![](https://static.wixstatic.com/media/nsplsh_454176532d344b6e47726b~mv2_d_5000_3333_s_4_2.jpg/v1/fill/w_980,h_653,al_c,q_85,usm_0.66_1.00_0.01,enc_avif,quality_auto/nsplsh_454176532d344b6e47726b~mv2_d_5000_3333_s_4_2.jpg)
Avevo già trattato un argomento simile nel 2016 e dunque ho cercato di evitare di ripetermi, anche se, inevitabilmente, gli snodi teoretici principali restano i medesimi di allora.
Devo dire che questa relazione prende avvio da uno stato personale di forte disagio ed esprime bene, nel testo, questa mia condizione.
Chiedo scusa, per tale motivo, dei toni amari e a tratti polemici di questo mio intervento.
Dobbiamo partire insieme dalla diagnosi, dalla considerazione cioè di una realtà che, evidentemente, è giudicata non soltanto problematica, ma allarmante, tanto da sollecitare gli amici Elena e Giorgio a scegliere un tema di fondo di questo tipo.
E’ certamente vero che ogni epoca ha creduto e dichiarato di vivere una crisi profonda e drammatica, talvolta epocale e, per questo motivo, potrebbe sembrare quanto meno anacronistico ripetere da parte nostra, oggi, lo stesso grido di allarme. Ma non si deve cadere nell’errore dell’apologo “al lupo! Al lupo!”, per cui quando il lupo c’è davvero nessuno più ci crede. Le crisi sono nella norma, fanno parte dei cambiamenti, del transeunte, del rovesciamento di certi rapporti di forze sociali o economiche o culturali. Ma quando la crisi investe la Chiesa, cioè la comunità dei credenti in Cristo –crisi peraltro anch’essa già più volte comparsa nella storia-, se non altro per noi credenti urge una chiarificazione della testimonianza e una riscoperta della nostra identità cristiana.
E la diagnosi che mi permetto di proporvi è che a guardare noi credenti, trovo oggi una superficialità che ci accomuna a chi non crede, perché diventiamo spesso credenti che, come scriveva Sciacca, Dio,
allegramente se lo mettono per cuscino e vi dormono sopra sonni tranquilli,
una fede perfettamente integrata in certi pseudovalori dominanti: una fede che va a nutrirsi di un rispetto sacro degli animali, di un animalismo più o meno velato, di misticismo ecologista sino ad arrivare a proiettare sulla facciata della Basilica di San Pietro leoni e tigri e gorilla, una fede che si confonde sempre di più, “panteisticamente”, con l’assillante ricerca del “naturalismo genuino”, della purezza del “bio”, quasi fosse un’impronta divina. Così con largo anticipo aveva chiarito Rosmini:
chi osservasse gli errori venuti dall’abuso della parola NATURA, nella scienza del diritto e della morale, delle parole SENSAZIONE, PIACERE, DOLORE nella metafisica, delle parole UGUAGLIANZA e LIBERTA’ nella politica, della parola RICCHEZZA nella economia, e di molte altre consimili, alle quali comunemente non si fece che aggiungere un senso più esteso del senso dato loro dal comune uso, avrebbe raccolto le origini d’incredibili inganni alla mente, e d’incredibili guai all’Umanità[1].
Oggi, a sentire tanti fratelli nella fede e omelie, inviti, conferenze, si ha l’immagine di una fede che cerca il benessere psicofisico sino ad arrivare a concepire una giustizia tutta terrena, sino a giungere ad una tolleranza acritica che confonde persone e idee. Ma
chi non sa che la tolleranza è una legge impossibile a praticarsi dalla mente? –scriveva Rosmini- ché la mente è sempre per sua natura intollerante […], e se potesse tollerare la contraddizione e l’errore da lei conosciuto, compirebbe con ciò una tale annegazione di sé stessa che si annullerebbe. Il costringere dunque la mente ad essere tollerante è un costringerla ad annullarsi: e questo per fermo non è filosofico: anzi a buon diritto si può chiamare un’intolleranza…[2].
Evidentemente è una vecchia tentazione:
il rilevare gli errori di qualunque siasi genere, -aggiungeva infatti il Roveretano- ma specialmente gli errori morali e religiosi […], è un beneficio che si fa alla scienza e al pubblico, non un peccato d’intolleranza[3]
Dunque, chiedo, a guardare l’oggi, cosa ci sia di differente che possa permettere d’identificare il cristiano rispetto ai fratelli non credenti, visto che questi ricercano le medesime cose e allo stesso modo.
Abbiamo scelto una fede soltanto consolatoria, che sappia rendere la propria condizione di vita più comoda, una fede sempre bella e appagante, oasi di emotiva felicità, sicuro rifugio aggregante, che ormai affida tutta la testimonianza e l’identità di essere cristiani a un mero livello esperienziale. Ci si dimentica di più di duemila anni di sforzi filosofici e teologici, s’ignora il contributo dei dottori della Chiesa, i nostri Padri, di chi ha pagato con la vita la difesa dottrinaria. Il fatto che il Cristianesimo non sia una filosofia non può e non deve significare che se ne possa fare a meno. Affidarsi alla mera esperienza di vita significa fondare la verità sul soggettivo, -dopo duemilacinquecento anni di filosofia almeno questo è chiaro-, affidandosi al particolare, in quanto l’esperienza è sempre inoggettivabile, contraria ed irriducibile ad ogni mediazione. E la mediazione, non lo si dimentichi, implica la relazione.
Paradossalmente, le due tipologie, del facile credente e dell’ateo convinto, sono oggi fortemente accomunate, persino confuse. Infatti, per chi vive dormendo allegramente senza Dio, o per chi vive, altrettanto allegramente “con Dio sotto il cuscino”, come ironizza Sciacca, tutto deve prendere avvio da esperienze individuali, da ciò che scaturisce dall’aderire alla storia, alla realtà, al mondano empirico, eletti come luogo privilegiato, elemento fondante, campo di azione, di scelte, di aggregazioni crescenti.
E’ così purtroppo anche per i tanti credenti allegri e senza problemi, o meglio, che identificano i problemi della fede con quelli della storia: la disoccupazione, la corruzione, (abbiamo sentito anche un’omelia dell’altissima gerarchia sul male delle “raccomandazioni”!), insomma di credenti che usano Dio come una protesi tutta mondana, che, per altro verso minimizzano i problemi parlando a sproposito di Provvidenza e continuano nel proprio atteggiamento passivo e imbelle, cieco di fronte al disastro che si sta consumando davanti a noi. Quei credenti per i quali un paradiso terrestre di accoglienza e giustizia, misericordia e lavoro, pace e benessere sembra costituire e sostituire la salvezza eterna donataci dal Salvatore. Sono cattolici, secondo le parole di Sciacca, che
“praticano”, ma non “pensano”; credono, ma non hanno una fede interiore[4].
Le preghiere dei fedeli, nella celebrazione dell’Eucaristia, sembrano talvolta edulcorate richieste sindacali, le omelie sono in grandissima parte fatte da un clero spaesato e confuso, spesso impreparato, (quanto vera ancora questa piaga ricordata da Rosmini!) sono spesso istruzioni per una spicciola felicità terrena, con i tanti, cosiddetti “cammini esperienziali”, presenti in tutte le nostre parrocchie, dove si invita il fratello indeciso e “separato” “a camminare insieme” o a “mettersi in cammino insieme”, empiricamente, “a condividere le stesse esperienze”, altrettanto empiricamente, come se la Verità del Cristo fosse esito empiricamente raggiungibile.
Così in altri tempi, con ben altra lungimiranza, Papa Pio VIII diceva a Rosmini nell’udienza del 15 maggio 1829:
è volontà di Dio che voi vi occupiate nello scrivere libri: tale è la vostra vocazione. Ella maneggia assai bene la logica, e la Chiesa al presente ha gran bisogno di scrittori: dico, di scrittori solidi, di cui abbiamo somma scarsezza.
Per influire utilmente sugli uomini, non rimane oggidì altro mezzo che quello di prenderli colla ragione, e per mezzo di questa condurli alla religione. Tenetevi certo, che voi potrete recare un vantaggio assai maggiore al prossimo occupandovi nello scrivere, che non esercitando qualunque altra opera del Sacro Ministero.
Come conferma Ottonello:
la valorizzazione piena della ragione è […] la strada maestra per concepire la persona[5] nella sua interezza unitaria, di sensibilità, intelligenza, libertà, spirito, dopo che all’uno e all’altro di tali elementi avevano cercato di ridurla i percorsi illuministi e idealisti, retaggi del grande erramento luterano[6].
Lutero è la cartina di tornasole. Si fa oggi del rapporto con la Verità un rapporto semplicemente sentimentale, sensistico, di condivisione emozionale, pronto tutto ad accettare, tutto ad ascoltare, tutto a giustificare, pur di facilitare questo cammino, minimizzando per se stessi e per il fratello inquieto o nell’errore, lo scandalo di una realtà odierna disorientata dal caos e priva di ogni senso fondante. La cosa grave è che si minimizza lo scandalo, di ben altra natura, della Croce e del Dio incarnato, morto e risorto per amore degli uomini e per la loro salvezza, l’unico scandalo che andrebbe invece testimoniato!
In questo clima dove non si pensa più, dove la fede non è più vigile e meditata, dove si parla invece di “fredda dottrina”, dove il rigore dottrinario viene interpretato come un freno per i giovani e per la diffusione dell’opera salvifica della Chiesa, ragionando in termini orizzontali come fosse un partito politico, non può che prevalere il sentimentalismo, la confusione, l’arbitrario discernimento, (parola, quest’ultima, oggi di gran moda e rivelativa del soggettivismo imperante) una misericordia untuosa, che minimizza l’errore sino a cancellarlo pur di “accogliere”. Misericordia,
bellissima parola, -scriveva Rosmini-, e gratissima agli orecchi degli uomini che ci vivono […] è una virtù preziosa, ma una virtù che s’esercita verso le persone, non verso i sistemi, e, appunto perché è una virtù, è un abito della volontà umana, non una scienza[7].
Ma se la volontà non è guidata dal logos essa diventa cieca, confusa, ascrivibile e identificabile con l’odierno pluralismo relativistico. Ad ogni persona, come bene notava Rosmini nell’Antropologia in servizio della scienza morale,
solo quando le si presenta il bene oggettivo in confronto col soggettivo, ella viene francata dalle leggi della spontaneità e diventa libera[8].
Già Rosmini sottolineava come una fede che non reggesse al chiarimento della ragione andava giudicata come falsa:
la religione cristiana, professa prima di tutto di non essere in contraddizione colla ragione: ella stessa c'insegna, che quando una religione qualunque si potesse convincere di contraddizione co’ principi della ragione, o colle loro legittime conseguenze, sarebbe falsa, non sarebbe religione, ma superstizione: ella stessa ci dà in mano questo criterio per distinguere le religioni false dalla vera; con questo criterio appunto ella convince l’altre religioni di falsità, e contro i sofisti, che si assottigliarono per mostrare in essa una tale contraddizione, si difende, e si è sempre difesa colle sole armi della ragione, dimostrando efficacemente, che quella pretesa contraddizione che le si opponeva non era tale per modo alcuno, di maniera che la necessità della concordia della ragione colla fede, è insegnata dalla stessa fede, è un punto essenziale della religione, e la Chiesa cattolica diffinì questo punto anche nell’ultimo concilio di Laterano[9].
Il “nuovo Cristianesimo”, ben profetizzato da Sciacca, si delinea sempre più come una sorta di religione laica, impegnato come è
a favorire l’unificazione dell’umanità in una specie di Organizzazione mondiale che uguaglia tutti gli uomini in un uniforme livello di vita, realizzazione terrestre delle promesse messianiche, dove la pace sarà perpetua giacché l’opulenza dà la sicurezza vitale e la libera soddisfazione di tutti i desideri…
[…]. E così il pacifismo il progressismo il modernismo e tutti i temi del laicismo più intransigente dal ‘700 ad oggi diventano temi del “nuovo cristianesimo”, che cessa di esistere come religione e s’identifica con la società empia sposandone i metodi e le finalità[10].
Senza voler semplificare, credo che qui ruoti il malessere odierno della cristianità.
Non siamo più capaci a recepire l’invito dell’apostolo Pietro: “siate pronti sempre a rendere ragione della speranza che è in voi”[11] , come se non esistesse Rosmini, come se non esistesse la “carità intellettuale”!
Non veritas in charitate, ma charitas in veritate, altrimenti è solidarietà e difesa della specie sublimata.
Recentemente, in un’udienza generale, il Papa ha citato proprio questo passo della prima Lettera di Pietro e ha espresso molto bene come la speranza sia la Persona del Cristo. Ma quando ad un certo punto dice
comprendiamo allora che di questa speranza non si deve tanto rendere ragione a livello teorico, a parole, ma soprattutto con la testimonianza della vita, e questo sia all’interno della comunità cristiana, sia al di fuori di essa[12],
ecco comparire come d’incanto l’acriticità della fede, una fede non pensata, perché sbrigativamente si è identificata la teoria con le parole, come se il livello teorico fosse flatus vocis.
Come dare e perché dare l’assenso di fede?
Come giustificarlo alla propria coscienza e a chi interroga sulle ragioni che hanno spinto e motivato quell’assenso?
L’assenso […] che diamo al vero –notava Rosmini- è ciò che ci mette in possesso del vero, fuori del quale non si trova la scienza, ma soltanto l’ignoranza o il dubbio che è un’ignoranza maggiore, o finalmente l’errore che è l’ignoranza massima. L’assenso suppone la notizia di ciò a cui si assente, e che coll’assenso si accetta per vero; e però se la cosa è vera, in ogni assenso, qualunque sia il modo nel quale si dà, c’è sempre cognizione, c’è sapere, e acquisto di verità[13].
La Tradizione e il Magistero che noi abbiamo seguito e continueremo a seguire, sono segnati dal sangue dei martiri che sapevano in Chi e perché credere! Se mi viene chiesto perché Cristo e non altri, che cosa dovrei fare? (e dico fare perché il dire, le parole, il livello teorico non conterebbe nulla!...). Cosa propongo al fratello che trova quiete ed appagamento nel buddhismo, nei Testimoni di Geova, in una delle tante sette (oggi non si deve più usare questo termine! Altra ipocrisia lessicale) che nascono e pullulano ovunque? Cosa propongo al fratello ateo o post-moderno, del tutto impermeabilizzato di fronte alla fede che si appage nel mondano? Quale sarebbe la presunta soluzione data dalla testimonianza di vita, senza un fondamento nella Verità?
Riconoscere la verità è il primo dovere dell'uomo, dice Rosmini, è un dato che si ritrova ovunque nelle Sacre Scritture:
quella maniera di favellare, per la quale ogni virtù chiamasi verità, ed ogni vizio menzogna, non dimostra ella assai chiaramente, che si pone il principio della moralità nell'unione della volontà dell'uomo cogli enti a quella guisa che la verità prescrive?[14]
Se sento, come mi è capitato, da un giovane parroco, che non c’è bisogno di appartenere alla Chiesa ed essere cristiani per essere salvati, a questa idiozia eretica cosa rispondo?
E si badi! Non la chiamo “idiozia” in quanto credente, ma per contraddizione teoretica interna! Se fosse così, infatti, che senso avrebbe la scelta di farsi prete e quello di prendere l’Eucaristia di lì a qualche minuto? E, da credente, quale valore si darebbe allora alla Rivelazione, resa superflua in quanto interscambiabile con qualsiasi messaggio o proposta umani?
Questa idiozia, dunque, anche eretica, ascoltata in quell’omelia dai fedeli che riempivano la chiesa, è figlia precisamente di una fede non ragionata, che nasce non certo dalla comprensione ragionata e argomentata del proprio credere nella Persona di Cristo e nasce perché ci si sta dicendo che la teoria è parola, dunque un nulla, come se la testimonianza debba essere un’irrazionale o arazionale adesione alla Persona di Gesù. E alla semplice domanda perché Gesù e non altri, se rispondo, come devo, che è Lui il Salvatore, ma poi non so come argomentare, come fondare l’autorevolezza di quella fede, la sua unicità e specificità, non serve a nulla che io scenda in una marcia pacifista, ecologista o, cosa gravissima, operi scelte politiche e partitiche non più in base ai grandi temi morali (teoria gender, aborto, ecc.), ma su questioni di presunta giustizia sociale.
Ed ecco le conseguenze: un vago filantropismo serpeggia nei nostri luoghi ecclesiali, senza che sia dato riconoscere l’esser discepoli del Cristo: siamo riusciti a farci depredare persino dell’amore, ciò che avrebbe dovuto farci distinguere come cristiani. Tutto è schiacciato su un volontarismo orizzontale, laico con presenze cattoliche o cattolico con presenze laiche, in un’equivalenza che, come sempre, come ogni equivalenza, è caos. Abbiamo permesso che fosse fatta, della fede cristiana, fondata dall’unicità irripetibile dell’Incarnazione del Cristo, un’ideologia pari alle altre, nascosta e depredata dei suoi valori che non sa più testimoniare come propri:
staccarsi […] dalla Chiesa cattolica e prendere la ragione a calci fu tutt’uno[15]
scriveva il Roveretano nella sua Introduzione alla filosofia.
Vi ho accennato all’inizio del mio disagio. Ho amici carissimi impegnati come coppia in una lodevole e benemerita iniziativa parrocchiale: assistono i bambini di ragazze madri per permettere loro di andare a lavorare. Le stanze di accoglienza, ovviamente anche per la notte, sono state costruite con le donazioni dei fedeli e sono state costruite a ridosso della parrocchia. Sono andato a visitare l’edificio. Ma non c’era un Crocifisso! Ho chiesto e mi è stato detto che il parroco ha esplicitamente voluto che non vi fosse. Ancora una volta il falso rispetto umano, una mancata testimonianza, una nuova confusione tra iniziative umanitarie e cristiane, dove non posso neanche definirle tali, cioè cristiane, visto che non c’è traccia di testimonianza del Cristo. Persino lì, si è tolto il Crocifisso! E allora chiedo con spietatezza: in nome di cosa si aiutano queste madri?
Solidarietà della specie? La stessa di qualunque specie animale gregaria? Filantropismo orizzontale ed emotivo? Quali le ragioni per donare il proprio tempo e non solo, a quelle donne? Se evito di fondare tutto questo in Cristo, sulla Sua Rivelazione di Amore, e lo evito non dichiarandolo, cosa resta?
Così, con puntualità e rigore, scriveva Rosmini:
l’amore che non nasce dalla verità delle cose non è che parziale, e finisce coll’odio; e quello che non mira di condurre gli uomini alla virtù non è che momentaneo.[16]
Ebbene, continuava il Roveretano,
il determinare i principi ossia le prime ragioni di tutto il sapere, e con precisione pronunciare e affidare ai vocaboli quest'altissima parte dell’immensa piramide dello scibile umano, è appunto l’ufficio della FILOSOFIA. A questa dunque noi abbiamo stimato di dover rivolgere l’attenzione della mente, a questa abbiamo indirizzati i nostri vari scritti, ciascuno de’ quali intorno a qualche porzione di lei si travaglia[17].
Gli “uomini di Dio”, come già rosminianamente ammoniva Sciacca,
non sono gli “arrabbiati” del pacifismo, dell’ umanitarismo, del secolarismo, né quei cristiani, manipolatori di “nuovi” catechismi …, che a un santo “in galleria” preferiscono con i soldi …aiutare i popoli sottosviluppati, alternativa artificiosa e stupida[18].
Si vive, a mio avviso, una cristianità come un epigono semplificato dell’esistenzialismo, del radicare tutto nell’uomo, nel divinizzare le sue vicende, le sue esperienze, i propri bisogni ed esigenze, quasi fosse, la loro eventuale risoluzione, l’unico serio problema da affrontare.
Il dialogo viene elevato ad assoluto, base della condivisione e dell’ascolto del fratello, non più fondato sulla Verità, sulla forza della testimonianza, sull’unicità dell’esser cristiani, ma su un orizzontale aiuto umanitario, sul gusto che viene da un dono fine a se stesso, che appaga chi lo fa e chi lo riceve, senza che abbia un fondamento sensato, cioè metafisicamente orientato. E se tutto avviene sul piano dell’azione, come si riconoscerebbe l’errore? Come correggerlo evangelicamente? E dico “come”, per dire con quali strumenti critici. O vogliamo togliere, come è stato già alluso, il concetto di peccato e l’esistenza dell’inferno?!
A forza di rispettare lo spirito umano, -leggo nella sciacchiana Filosofa e antifilosofia-, si ha riverenza per l’errore che lo fa schiavo e, a forza di credere che lo si eleva facendolo il creatore della verità, si nega quest’ultima e lo si degradaa produttore e consumatore di doxe[19].
L’identità cattolica resta nascosta, talmente implicita da creare un vuoto semantico ed identitario, vuoto immediatamente, parassitariamente riempito dalla pseudo-cultura dominante, che ne fa subito un “valore umano”, un valore ovvio, di tutti, laici e credenti, come se il fatto che si creda nel Dio-Amore Incarnato, scomodatosi proprio per rivelare che la chiave di volta della vita è l’Amore, sia un semplice abbellimento irrazionale di ciò che è ritenuto banalmente patrimonio di tutti.
No. L’Amore non è naturale. Naturale è l’egoismo, il razzismo, la discriminazione, il sospetto, la convenienza gregaria, l’affezione. Non l’Amore. L’Amore non è naturale, è sovra-nnaturale. Per questo, oggi, in pieno soggettivismo, esplodono così evidenti le difficoltà di amare persino nella più piccola delle comunità, la diade di coppia. Per questo oggi si può pensare che qualunque tipologia di coppia sia in grado di amare.
Solo Dio poteva fondare il senso della vita nell’Amore gratuito e strapparlo alle sensazioni, alla natura ambigua animale, alle seduzioni del piacere, agli smarrimenti dell’irrazionale, alle velleità ormonali.
Privata della soprannaturalità, -avverte Sciacca-, la charitas cristiana non è più tale; chi continua a parlarne, parla di filantropia o di che si voglia, fa un discorso non più cristiano…[20].
Che cosa resterebbe, che cosa sarebbe il Cristianesimo, anzi il Cattolicesimo e la Chiesa
se si limitassero alla pura azione sociale, alle opere organizzate di progresso materiale, alla predicazione del più terrestre e vuoto umanitarismo…?
Né mi si obietti che la filosofia non serve e neanche la teologia ché bastano la sola fede, quella popolare, e l’aiuto al prossimo a soffrire di meno e a vivere meglio[21].
Se questo fosse il fine, continua Sciacca,
qualsiasi associazione è in grado di darlo e che il prossimo non è più tale se Dio non è e non Lo si ama più di noi stessi e dunque anche del prossimo, il che comporta l’essere della verità e dunque il discorso filosofico e teologico[22].
Se il messaggio del Cristo viene ridotto ad una mera esortazione di testimonianza tesa a costruire una nuova società, una società migliore, il messaggio di salvezza ed il sacrificio della Croce vengono oscurati, perché si fa coincidere quel messaggio con qualsiasi messaggio mondano, con gli stessi fini, scriveva Sciacca,
per cui essere cristiani o essere comunque per una società migliore non fa alcuna differenza se non forse nei metodi, essendo identico il punto di partenza e il fine ultimo che si vuol conseguire[23].
Sciacca cita Agostino per chiarire i termini del problema:
s. Agostino scriveva che dubbi e tribolazioni gli erano cominciati dopo la conversione, volendo significare che convertirsi al cattolicesimo non significa avere la verità in tasca e che la conversione è una conquista che si fa giorno per giorno, essendo sempre imperfetti e anche problematica, donde la necessità di un approfondimento continuo della fede[24].
Il fine della storia non sta nel mondo. E’ un concetto questo che, proprio perché non si pensa più è ormai dimenticato.
Si è accentuato quanto si può leggere nella prefazione del Nuovo Saggio, dove il Roveretano analizzò con la consueta acutezza il “pensiero malato” indicandone le varie espressioni e cause:
1. La baldanza umana, che può nuocere a singoli uomini.
2. Gli ostacoli che poniamo noi stessi agli avanzamenti della Filosofia.
3. La stanchezza nella ricerca del vero.
4. La baldanzosa confidenza di poter metter termine a tutte le questioni.
5. La soverchia fidanza che prende l’uomo di se medesimo.
6. Una speranza esagerata di poter assai facilmente metter rimedio a’ disordini.
7. Infine, una “infermità” intellettuale cui soggiacciono anche i buoni[25].
Così con fiducia, purtroppo, allora come oggi non ripagata, Rosmini scriveva il 31 gennaio 1831, l’anno successivo la pubblicazione del Nuovo Saggio, a Michele Parma:
e una tale dottrina sulle idee, intima e congenita al cristianesimo, io penso che solo possa essere quel germe salutare che frutterà, coll’opera di molti buoni, ordine in tutte le cose, e una luce religiosa nuova, che colla sua bellezza dee rapire i cuori, e soggiogare le menti. Tali sono i miei pensieri sul destino del cristianesimo! È nelle sue viscere che si nasconde una filosofia sfolgorante di evidenza e beante gli intelletti per la sua origine divina e perché conduce di nuovo a Dio! E tutto annunzia che un tal porto del cristianesimo sia vicino alla maturità.
Come emerge dai testi rosminiani, c'è una relazione strettissima, indissolubile tra morale e Verità e l'adesione della volontà alla Verità, che segue l'atto conoscitivo, produce nel soggetto intelligente il sublime diletto[26]. Se il cristiano è l’uomo realizzato, la fede religiosa è la filosofia realizzata. Così confermava il Roveretano:
ed ora qui badate bene che non sono più io, ma è la stessa Religione cristiana, che spiega se stessa in questo modo. Ella si presenta appunto all’uomo come un lume primitivo, intimo, nuovo, che illustra in segreto il fondo dell’anima in un modo simile a quello che fa il lume della ragione, onde i cristiani si dissero sempre, fino dal primo tempo in cui fu annunziato il Vangelo, illuminati; e il Battesimo, rito scelto dall’Onnipotenza divina qual mezzo ordinario a dar questo lume, si disse illuminazione; e a questo lume che si comunica ugualmente a tutte le età dell’uomo, si attribuì sempre l’origine della potenza di giudicare e di ragionar sanamente nell’ordine delle cose della salute eterna, che eccedono la natura[27].
E allora, ridiamo forza al logos, alla Verità, senza la quale tutto è vano, ricordiamo ancora una volta l’ammonimento di Rosmini, secondo il quale,
tutto ciò che noi cerchiamo colla filosofia non è finalmente che il miglioramento di noi stessi[28],
[1] Lettera a Luigi Bonelli, Rovereto 1 ottobre 1825 in A. Rosmini, Introduzione alla filosofia, cap. VI, “Sulla classificazione de’ sistemi filosofici e sulle disposizioni necessarie a ritrovare il vero”, cit., p. 430. [2] A. Rosmini, Introduzione alla Filosofia, Città Nuova, Roma-Stresa 1979, n. 51, p. 99. [3]A. Rosmini, Saggio sulla dottrina religiosa di G. D. Romagnosi, in Apologetica. Opere varie, Tip. & Libreria Boniardi-Pogliani, Milano 1840, 302. [4] M. F. Sciacca, La Chiesa e la civiltà moderna, Marzorati, Milano 1969, p. 59. [5] La persona è per Rosmini “un individuo sostanziale in quanto contiene un principio attivo, supremo e incomunicabile” (Antropologia, n. 832; Teosofia, vol. II, n. 903); è “un soggetto intellettivo in quanto contiene un principio attivo supremo e intelligente”. [6] P.P.Ottonello, L’enciclopedia di Rosmini, Marsilio, Venezia 2009, p. 20 e P. P. Ottonello, Saggi rosminiani, Marsilio, Venezia 2005, p. 16. [7] A. Rosmini, Introduzione alla Filosofia, cit., n. 51, p. 99. [8] A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, Ed. naz. n. 872, p. 476. [9] A. Rosmini, Degli studi dell’Autore, in Introduzione alla filosofia, cit.,p. 86. [10] M. F. Sciacca, L’oscuramento dell’intelligenza, cit., p. 178. [11] 1Pt, 3, 14-17. [12] Cfr. Udienza generale del 7 dicembre 2016. [13] A. Rosmini, Degli Studi dell’Autore, in Introduzione alla filosofia, cit., p. 47. [14] A. Rosmini, Filosofia del diritto, CEDAM, Padova 1967, p. 89. [15] A. Rosmini, Introduzione alla filosofia, cit., p. 79. [16] Ivi, p. 256. [17] A. Rosmini, Degli studi dell’Autore, in ivi, p. 24. [18] M. F. Sciacca, L’oscuramento dell’intelligenza, cit., pp. 150-151. [19] M. F. Sciacca, Filosofia e antifilosofa, cit., p. 59. [20] M. F. Sciacca, Gli arieti contro la verticale, cit., p. 71. [21] M. F. Sciacca, Filosofia e antifilosofa, cit., p. 67. [22] Ibidem. [23] Ivi, p. 132. [24] M. F. Sciacca, Gli arieti contro la verticale, cit., p. 155. [25] Cfr. A. Rosmini, Nuovo saggio sull’origine delle idee, Intra 1875, I, pp. XLVI-LVII. [26] Cfr. A. Rosmini, Principi della scienza morale, Città Nuova-Stresa 1990, p. 104 [27] A. Rosmini, Degli studi dell’Autore, p. 76. [28] A. Rosmini, Come si possono condurre gli studi della Filosofia, n. 19, inIntroduzione alla filosofia, Tip. Casuccio, Casale 1850, p. 369.
Comments