prendere l’uomo quale criterio di riferimento, al punto che si fa a meno dell’animale perché più vicino a noi, magari solo perché “sente” la sofferenza e la morte. Nutrirsi solo di vegetali non cambia la relazione: vivere è distruggere altro in funzione mia.
Un esempio sdrammatizzante, curioso a suo modo, ma che può risultare chiarificatore: per quale motivo, nel calcio, si usa dire “Si è mangiato un goal!”? A ben pensare, sembrerebbe non essere una battuta pertinente e invece lo è: distruggere altro in funzione mia. E’ come dire “agire in modo sbagliato”, un modo annientatore della possibilità più giusta. Sono espressioni che riconoscono l’atto di appropriazione solo individuale, privata e la distruzione dell’altro e della sua possibilità di esistere. Nel gioco della dama e degli scacchi l’uso della medesima terminologia risulta ancora più chiaro.
Noi siamo attaccati ad ogni risorsa del pianeta: sfruttiamo, saccheggiamo, succhiamo: lo facevamo già nel ventre di nostra madre. Una volta adulti, continuiamo a depredare e tirar via dall’altro (animale o vegetale che sia), ciò che ci serve, perché quello che è importante - anzi, la cosa più importante - è conservare la propria vita, accrescerla, rinforzarla. Ognuno di noi è troppo importante - così crede ognuno di noi - perché ora si è vivi e la vita tutto permette perché sia conservata e fiorisca.
Non è neanche necessaria l’azione cruenta. Resta in ogni caso l’invasione, l’appropriazione, la manipolazione dell’altro.
Il titolo del paragrafo allude ad un fatto evidente e banalmente verificabile: appena si è concepiti si occupa un posto parassitario nello spazio del corpo di nostra madre, poi nascendo viviamo in uno spazio occupato dal nostro ego, che sia la casa, la città o altro.
Evidentemente lo spazio che occupiamo non può essere d’altri e viene impedito ad altri di stare dove sto io. È normale tutto questo. Ma il fatto che sia normale, anzi, ineliminabile ed inevitabile, non significa affatto che non conservi questo significato di spodestamento dell’altro.
Vivere è occupare e occupare significa togliere o impedire all’altro di stare lì, in quel medesimo spazio. Se poi questo altro è anche “appetibile”, lo si toglie di mezzo, lo si annienta direttamente. La vita è tutta concentrata sull’ego, sul suo potenziamento.
1.3.- Vivere: autoreferenzialità crescente
Ogni volta che la vita è in pericolo, la si difende come fine a se stessa.
Anzi, a ben vedere, non tanto la vita in sé ma la propria vita, perché ognuno può, per natura - e non solo può, ma deve - difendersi ed imporre la propria vita: quello che avviene per mantenerla si esplica nei momenti cruciali in cui essa può essere messa in pericolo.
Tutto va sacrificato perché la propria vita resti in vita.
In cronache tragiche di guerra e disumani assedi, lo stesso cannibalismo diventa possibile, persino nel rapporto tra madre ed il proprio neonato. Su questi atti terrificanti e raccapriccianti si sospende il giudizio morale, come se si fosse al di là del bene e del male: si tratta -questa la convinzione - di una necessità imposta dal proprio status animale che esclude, come per ogni comportamento animale, la valutazione morale di esso.
La suspense in film dalla tipologia drammatica dà per scontato lo stato d’animo di paura per la possibile perdita della propria vita, sentimento nel quale lo spettatore non ha difficoltà di identificarsi e che sostiene emotivamente tutta la relazione tra pubblico e prodotto cinematografico. È un fatto scontato, premesso senza discussione né spiegazione: lo spettatore ne è convinto sin dentro alle sue radici animali e così partecipa e vive la vicenda messa in scena, trovandola dannatamente credibile e giustificata per quanto concerne il timore per la propria vita.
La forza della vita è di essere una grande e complessa tautologia.
La sua forza è tale che chi vive costantemente la consapevolezza della sua insignificanza e perde ogni interesse per essa è considerato malato, depresso, una persona da curare. Insomma, a chi ricorda cosa sia davvero la vita, nella sua finitezza insignificante e priva di fondamento, si oppone la forza dell’incoscienza dei più che gli assegnano lo statuto di malato. Queste coscienze che fanno riflettere e aprono un baratro consapevole davanti a noi, così come Pinocchio con il grillo parlante, lo “uccidiamo” socialmente attraverso l’isolamento.
Appena veniamo a sapere di un suicida, la prima domanda che facciamo a noi stessi o al nostro interlocutore è: “Aveva dei problemi?” Come se la vita fosse così piena di significato da valutare insensato o insano il gesto di suicidarsi. Depressi, suicidi, disadattati, figure-spia dello status vitae, invece di rappresentare indizi significativi per una riflessione sulla vita (non sulla loro vita, ma sulla vita) vengono trasformati in vere e proprie anomalie, malattie, pazzie, anormalità. E questo è un tipico meccanismo di difesa che la società mette in atto per “andare avanti”.
Certo, resta da chiedersi cosa significhi “andare avanti” se non semplicemente vivere. Un vivere che non ha altro scopo che vivere.
1.4.- Vivere: necessità dell’altro
La vita, per mantenersi e conservarsi, deve appoggiarsi all’altro. Non solo per venire al mondo, ma per nutrirsi, per continuare a vivere.
Non si sopravvive se si è soli: non posso nutrirmi del mio corpo, non posso trovare in me le risorse per vivere. Ho bisogno d’altro: che sia alimento vegetale o animale, è alimento solo perché esso non è me, non sono io ad essere alimento di me stesso. Nato da altri, vivo grazie ad altri. Ovviamente, “altri” intesi come consumo, come mezzo ad uso privato, come vita da stroncare per poter mantenere la propria.
Anche quando non è necessario sacrificare la vita d’altri in favore della mia, in ogni caso l’altro è distrutto per me, per essere mio cibo, mio nutrimento, condizione stessa della mia sopravvivenza.
Per vivere ho necessità dell’altro, non come fine, ma quale mero strumento ad uso proprio. L’altro è necessario come consumo: il suo valore è esattamente quello dato dalla sua potenzialità di consumo.
Più è consumabile e meglio assolve il suo ruolo. Non ha altro valore. In sé posso anche giudicarne i valori estetici, ad esempio, ma poi ciò che conta è la sua utilizzabilità quale oggetto del mio consumo. Senza questa prerogativa - quando la mia vita lo richiede per conservarsi - l’altro non ha alcun valore, non muove più ad alcun interesse: l’io non può consumarlo, farlo proprio (as-simil-arlo appunto), annientarlo per sé.
Se un uomo rimanesse solo in una città fantasma, la prima cosa che andrebbe a cercare è l’altro, per sopravvivere. E se venisse a mancare il “normale” nutrimento, l’altro può diventare un’altra persona.
Nel romanzo Le avventure di Gordon Pym di Poe, realisticamente applicabile ed applicato, l’altro diventa paradossalmente un fine per la propria vita in quanto mezzo a suo vantaggio.
Ebbene, la vita è sostanzialmente un oltraggio. Costante, crescente, diffuso, continuo. Vivere è oltraggiare, uscire dai propri limiti ed invadere quelli altrui. Indebitamente. Invadere, ma anche eliminare, nientificare l’altro, annullarlo per conservare la propria vita.
Ogni altro ha diritto di esistere solo perché poi potenzialmente consumabile a vantaggio del proprio. Il fatto è che ogni essere vivente, a modo suo e secondo i propri parametri, esercita la medesima relazione nientificante: dal seme al microorganismo, da un albero secolare all’uomo. Ciascuno contro ciascuno, a livelli di consapevolezza ben diversi, entro un ventaglio che va dal semplice atto meccanico a quello opzionato. Non è soltanto homo homini lupus: qualunque vivente, anche vegetale, fa lo stesso, secondo il processo naturale che lo designa, senza consapevolezza.
La vita è scaturita da uno strappo, da una lacerazione, dalla Spaltung: un atto di superbia che si riverbera per tutto il ciclo vitale. Questi strappi si sono moltiplicati: ogni volta, ciò che conta è l’io che vuole permanere.
Tanto più forte è il mio impatto sulla vita e sugli altri, quanto più resistente e robusta è la mia vita. La sua conservazione, il suo mantenimento, la sua preservazione sono intimamente legate all’altro, necessario perché è da lui che attingerò linfa vitale, tutto ciò di cui ho bisogno. L’altro verrà annichilito gradualmente, per poi passare ad un altro e ad un altro ancora…ciò che importa è l’ego che chiede spazio e vita. E lo chiede all’altro.
1.5.- Vivere: l’altro as-simil-ato e/o evacuato
L’altro o è assimilato o è espulso. Evacuato. Rimosso. Solo quello che serve a conservare la propria vita ed è diventato, appunto, proprio, entra in circolo e costituisce elemento vitale. L’altro che resta irriducibile è buttato via, è male, è sinonimo di disprezzo, epiteto volgare, rifiuto. La vita sorge, si dipana, si alimenta e si consuma nella volgarità e nella violenza. Si cerca di dare al mangiare una superficie di senso: pranzi di lavoro, di amicizia, di incontro, d’amore. Capiamo che quel gesto a cui siamo costretti ha bisogno di redenzione. Senza alimento non si vive, dunque è necessario risollevare il senso fondante per una necessità così violenta. E la fame, quale emblema della perentoria richiesta a vivere, è ovviamente problema. Noi accaparriamo e fagocitiamo lasciando altri senza il loro strumento di sopravvivenza. Altre vittime designate perché la mia vita sia pienamente vissuta, anche nel superfluo, che però mi piace, mi allieta: perché farne a meno?
Anche quando decido di togliermi questa esistenza. All’altro non chiedo presenza, assistenza, amore, pazienza, dove la relazione si ribalterebbe con un vettore teso all’altro (autentico riferimento critico per la mia coscienza), ma tutto si riduce a quanto voglio dall’altro per consegnare la mia vita al nulla. L’altro è mero strumento di morte perché questa voglio e questa l’altro deve potermi dare. Voglio persino che diventi un diritto. Ancora una volta l’altro consumato, usato, qui come strumento di morte. Diretto o indiretto, a livello legislativo ad esempio. Da oggetto che muore in funzione mia, passo all’altro come strumento della mia morte.
All’altro nulla è dato che non sia il nulla. Il suo valore dipende da me, dal suo esser-per-me, come nutrimento e vita o come morte. Tutto ruota attorno a me. È importante che io e solo io decida, perché la vita è mia, perché ho il diritto di farne quello che voglio. L’appartenenza biologica viene scelta a livello di fondamento: si riesce a consumare persino se stessi con il medesimo criterio con cui si è operato nella vita. Il fatto è che quando la vita comincia a pesare, a diventare un fardello insostenibile, non ha più il crisma della proprietà, ma diventa estranea, altro appunto e in quanto altro fa scattare nell’io la medesima reazione che sempre l’altro ha rappresentato nella mia vita: consumo, manipolazione, uso. O espulsione. A pensarci bene, ciò che è espulso, evacuato, è tutto ciò che dell’altro resta inassimilabile, non assimilabile all’io. Ciò che è irriducibile all’io. È l’altro nella sua irriducibilità all’io. Scoria. Rifiuto. Insignificanza.
1.6.- Vivere: virus concentrici
Quella che viene definita catena alimentare, secondo un ordine significativo che la mente umana vuole e deve dare ai processi naturali, altro non è che una catena di parassiti: ciascuno vive sull’altro e chi è carnefice per l’uno diventa vittima per l’altro.
L’uomo, come apice della catena alimentare, è il parassita per eccellenza: tutto gli serve e tutto manipola. A suo uso e consumo.
Definisce virus ciò che insidia i suoi equilibri e si annida nel suo corpo, vivendo di esso. Quanto nel suo corpo, invece, gli serve e lo protegge, va conservato, difeso ed alimentato. In nome della difesa della propria vita tutto si può: le vite sono equivalenti, ma la legittima difesa attribuisce un surplus di valore all’aggettivo “propria”. Pur equivalenti, la propria vita vale più di quella dell’altro cheattenta alla propria. Chi mette in discussione questo, rischia di passare per un idealista fuori dal mondo e inaffidabile. Io ho il diritto di difendere la “mia” vita se tu la metti in pericolo e sono legittimato ad eliminare la “tua” vita nel caso ci fossero queste condizioni. Una normale spietata regola di natura che viene sublimata dalla giurisprudenza con ritocchi ed accortezze legislative che ne nascondono la scaturigine, le radici e il valore.
La dipendenza che si ha nei confronti dell’altro, nostro nutrimento e sostentamento, non è un riconoscimento del suo valore, giacché esso, come alter, ha valore soltanto strumentale, per il mio consumo e non rappresenta mai un fine. E questo atteggiamento, dalla mera sopravvivenza biologica passa, di frequente, anche a status sociale, culturale e valoriale, dove, per l’appunto, ogni altro entra in relazione perché “utile”, sfruttabile a vari livelli, consumabili per fini svariati. La regola della natura diventa, mascherata, sublimata, sottintesa, la regola del vivere socio-culturale.
A livello economico, trarre vantaggi dall’altro/dagli altri è persino patente di abilità e competenza.
Le stesse malattie non sono forse vite che tolgono vita, contro le quali non abbiamo armi sufficienti a ribadirne il mantenimento?
Insite alla vita non possono che esserci la vecchiaia e la morte, perché la vita ha come essenza il consumarsi, il rivoltarsi in sé di quell’atteggiamento di consumo e deterioramento che essa ha svolto nell’arco dei suoi anni verso l’esterno, verso il mondo degli altri. Ciò che ha rappresentato la sua essenza per tutta la sua durata, gradualmente fa altrettanto al suo interno, divorando a poco a poco anche se stessa, sino ad annullarsi. Ecco perché tutto ciò che vive muore: il limite, che è ogni creatura, ha scelto di sopravvivere animalmente e animalmente contrae in se stesso il medesimo atteggiamento letale. La vita, sul piano animale, naturale, è solo una spietata lotta tra virus in scala diversa e a diversi livelli.
La morte è l’ultimo virus.
Parte seconda: il perché della redenzione
Ma se davvero siamo chiamati a riflettere sulla vita, sugli altri e su noi stessi, stando così le cose, non possiamo non reclamare per la vita una redenzione.
2.1.- Divenire come redenzione
Il divenire non deve esorcizzare la sua negatività semplicemente con riti, comportamenti codificati, preghiere e feste. Non può pensare che esso, con un grande mea culpa, possa affrancarsi da parte di sé per rendersi meno indegno e poter aspirare ad una sorta di pacificazione spirituale. Ascesi, mortificazione, penitenza o apatia, atarassia e aponia sono tutte placebo, l’indizio che la vita è in colpa, anzi è segnata dall’oltraggio verso l’altro. Ecco perché poi si sceglie di ritirarsi, di farsi da parte, di staccarsi, quasi per ridare spazio all’altro; stessa cosa per astinenza e digiuno, una forma di autocontrollo e sacrificio di sé per non aggredire altro.
L’unica redenzione possibile e fondata deve necessariamente passare attraverso il divenire redimendolo dall’interno, completamente, e può farlo solo chi, condividendo il divenire, gli è superiore. Una superiorità non quantitativa, ma qualitativa: un divenire santificante, un divenire radicalmente alternativo che ha inverato (portato a verità) ogni aspetto di esso e, al massimo grado, il mangiare, il nutrirsi.
La Redenzione deve dare senso alla vita, che sia un senso ben oltre il mero vivere; deve presentarsi come vita, condividere i nostri limiti, stare dentro la nostra presunzione di essere tutto e di accentrare egoicamente ogni cosa; deve vivere vincendo l’autoreferenzialità della vita, la sua capacità distruttiva di altro; deve sporcarsi le mani con le leggi della vita, con la sua istintuale autodifesa e volontà di conservazione, con la sua essenza annientante.
Quanti leader, profeti e guide hanno cercato di dare una risposta fondante! Soltanto il Siddharta Gothama, il Buddha, ha però abbracciato interamente l’esistenza, per cercare di fornire le vie d’uscita dal suo non senso. Non si trattava di questa o quella liberazione in particolare, ma di superare l’intera relazione con la vita, identificata con il dolore e, di conseguenza, da oltre-passare. Il Buddha ha capito che non era un popolo o un’etnia a cercare il proprio riscatto, non era una mera condizione storico-politica o socio-economica, ma l’intera esistenza, la sua stessa identità, proprio in quanto vita. Né si trattava di illudere l’uomo in vista di una umanità migliore, di un mondo migliore, di una società più giusta, piccole parti emergenti di un iceberg di male che invade, invece, la vita stessa in quanto tale.
Ma in che consiste la salvezza del Buddha?
Qual è l’elemento che riscatta la vita dalla sua insensatezza?
Con coerenza non c’è nulla. Perché l’uomo, per quanto faccia, dal nulla non esce. Niente di ciò che fa nella storia, come storia ha valore. Seppure lo avesse, si perderebbe nel fluire inesorabile delle cose. E il Buddha ha indicato quale unica umana salvezza il nulla. L’unica salvezza è uscire dal ciclo vitale.
2.2.- Vivere: occupare donando
Ma si tratta di una “salvezza” al negativo: sfuggire al dolore sfuggendo alla vita, dimostrare che la vita non ha preso, su di me, il sopravvento. Dunque vivo la vita come una colpa che riscatto devitalizzandola e, di conseguenza, decolpevolizzandola.
Espiare vivendo il fatto che io viva? Nuova tautologia insensata che fa dell’insensatezza l’unico senso percorribile, in Oriente con il Buddha, in Occidente dichiaratamente con Nietzsche e i suoi epigoni, tutti capaci di “sorridere” al baratro del nulla.
Ma ogni dichiarazione di colpa prevede la superiorità consapevole o meno di chi giudica. Ed è qui il corto circuito: c’è l’io che giudica e la “mia” vita che è giudicata.
In base a quale legge l’io giudica la vita come indegna di essere vissuta? In base a cosa prevede una gioia, una quiete, una serenità che, invece, per definizione, non esistono nella vita, né sono mai esistite? Da dove ha tratto questo modello? Da dove viene e perché si è instillato nell’uomo il seme dell’alternativa? Un’alternativa, si badi bene, che per definizione non si è mai conosciuta? Come riconoscere l’assenza, la mancanza, il deficere della vita? Come scoprire la gratuità, il dono, l’altro-come-fine quando la vita mi ha imposto sin dall’inizio solo e soltanto l’io come sopraffazione dell’altro?
Nella storia, quasi ai margini, gettato lì dai libri di storia e dalla banalità dei commenti quotidiani, c’è stato chi ha preteso di redimere la vita. Da dentro. Sin nell’intimo della sua volgare violenza. Chi è passato sulla sua pelle attraverso le pieghe oscure del male umano, della sua ottusa autoreferenzialità, delle sue presunzioni, di ogni peccato e male che oscura la vita. Attraverso l’oscurità della vita stessa. L’oscurità che ce lo fa ricordare appeso ad una croce. Rifiutato perché altro-non-assimilabile, dunque rifiuto da espellere. Altro che ha squassato ogni pretesa egocentrica di imporre la propria vita. Il suo occupare lo spazio della terra, della storia, della vita non ha tolto nulla ad alcuno. Eterno viandante, nomade senza radici, viandante dell’Eterno, ha donato. E basta. Senza contropartita. Lì, appeso, come un brandello insignificante. Ha capovolto tutto nel silenzio discreto di una sofferenza che ha raccolto ogni altra possibile sofferenza. E la sua assurdità. Il dolore è sempre assurdo. Per non parlare della morte: insensatezza per definizione, non-essere, appunto.
E come ha detto che si vuole ripresentare nella vita di tutti i giorni?
Come cibo, come altro-per-la-vita-di-altri.
Tutto quanto di negativo, di oltraggioso, di violento, di volgare, di animale che ha ruotato, ruota e ruoterà sulla vita come mantenimento, conservazione, nutrimento, assimilazione, è stato fatto proprio dal Grande Consolatore.
La redenzione non è semplicemente un fatto esteriore, da sagrestia, un battersi il petto per questo o quello che si è commesso. La redenzione è un fatto intimo, segreto, che entra nelle pieghe dei nostri più nascosti limiti, nel nostro stesso costituirci come uomini, nelle nostre azioni, nel nostro legarci ad una persona ed amarla, nelle nostre debolezze, nei sogni che vorrebbero altro, nelle speranze e nelle utopie, nelle ferite delle delusioni e dei fallimenti, nel nulla che, a volte, forse più che a volte, vorremmo essere.
2.3.- Vivere: eteroreferenzialità crescente
Da chi apprendo di essere? Da chi, di essere io?
Vivo perché altri mi hanno dato la vita, il nome, il sesso, la mia posizione storico-geografica. È attraverso l’altro che raccolgo il fitto reticolato dei miei inconsapevoli primi anni e scopro che mi appartengono e connotano ciò che comincio a chiamare “io”. La coscienza è tale solo se autocoscienza e questa si delinea faticosamente soltanto a partire da ciò che, oltre me, permette di riconoscere ciò che sono, senza farmi illudere di essere tutto. È all’altro che debbo l’io. E all’altro dovrò consegnare questo io.
Ma dove fondare questo? Perché scegliere questa via piuttosto che l’altra, più naturale, più animale, più immediata?
“Se ami chi ti ama che merito avresti?”. L’altro si gerarchizza a diversi livelli: da l’ego-alter à all’alter-ego à all’alter per l’ego à all’alter.
Il primo livello è quello che vorrebbe il mondo a propria immagine e somiglianza e dunque anche amici, amore, idee, e così via. L’io proietta la sua immagine sul mondo come fosse quella da seguire. È il livello più banale, quello del potere sublimato, della forza animale espansa, dell’ego amplificato, duplicato, reduplicato e moltiplicato. C’è poco di umano in questo atteggiamento. Ha senso solo come inizio infantile e forse adolescenziale di ogni uomo. Dopodiché perseguirlo come valore è delirio di onnipotenza.
Il secondo livello è il più diffuso. Si riversa nelle amicizie, nei legami di coppia, omosessuali anche quando sono eterosessuali: non amare l’altro in quanto altro, ma per quanto condivide con me. Insomma, amare me nell’altro. Come Narciso. Illusione di relazione, destinata al naufragio, all’insensato abbraccio mortale di Narciso ad un’alterità fittizia.
Il terzo livello è quello del consumo: “mi rende felice”, “mi completa”, e così via. L’altro ha valore in funzione mia ed è destinato ad essere consumato nel mio microcosmo perché questo sia più felice. Si costruiscono persino rapporti d’amore e d’amicizia su questo falso valore: un egoismo a due. L’uno e l’altro si perdono nel proprio.
Facile e consequenziale che io possa trovare qualcun altro che meglio sia mio complemento e completamento, se il criterio lo fornisce l’ego con le sue variazioni nel tempo e nell’umore.
L’ultimo livello è amare l’altro nel suo esser altro, nella differenza.
La mia felicità è far felice l’altro. Educarmi all’altro, all’altro tanto altro da presentarsi come nemico. Paradossale, radicale, irraggiungibile, ma chiaro: solo così si misura la propria crescita verso l’altro. Amare ciò che considero i difetti dell’altro. Arrivare ad esser pronti a dare la propria vita per l’altro.
Qualunque altro.
Dunque nutrirsi è tenere in vita una vita, la propria, che ha senso però solo per l’altro, perché sia donata all’altro. È una sorta di risarcimento: dono nuovamente quanto mi è stato donato. Non accaparro. Non consumo. Non sono io il fine della vita.
2.4.- Vivere: necessità dell’altro
Ora, dopo il sacrificio della Croce e l’istituzione dell’Eucaristia, non sono più io a nutrirmi dell’altro, facendolo mio cibo e sostentamento. È l’altro che mi si dona come cibo e sostentamento: si sono rovesciati i termini della relazione. L’atto mio, che deve mantenermi e farmi vivere, non è più schiavizzato dall’animalità cieca e insensata, asservito alla disperata necessità di sopravvivere. Non subisce più la necessità naturale. Non è più piegato alla violenza da esercitare su tutto ciò che potenzialmente mi serve affinché possa poi davvero servirmi a mantenermi. Non sono più costretto, pur di vivere, ad annientare l’altro con un atto arbitrario di violenza.
Ora è l’Altro che mi si dona. Lui contravviene alle leggi naturali, alla spietata forza della sopravvivenza animale. L’Altro mi si dona per una forza che è al di sopra della natura e delle sue leggi; è un offrirsi sovran-naturale. Non devo più annientarlo: si fa l’alter stesso mio nutrimento, togliendo all’atto ogni valenza di oltraggio, di sopraffazione, di soppressione.
E dunque: perché Colui che è il Redentore ha scelto di passare attraverso il dolore e la morte quando era in vita e l’offerta di Sé come cibo per gli uomini del tempo che ancora dovrà consumarsi? Perché nella Sua onnipotenza non ha percorso altre vie, meno cruente? Perché non ha scelto diversamente, facendosi forte di ciò che la vita già presentava come un qualcosa di bello, pur se apparente, e redimere la vita con ciò che già di bello la vita aveva?
La ragione è che la vita va redenta alla radice, alla sua stessa scaturigine. Troppo vago parlare di “liberazione dal peccato”: è la vita stessa a presentarsi come un atto peccaminoso, perché mi condanna a condannare ogni altro per farlo mio, assimilarlo e nutrirmene. Per questo c’è un “peccato dell’origine”, il peccato originale: la vita nasce dalla divisione, dal principium individuationis, dalla forza di esserci, togliendo vita e spazio ad altri.
Per questo motivo trovai illuminante la confessione di un amico fraterno che, lungo una stradina di un paese a est di Roma, mi disse un giorno, già malato gravemente: “Ho capito come prepararsi a morire, ho capito perché amore e morte sembrano così stranamente insieme! Accettare la morte è sapersi non indispensabili…non al centro della vita…farsi da parte, discretamente, fare un passo indietro per lasciare la vita a chi sta arrivando!”. La morte dovrebbe insegnare a dare centralità a chi non è il mio io: la vita finisce di essere una rincorsa all’accaparramento per sé, diventando o cominciando a diventare una donazione di sé.
2.5.- Vivere: l’altro finalizzato
L’altro è diventato il fine.
Nel momento in cui l’Altro mi si è donato e ha riscattato la mia vita ad esserci e conservarsi, all’assimilazione sostituisco l’alienazione, concetto non a caso attualmente inviso e demonizzato.
Ma senza alienarci, come è possibile amare? Chi di noi può negare di aver mai sentito il disperato o accorato monito di qualcuno che gli ha chiesto: “Mettiti nei miei panni!” o “Se non vivi quello che ho vissuto io, non puoi capire!”. E’ una richiesta di evadere dai propri limiti e confini per rendersi capaci di valicare la soglia altrui.
Ci si accorge allora che ogni altro è irriducibile, irriducibile alle categorie del proprio, del mio, del possesso, un bene unico e irripetibile, mistero vivente di una statistica celeste che abbraccia infinite possibilità.
Ma tutto questo non fa parte della natura. Non è roba sua. L’amore non è naturale. L’amore è sovrannaturale. Per questo Dio si è scomodato a rivelarcelo.
O forse possiamo sminuire o ridurre la pienezza semantica della Rivelazione facendola passare per un mero “ricordarcelo”? Amare non fa parte della natura che, tutt’al più arriva a forme di gregarismo, di affezione, operando inevitabilmente delle scelte su chi e sul come.
La gratuità è concetto sovrannaturale ed è solo questa che alimenta davvero l’amore.
Inchiodato sulla croce, espressione della sofferenza insensata e della morte innocente, c’è stato Chi ha dato senso all’intera vita, togliendole ogni violenza. Non di fatto, giacché l’uomo ha continuato impassibile sulla stessa strada, ma in spe, nella possibilità che ci è data se la nostra volontà buona vi aderisce.
Il vuoto di quel sepolcro che Lo accolse è il vuoto stesso della morte, che non ha più consistenza, né forza, che non è più da considerare come ineliminabile dal corso della vita.
2.6.- Vivere: relazione redenta
Accanto alla vita generata si è rivelata la vita creata: la prima nasce e muore, la seconda è immortale. Colui che “generato non creato” ha, proprio per questo, toccato la vita, vissuto la vita, sopportato la vita, l’ha però rigenerata: se ha accettato di essere uomo, non c’è nulla della natura, della vita, dell’uomo che non possa avere un senso e un valore di bene, dentro la Sua prospettiva.
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