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Riconoscere l’assenza. CONSISTENZIALISMO O FILOSOFIA DEL FONDAMENTO

Immagine del redattore: Roberto RossiRoberto Rossi

L’uomo è metafisico. Solo perché è metafisico è anche storico. La storia è la causa generativa degli accadimenti che, tuttavia, rispondono solo a cause intermedie. Infatti, qual è la causa della storia? E il suo fondamento?

La storia non è l’inizio, non è l’avvio, ma già si presenta come una serie di risposte possibili ad una condizione di squilibrio che è alle sue spalle e che la giustifica. Non ci sarebbe l’indefinito ventaglio delle risposte storiche, individuali o generali, se alle spalle di queste non ci fosse l’interrogativo che le motiva e le orienta e l’interrogativo -che è sempre problema-, è squilibrio, non allineamento tra domanda e risposta, gap tra la/le domanda/e le risposte che ognuno cerca e non trova in sé. I vasi non comunicanti obbligano a riequilibrare o a tentare di riequilibrare i due livelli. E lo squilibrio genera disagio, insoddisfazione, inquietudine. Già soltanto per questo motivo, la storia non è evoluzione della necessità naturale, così come la libertà non è evoluzione rispetto alla necessità. Non c’è infatti continuità evolutiva, giacché la storia è negazione della ripetitività naturale e la libertà è, altrettanto, negazione della necessità, alternativa antipodica. Se vale la sentenza di Linneo per cui “la natura non fa salti”, storia e libertà sono altro dalla natura e dal suo ciclo inesorabile, rappresentano, invece, un vero e proprio salto, che, non appartenendo alla natura, deve trovare un chiarimento e una spiegazione diversa dal solito deus ex machina che è inserire ogni volta “l’evoluzione” quale collante di comodo. Per ora, semplicemente, si può connotare l’uomo come un qualcosa che è anche oltre la fisicità, la naturalità animale (indipendentemente dalla sua complessità evolutiva).

Metafisico, dunque, sia nel significato greco, classico, del termine, quello di metà, oltre, sia in quello comune della lingua italiana, cioè “fisico a metà”. L’elemento metafisico non è un semplice principio fondante che poi cala sull’uomo, come un deus ex machina, per cercare di spiegarlo alla maniera del concetto di “evoluzione”. Metafisico è l’uomo per sua sostanza, mente e corpo, spirito e materia. È metà, cioè è anfibio, relazione interna per sua intima essenza.

La metà, se non presupponesse il tutto mediante il quale si riconosce come metà, s’illuderebbe di essere il tutto.

Quel tutto non è visibile, ma va presupposto di necessità, altrimenti non si avrebbe coscienza di essere quella metà che si è. La consistenza di questo tutto, di questa pienezza è ben più forte di quella che materialmente tocchiamo e misuriamo, giacché è una consistenza qualitativa, fondante, senza la quale verrebbe meno ogni successiva riflessione.

E metà significa anche limite, ancora una volta relazione -che del limite è la sua essenziale espressione-, e la metafisica è relazione.

Riconoscere il tutto possibile e necessario, invisibile e fondante, significa sapersi quel che si è grazie a quella consistenza implicita di una pienezza pre-supposta. Se invece non presupponessi quella pienezza originaria invisibile ma necessaria perché fondante, la metà si porrebbe come tutto: cioè sarebbe l’idolatria, il male, l’errore che, agostinianamente, è precisamente la parte che pretende di essere il tutto.

Dunque l’uomo è metafisico, perché riconoscendosi, avendo coscienza di sé, non può che presupporre tutto l’indefinibile consistente campo di ciò che egli non-è e che è altro da lui.

Può cominciare dall’”io” per tutto ciò che svolge: “io penso”, “io dico”, “io scrivo”, ecc. ma l’io è solo causa generativa, livello meramente genetico dei fatti. Ma l’io, se è cominciamento, non è fondamento. Il suo fondamento è l’altro, cioè tutto quanto ha dovuto presupporre, reale e possibile e che non è il mio sentirmi, il mio vedermi, il mio pensarmi, il mio agire. Se il cominciamento, la causa generativa, non può che, inevitabilmente, essere l’”io”, il fondamento è sempre l’altro.

Questi due livelli di lettura sono costantemente, acriticamente, pigramente da tutti confusi. Mi è capitato di sentire che “l’amore è sempre un atto egoistico, perché sono sempre io che amo”; oppure di fronte alla morte inopinata di un ragazzo/bambino “Signore, che hai voluto chiamare a Te l’anima di questo tuo figlio…”; oppure “l’uomo riesce a fare queste performances perché ha un cervello più sviluppato”; oppure “ma l’uomo ha la ragione!”; o ancora: “questo si spiega perché l’uomo si è evoluto” e così via. C’è la semplice mera descrizione del fatto e si ha la pretesa che questo spieghi tutto.

Confondendo causa generativa e fondamento, il “come” avvenga un fatto è sufficiente per avere la pretesa illusoria di aver in mano un sapere. Il “perché” del fatto, livello fondativo e non generativo o causale, viene con disinvoltura trascurato o ignorato e tutto va avanti con semplicità, perché la descrizione del fatto è “oggettiva” e tutti la possono verificare osservando o conoscendo come gli eventi si sono susseguiti: si costruisce una superficialissima coltre di cultura diffusa e dominante, fatta di luoghi comuni, definizioni approssimative, pseudovalori acriticamente accettati, finalità relativisticamente equivalenti e contraddittorie in se stesse. La conoscenza diventa un bene da consumare, a vario titolo e per diversi motivi, e ogni nuovo contributo critico è considerato un vero e proprio attentato, un atto eversivo che andrà “democraticamente” messo a tacere o semplicemente ignorato.

Il consistenzialismo esprime una modalità della metafisica, cioè la consistenza permanente e fondante che va necessariamente presupposta al reale, la cui consistenza, viceversa, è sempre relativa ed effimera, essendo storica. Cioè, in altre parole è una consistenza inconsistente.


L’affanno quotidiano

Dopo il silenzio della notte, a parte qualche nostro esemplare vagante per diversi e non sempre buoni motivi, come la luce comincia a illuminare i nostri spazi, inizia il frenetico correre al lavoro con le nostre protesi, non uguali, perché in esse, ciascuno ha manifestato il proprio stato sociale, il proprio budget, il proprio gusto, la funzionalità di cui necessitava. Tante automobile, diverse tra loro, opinabili e poi qualche mezzo, ben più grande, riconoscibile per tutti, non più privato, ma sovrasoggettivo. Prendere quel mezzo significa non fermarsi dove si vuole, ma a fermate fisse, precisate in anticipo, in grado, per questo, di orientare il nostro muoverci e, dunque, la nostra scelta.

L’impatto iniziale è dunque chiaro: c’è un versante soggettivo ed uno oggettivo, una dimensione privata ed una definita pubblica, sociale, cioè sovrasoggettiva, dunque oggettiva, non soggetta ad interessi particolari. Anzi, questi, in quest’ultima dimensione, sono educati a far riferimento a ciò che è comune, di tutti, condiviso (come si vedrà, una forma, seppur sbiadita e arrangiata, di universalità).

In questo generale formicolio di gente che va di qua o di là, a piedi o meccanizzata, ci sono anche i nostri bambini, creature che vanno ad apprendere, ad imparare, per approdare, piano piano, faticosamente, alla dimensione della conoscenza. E anche per loro c’è una grammatica e una sintassi oggettiva, comune, condivisa, sovrasoggettiva, non opinabile, che permetterà loro, con il tempo, di avere il proprio soggettivo stile, nello scrivere e nel parlare.

La loro individualità sarà orientata e crescerà in proporzione alla loro conoscenza e adesione ai riferimenti oggettivi della lingua che andranno ad esprimere. Più ne conosceranno intimamente gli aspetti, più saranno dentro quella sovrasoggettività della morfologia della lingua, più saranno liberi di poter manifestare se stessi.

E a scuola ognuno ha la sua personalità, i suoi gusti, il proprio carattere, i suoi tempi di apprendimento, le reazioni e le emozioni e tutto il resto ricchissimo di ogni personalità. Eppure questi studenti come i docenti e tutti gli altri, diversissimi tra loro, con il proprio specifico soggettivo, sono tutte persone. Dunque, c’è qualcosa che accomuna tutti e qualcos’altro che ci distingue l’uno dall’altro. Il primo, è il versante dell’oggettività, dell’universalità, quello che ci fa persone, tutte dello stesso valore, sacre, “diritto sussistente” come le definisce Rosmini[1]. Poi, la persona ha la sua soggettiva personalità, la propria individualità che tuttavia, come valore, non potrà mai superare l’oggettività della persona. Una personalità inutile, dannosa, laboriosa, ricca o povera, bella o brutta, maschio o femmina, bianco o nero, ecc., sarà giudicata e valutata per lo specifico che è, ma la persona, indipendentemente dalla sua individuale personalità, resta inviolabile, deve essere assolutamente, incondizionatamente rispettata[2].

Ancora una volta, un versante oggettivo, universale ed uno soggettivo, opinabile, particolare. E, ancora una volta, quest’ultimo ha le radici del suo valore non in se stesso, ma nel primo versante, quello sovrasoggettivo.

Entro in un ufficio postale. Prendo un numero di accesso prenotato. In quel momento la mia individualità, chi sono, cosa penso, e tutta la mia vita, passata e presente, è messa da parte. Io sono quel numero criptico: A012. E quel numero mi rappresenta. È un riferimento oggettivo al quale devo piegarmi se voglio avere un ordinato accesso al servizio. Il celeberrimo “lei non sa chi sono io!” cede il posto al più umile e discreto “sono io A012, tocca a me!”. Far passare il soggettivo per oggettivo, come nel primo caso, è arbitrio, dogmatismo e razzismo: “io conto molto, tu non sei niente!”. Così, quell’A012 tanto importante, anzi essenziale in quel limitato spazio dell’ufficio postale, appena esco di là, non conta più nulla.

Torno ad essere me stesso con altri riferimenti sovrasoggettivi con i quali, mediante i quali, grazie ai quali ci è permesso vivere. E così le leggi da rispettare, le regole dell’educazione, ma anche le strisce pedonali, l’appartenenza di genere, le automobili che ingolfano la strada, le categorie di età (bambini, giovani, adolescenti, vecchi, uomini o donne maturi, ecc.), il menu di un ristorante, gelati o pizza che vedo in mano ai miei concittadini, il modo di guidare, i semafori, la taglia di un abito, la misura di una scarpa, uno stop o un diritto di precedenza, una o più diottrie visive, un libro, un’insegna di negozio o della metro, persino una voce di cui non si sa la provenienza, il camminare, il corpo, il bere o il mangiare e così via. Potrei elencare tutto, perché tutto ha una base oggettiva (sovrasoggettiva) ed una individuale, privata. E tutto ciò che si esprime come soggettivo è possibile solo ed esclusivamente perché pre-esiste l’oggettivo al quale ogni soggettività, consapevolmente o meno, si riferisce.

Di chi è il corpo umano raffigurato su quell’atlante anatomico? O lo scheletro visto in uno studio medico? Di tutti e di nessuno in particolare, ma ogni particolare lì ci si ritrova, lì scorge la sua parte sovrasoggettiva, quella che lo accomuna a tutti gli altri.

Si può già comprendere da queste primissime indicazioni che il sovrasoggettivo, l’oggettivo, l’universale, non è una soggettività quantitativamente allargata, o la media delle soggettività o la generalità o maggioranza delle soggettività. È altro. Si tratta della qualità che poi può avere manifestazioni quantitative diverse.

L’oggettivo, l’universale fonda, orienta e dà significato ad ogni particolare.

L’alternativa è che ogni particolare, in modo arbitrario, presuma di essere oggettivo e universale.

Le conseguenze? Ideologia, dogmatismo, dittatorialità, idolatria, ὕβρις, arroganza e superbia, an-archè. Ma, quel che è peggio, è che si ripristina la legge del più forte di stampo animale, come una vera e propria legge della jungla sublimata, solo che qui, l’opinione di qualcuno (che non vale più o meno di altre) viene imposta con la forza dei media, degli opinion leaders, di minoranze agguerrite che fanno maggioranza per una reazione meramente gregaria e pavida dei più, di inchieste ideologicamente pilotate.

Ma essendo l’universalità ineliminabile (la si può eliminare solo con un altro universale), la sua nostalgia porta, -ora però a partire dal soggettivismo- alla sola possibile pessima copia dell’universalità, la generalità, cioè all’omologazione, riduttiva, falsificante, pericolosissima sostituta dell’universalità. Le radici della confusione tra universalità e generalità (con le sue bastarde filiazioni come il consenso, l’unanimità, la maggioranza, la condivisione, ecc.) stanno qui.

Poi, in questo panorama paludoso di opinioni, in pieno caos comunicativo, dovendo emergere dei riferimenti per fornire orientamenti elementari, ecco che ne vengono eletti alcuni, posti arbitrariamente a fungere da modello e ai quali, guai a chi se ne discosta! Ed ecco le assolutizzazioni arbitrarie (perché mero prodotto storico che viene reso sovrastorico) che di volta in volta vengono sciorinate: l’aborto è un diritto inalienabile, l’evoluzione non va mai messa in discussione, la Costituzione e i Padri Costituenti diventano il nuovo Libro Sacro, ognuno ha la sua morale, in democrazia ognuno ha la libertà di fare ciò che vuole, la scienza è l’unica vera conoscenza alla quale affidarsi, ogni cambiamento è miglioramento, il progresso è continuo, un giovane deve divertirsi perché se non lo fa adesso quando lo fa?, le bellezze della natura, ognuno ha il suo Dio, tutte le religioni sono uguali, i preti dovrebbero sposarsi così capirebbero meglio i problemi della gente, ciò che è naturale è buono e giusto, gli animali sono migliori di noi e altri luoghi comuni del genere.

Al di là del basso contenuto di queste convinzioni, diffuse spesso ad arte per creare una omologazione che non disturbi e che sia sotto controllo, ciò che emerge è che in un orizzonte piatto e davvero equivalente non si può vivere. Sarebbe il contesto di quel relativismo assoluto (vero e proprio ossimoro!) che assolutizza solo l’io: il principio dell’an-archia. La presenza di anarchici è sempre diffusa, nascosta, insidiosa, pronta a esplodere. La versione politica dell’anarchia è soltanto un utilizzo ideologico, perché oggi l’anarchico non fa che amplificare al massimo grado, coerentemente, il soggettivismo esasperato dei nostri tempi, l’individualismo radicale che segna tutti, ma che per molti, come scritto, ha qualche riferimento assoluto (accettato per convinzione, per pavidità, per superficialità, per gregarismo, per disposizione di carattere, per convenienza, per interesse). Gli anarchici sono la punta dell’iceberg di una società individualista come loro. Solo che i primi non accettano compromessi, mentre i secondi, comprendendo l’impossibilità di poter vivere socialmente, accettano certi “assoluti” arbitrari.

È evidente che tali “assoluti” sono arbitrari perché imposti. E da chi? E perché? Si tratta di un legame relazionale sensibile e vulnerabile alle critiche, facilmente attaccabile politicamente ed equivalente ad altre ideologie, anche opposte a quelle dominanti.

Ciò che normalmente appare ben distinto e chiaro (da una parte le persone “perbene” e dall’altra gli anarchici) quando le cose si fanno critiche coinvolgono anche i perbenisti, che rivendicano, a diverso titolo, la necessità di cambiare drasticamente e cambiare senza serie argomentazioni se non l’utile, il benessere immediato, l’ideologia dominante o di moda, quella surrettiziamente strisciante imposta pazientemente dagli opinion leaders, sino a quando non interviene l’Europa con i suoi “valori”, imposti come insindacabili.

Come motivare certi orientamenti educativi ai nostri bambini? Su quali fondamenti e perché? Così, a tutto quanto già indicato, si può aggiungere la più arbitraria delle conclusioni: l’assolutizzazione del presente o della sua critica. I due versanti segnano il docente tradizionalista e quello progressista, secondo una identità così superficiale che fa spavento pensare che i nostri figli e nipoti siano in queste mani!

L’assolutizzazione del presente, il pensare che il proprio tempo si erge a giudice della storia è visibile in certe riduzioni teatrali e d’opera, talora anche filmiche, dove, magari nell’Antigone compaiono militari nazisti con mitra o che l’Otello diventi un fattarello di cronaca nera dell’oggi, anche se i temi religiosi attinenti la vita di Cristo sono i più appetiti

Una presunzione di fondo guida queste velleitarie banalizzazioni del testo, la loro infedeltà filologica, contestuale, come se soltanto l’oggi debba interessare. E questi registi (o scenografi o sceneggiatori) passano per impegnati, per intelligenti innovatori, per interpreti originali. È un’altra manifestazione soggettivista imposta come oggettiva. Mera anarchia e dogmatismo idolatrico.

In questo contesto caotico chi poi dovrebbe fornire, per mestiere, la via dell’universalità e del superamento dell’opinabile soggettivo, diventa un ulteriore fattore di confusione. Da anni siamo alle prese con un Pontificato impegnato socialmente e politicamente, più Barabba che Cristo, che piace alla gente (come già all’epoca scelse Barabba), ma che non provoca conversioni. In effetti, conversione a cosa? A finalità sindacali e politiche? A umanitarismi filantropici di gregarismo e solidarietà animale? E che bisogno c’è di essere cristiani per tutto questo?

Quando leggo «la misericordia non è un privilegio del credente. Ben lo sapeva Cristo allorché narrò la parabola del buon samaritano»[3], trovo, purtroppo, conferma di come per secoli non si sia fatto capire il monito di Gesù: «Da come vi amerete riconosceranno che siete miei discepoli” (cfr Gv 13,35)».

È davvero la stessa cosa come asserisce Lombardo-Radice? E come crede lo stesso attuale Pontificato?

Possiamo confondere filantropia e carità? Amore orizzontale (dunque relativo) e amore fondato verticalmente (e dunque assoluto)? Possiamo confondere ciò che, affidato alla linea della storia è destinato a mutare, a ricevere varianti soggettive e a finire con ciò che, come assoluto, ci pre-esiste e di cui siamo umili partecipi e che non finirà mai, perché ben oltre ciascuno di noi? Davvero possiamo confondere lo slancio verso l’altro per mero gregarismo animale con lo slancio di chi, consapevolmente, sa che l’altro è immagine dell’assoluto? Davvero si può pensare che trattare l’altro come membro della stessa specie e quindi da richiedere solidarietà (come fa qualunque animale gregario) sia la medesima cosa che trattare l’altro, anche il nemico, come fratello perché figlio dell’unico Dio?

Per chi non crede amare l’altro essendo basato storicamente, cioè sul relativo, sul transeunte, sull’effimero, sul soggettivo, vale quanto il suo contrario: niente può sorreggerne autorevolmente la superiorità di valore se non l’utilità (criterio pericolosissimo e reversibile nel suo contrario, se in condizioni diverse) o la istintività naturale (che nulla ha dunque di umano, ma che è semplicemente una solidarietà animale di specie). Se l’amore, la misericordia o la tolleranza o qualunque altro tipo di valore che pretende di essere “positivo” si regge sulla relatività storica, soggettiva e opinabile, reversibile e interscambiabile, tutto questo vale esattamente come il suo contrario, il vivere per il proprio tornaconto, per il proprio esclusivo piacere, per se stessi.

Un cristiano non ha questa libertà. Per definirsi tale, essendo per lui l’amore un assoluto, non ha alternative. DEVE amare SE vuol essere un cristiano. Ho usato la parvenza kantiana di un imperativo per dar forza all’affermazione. Ovviamente l’amore non è un dovere, ma per arrivare davvero ad amare, bisogna educarsi ad esso e inizialmente lo è, è un mero dovere. Dunque, «da come vi amerete riconosceranno che siete miei discepoli» diventa davvero un’identità unica. Amare il proprio nemico significa giungere a una educazione all’amore che perviene sino alla estrema alterità terrena, il nemico. Oltre, umanamente, non c’è alcuno. Amare il proprio nemico, significa niente altro che esser riusciti ad amare ogni uomo. L’altro da amare non si sceglie, neppure nella coppia. L’innamoramento sceglie per noi e di lì comincia l’educazione a fare dell’altro il nostro fine, la nostra gioia, il senso della vita, la felicità, il piacere, il valore. Solo così l’amore non ha alternative, non “finisce”, perché lo si è ancorato all’assoluto, non al relativo.

Quando si sente dire “l’amore finisce come ogni cosa” è vero se guardiamo nella prospettiva storica. Ma l’amore non esiste perché noi lo pratichiamo, non ha i nostri limiti, le nostre cadute, i nostri fraintendimenti. L’amore ci pre-esiste, è Amore che è a dispetto di ciascuno di noi e del quale noi possiamo soltanto essere partecipi, senza fare come “La volpe e l’uva” della celebre favola di Esopo: se non arrivo a prendere l’uva, dico che l’uva è acerba. No, l’uva è buona, sono io che non riesco ad arrivarci. Se non riesco ad amare e se l’amore per me “finisce”, non significa che l’amore finisca, ma che io non sono stato capace di amare.

È umano? Certamente è umano. Ma non facciamolo passare per norma.

L’amore non è neppure questione di fortuna. Ho sentito più volte dire “ma tu sei stato/a fortunato/a a trovare l’uomo/la donna giusti. Non si tratta di scegliere. Quale sarebbe il criterio? Se è l’io, l’altra persona è accettata e amata quanto più mi rassomiglia o mi è affine o ha “molte cose’ in comune con me”. Cioè sto cercando qualcuno che mi assomigli molto: il modello è Narciso, che si innamora di se stesso.

Se il criterio è il “tu”, allora, quel/la tu di cui mi sono innamorato/a diventa il mio fine e, di conseguenza, non ci può essere rottura, separazione, divorzio o altro, perché è il mio assoluto.

E come “amare il proprio nemico” fungeva da estrema alterità e misura delle proprie capacità di amare, riuscire ad amare, nella relazione di coppia, ciò che ritengo i suoi difetti è la chiave di volta che impedisce ogni finitezza al rapporto di amore. Ogni rottura di rapporto non può che avere come riferimento assoluto l’ego: non mi piace più, non mi appaga, non lo/la amo, ecc. Se il criterio fosse davvero l’altro, quale rottura ci sarebbe?

E in questo quadro di confusione dove si parla di amore ma in realtà conta soltanto l’ego non possiamo che avere conseguenze di una “civiltà” che lascia che l’amore si esplichi “naturalmente”, e che, per tale motivo, non è e non viene educata all’amore. E così: stupri (trattare l’altra come merce da consumo per l’io, come avviene in natura, dove lo stupro non esiste perché il maschio ci prova sempre ed è la femmina che stabilisce i tempi), violenza sulle donne (in un contesto di “valori” animali il maschio fa prevalere in certi casi l’unica sua meschina risorsa animale, naturale, cioè la forza), guerre (la solita rivendicazione del proprio territorio, del proprio “spazio vitale” come fa un qualunque animale); razzismo (guai se un membro di un’altra specie entra nel territorio proprio o fa cose che sono ascritte alle proprie prerogative. Provate a mettere una formica nera fra formiche rosse o viceversa, un nuovo membro di specie in un gruppo consolidato, dove persino un cucciolo viene respinto…); aborti (l’altro non è ancora altro, ma “quasi un niente” di cui posso sbarazzarmi perché ha invaso il mio corpo in modo inatteso, imprevisto, non-voluto, indesiderato, inopportuno, ecc. E’ una mia proprietà e ne faccio quello che voglio);

Fondamento del fondamento


Hegel ha rifiutato una riflessione del genere, questo “salir sulle proprie stesse spalle” che ha giudicato un inutile sforzo da “anima bella” che considera ancora l’Assoluto come un qualcosa dall’uomo diviso e lontano. Un escamotage superficialmente dialettico (perché autoreferenziale, volendo confermare il sistema già nelle premesse) che non soltanto ha ignorato la metafisica (da lui poi ridotta a logica), ma anche -e questo non gli si può imputare perché è oblio generale e diffuso- il perché stesso della metafisica che, a ben guardare, avrebbe potuto interessarlo. Hegel ha constatato questa tensione metafisica, ma, come su accennato, invece di problematizzarne il significato, ha semplicemente negato a questa il giusto atteggiamento filosofico, screditandola in quanto impantanata nella Spaltung, in quella scissione tra finito e infinito che rappresentò un vero e proprio assillo generazionale e che egli intese risolvere definitivamente.

E perché mai la scissione dovrebbe essere considerata un problema da risolvere e non, viceversa, un indizio spia di risposta? Non su un piano psicologico, che Hegel ha espresso filosoficamente in modo fenomenologico, mediante le figure della coscienza, e che gli ha indicato una necessità, appunto psicologica e soltanto dopo filosofica, di annullare questa distanza lacerante tra finito e infinito, ma come condizione ontologica, dove la relazione si manifesta come scissione e che però impone la riflessione sull’essenza problematica dell’uomo in ordine al suo significato.

Per assurdo questo punto si è reso evidente soprattutto in Marx e nel suo concetto di alienazione.

Paradossalmente, perché è vero che l’uomo è intimamente alienato, ma alienazione che non chiede la descrizione della sua causa generativa (ipotetica), cioè di come essa nasca e si sviluppi, ma che reclama l’attenzione filosofica sull’elemento semantico: perché in tutto il mondo organico naturale l’uomo è l’unico che può e sa alienarsi? Alienarsi significa scegliere consapevolmente di porre il proprio significato in alienum, perché è consapevole che il proprio significato è in alieno. E lo sa, non lo subisce per istinto. Se accetta il gregarismo per istinto, non ha alcun merito di mostrare solidarietà e sollecitudine per l’altro, in quanto sarebbe “necessità” interna alla specie umana. È invece una scelta, cioè prodotto di libertà e dunque di consapevolezza, che potrebbe anche scegliere una via diversa. Nel momento in cui ci si volge all’altro come proprio significato, si sta dicendo che trascendersi è il senso della vita e che questo, il significato, il fondamento, è oltre la mia persona, anche a costo di penalizzare i miei interessi, i miei bisogni, persino la mia vita. Come può questo anomalo animale che è l’uomo, “distrarsi” dai bisogni naturali, dalle necessità quotidiane, dalle finalità orizzontali che dovrebbero competergli, per alludere, invece, ad altro, ad oltre la natura, oltre i bisogni materiali, le necessità quotidiane, le finalità meramente orizzontali? Come non problematizzare questa innaturale risposta umana e solo umana?

Perché non ci sia equivoco, sarà meglio connotare questa essenza ontologica, né come alien-azione, né come alter-azione, ma semplicemente come rel-azione, dove l’alter non riveste più un significato negativo.

Perché ci sia scissione, che verrà qui tradotto in termini sciacchiani come squilibrio, ci deve essere un’asimmetria, una non-rispondenza, un corto circuito ontologico, un dislivello. Si è di fronte a qualcosa che soltanto l’uomo è.

Sotto l’influsso divulgato della metodologia scientifica e per lo stesso rasoio di Ockam che cerca la via più breve per il pensiero, la ricerca delle costanti è l’avvio di ogni considerazione comune, per cui tutto ciò che non vi rientra riceve un’etichettatura tale da poter essere sotto controllo, anche a costo di banalizzarla. Ciò comporta che, senza neanche accorgersene, noi usiamo semplificare ed unificare per meglio dominare l’oggetto di conoscenza. È una forma di assimilazione che omogeneizza e, per questo motivo, semplifica la strada del sapere. Così, ad esempio, le leggi della fisica non hanno interessa di quali oggetti si stia trattando: l’astrazione della legge è indifferente se appartenga a questo o a quell’oggetto. La caduta dei gravi è una legge che interessa la piuma o l’uomo stesso che cade. Soltanto perché la realtà è stata quantificata, numerata, essa è resa possibile e passibile di costanti, in quanto ciò che è quantitativo è circoscrivibile e limitabile, in quanto si assegna alla realtà diveniente il vestito astratto, numerico, immutabile dei numeri, prodotto del nostro spirito e una volta che la natura è rivestita di una veste da noi datale, è umanizzata e controllata dal reticolato in cui l’abbiamo accolta e tradotta. Non è la differenza a costituire ed orientare lo sguardo e l’analisi sulla realtà, ma l’identità. In questo senso c’è una sottintesa autoreferenzialità che permette di antropomorfizzare gli animali, di animalizzare l’uomo, di integrare, unire, confondere, perdendo ogni specificità. Bene fece Hegel a stroncare l’Identità schellinghiana, una integrazione confusa dove tutto si perde nel tutto senza che si sappia chi, nel tutto, ci sia davvero con il proprio differire.

Ogni identità è aproblematica, sfugge per sua legge intrinseca al problema, alla criticità. Ciò che è uguale è quel che è. È una scelta di comodo, che annacqua i problemi, quando non li considera neppure.

Se osservo nella prospettiva della differenza è perché essa emerge, si fa presente e si fa presente non per essere annullata ma per essere compresa, considerata e valorizzata.

Mediante una filosofia regressiva, se l’uomo fa storia, cultura, edifica civiltà, sceglie e costruisce secondo quanto più in quel momento gli aggrada, se varia le risposte nel tempo, se trasforma l’ambiente e manipola la natura (al momento vediamola in termini positivi), è perché, a differenza di tutti gli altri organismi, questo strano ente che abita sulla terra, è libero. Ed essere libero significa, di per sé, non appartenere alla natura, dove nessun organismo può permettersi di scegliere, ma solo di adattarsi in modi opportuni alle diverse circostanze, confermando la medesima risposta di specie.

Essere libero significa che la risposta deve darla l’uomo, perché la natura non provvede. Essa ci lascia sguarniti. Non è la natura a farci liberi, ma è esattamente il contrario: la sua assenza, l’assenza delle sue leggi necessarie, ripetitive ed uguali e ripetute nel tempo, c’impone di rispondere e come tale, di esplicare la nostra libertà. La libertà è estranea alla natura, le è dannosa, è anomalia innaturale che non può trovare nella natura la sua origine, la sua spiegazione, la sua causa, il suo fondamento. La libertà è il nome che diamo all’obbligo che si ha di tamponare e surrogare e creare risposte alle quali la natura non ha risposto, ha taciuto, si è resa inadempiente, incapace, inadempiente, impotente.

Come intervenire per rispondere, se non prendere atto che possiamo farlo noi, scegliendo fra tante possibilità? E il pensiero è il mezzo, lo strumento, che, ovviamente, non è stato partorito dalla natura, visto che le sue modalità di “azione” confermano di essere al di là delle necessità naturali. Il pensiero non è l’evoluzione del non-pensiero degli altri organismi, né la conseguenza di un cervello più complesso: la causa generativa non va confusa con il fondamento.

Questa inutile complicazione, -inutile dal punto di vista naturale e, oggi, possiamo anche dire, dannosa-, non è figliolanza della natura. Dalle inadempienze della natura che rinviano a una dimensione altra che, per ora, non è chiara, emerge il pensiero che è diretta discendenza di quella dimensione altra (altra in quanto non identica, ma differente dalla natura).

Il divenire che è la vita, non ha in se stesso il fondamento, ché altrimenti, divenendo anch’esso, fondamento non sarebbe[4]. La dimensione altra (altra dal divenire) è il fondamento della vita come divenire. Il divenire condanna alla precarietà che è (in quanto diviene appunto) ogni suo elemento. Se ci si illude di trovare in esso un qualunque senso, sarà proprio il divenire a cancellarlo, nel suo dive-niente. È una riflessione che investe, fra l’altro, ogni forma vecchia e riattualizzata di storicismo.

Ogni ricerca di fondamento del divenire della vita è oltre e altro da quel divenire ed obbliga a considerazioni metafisiche sulle quali poi, se si vuole, si potrà anche dare il proprio diniego, ma che, come riflessione, non può essere elusa.

Ma questo problema, che investe e coinvolge una riflessione sull’intera vita umana, non è preoccupazione animale, né ieri, né oggi, né domani. Anzi, da un punto di vista naturale, animale, sarebbe una inutile complicazione. Per questo ci sono nostri simili che dimenticando la loro identità di uomini, si sbarazzano del problema centrale che li fa uomini, definendo queste domande come astruse, inutili appunto, che non possono e non devono far perdere tempo. Sono nostri simili, è vero, ma solo sul piano delle cause, essendo generati da umani. Sul piano semantico, sono e vogliono essere solo animali. Il loro modello è vivere, vivere per vivere, cercando e trovando nella vita le ragioni della vita. Come ogni organismo vivente, animale o pianta che sia. La vita per la vita può essere definita in modo più chiaro come sopravvivenza. E, da questo punto di vista, tra un verme e l’uomo, non passa alcuna differenza.

La differenza impegna, responsabilizza, mette in crisi, perché supera ogni autoreferenzialità. L’identità è animale, la differenza è umana. E lo è non per mero accadimento, ma per scelta consapevole, perché come uomo, in quanto libero, posso persino contraddire alla libertà ed abdicare da essa scegliendo l’identità, ciò che la natura persegue con le sue leggi necessarie. Tutti gli uomini dormono, mangiano, invecchiano, ecc, secondo le leggi naturali, ma ogni uomo pensa “a modo suo” per la presenza della non-naturale libertà.

E se fossimo figli della sola natura, perché la libertà? Perché questo inutile fardello di responsabilità e di possibilità anche di errore e male? Perché questa sterile complicazione della realtà e il travisamento stesso delle millenarie leggi naturali? Non avrebbe potuto, questa natura provvidente, dare anche a noi la risposta appagante e sicura dove tutti approdano senza litigi, controversie, discussioni o contrasti? Ha preferito tacere “obbligandoci” alla libertà, possibile soltanto perché in noi certe domande non sono in linea, né omogenee allo status naturalis, mostrandosi “naturalmente” irrisolvibili, estranee alla mera sopravvivenza.

Che splendida evoluzione!

La natura dovrebbe vergognarsi di aver elevato a tanto scempio un suo figlio prediletto!

Ma lo scempio è nato dall’ignoranza e dalla confusione di trattare l’uomo come animale, laddove egli non è tale. Ed è per questo che ha ammazzato, invaso, preso possesso, guardato solo al proprio tornaconto ed interesse, per questo le lotte di territorio (da noi chiamate guerre), per questo gli stupri (inesistenti in natura), per questo “la legge del più forte” a tutti i livelli. E così l’efficienza, l’utilitarismo, la funzionalità…tutti valori animali. Se un elefante ha diritto di mangiare e spostandosi di devastare un territorio, perché l’animale uomo non dovrebbe farlo? Se un clan di scimpanzè ha bisogno di un altro territorio ed incontra un altro clan di simili ed ha il diritto di accaparrarsi quella terra, arrivando ad azzannarsi, dilaniarsi (nel vero senso della parola), annientando l’altro gruppo, perché l’animale uomo, così vicino allo scimpanzè (non è un suo antenato?) non dovrebbe farlo? Se una formica rossa incappa in una onda nera di formiche nere e viene uccisa e fatta a pezzi, questa sorta di razzismo animale perché non dovrebbe competere anche all’animale uomo? Se i deboli o i piccoli diventano facili prede di animali più forti, perché l’animale uomo non dovrebbe comportarsi nella stessa maniera? Se un organismo naturale si fa parassita di un altro organismo, quale è il motivo per cui l’organismo animale uomo non dovrebbe poter diventare un parassita?

Non ci si salva affermando che l’uomo ha quel pensiero che lo dovrebbe portare ad un comportamento più responsabile e differente. Perché si introduce come dato di fatto ciò che è problema: se questo pensiero deve rettificare un comportamento animale altrimenti permesso dalle leggi naturali, da dove scaturisce questo pensiero? Da dove emerge quella libertà che dovrebbe renderci più responsabili e capaci di staccarci dai meccanismi necessari della natura?

Evidentemente pensiero e libertà non hanno un fondamento naturale. Solo in questo caso possono creare un’alternativa alle necessità imposte dalle leggi naturali. La loro scaturigine è sorretta anche funzionalmente (se si vuole) dal dislivello che sussiste tra l’insieme delle domande, richieste, necessità e bisogni umani e risposte assenti o insufficienti che la natura propone. Dobbiamo sopperire a questo deficit di natura e possiamo farlo solo attingendo da qualcosa che, non appartenendo alla natura, è in grado di assolvere alle mancanze della natura, essendo invece con-forme alla diversa natura di queste domande. Si tratta infatti di domande che eccedono la natura: la risposta o il tentativo di rispondere non può che appartenere a strumenti che eccedono la natura (pensiero e libertà).


Libertà

Questo dislivello, quest’asimmetria intima essenza ontologica è di per sé essenza metafisica. Se altro non fosse presente, se tutto fosse omos, identico a sé, non ci sarebbe scissione, squilibrio, non avremmo alcun dislivello da colmare. Si possono utilizzare i binomi che si vogliono: stimolo-reazione; domanda-risposta; quesito-soluzione, ecc. Se il primo elemento fosse esaurito dal secondo, la risposta sarebbe in-scritta in ogni uomo, come è in-scritta in ogni animale e pianta. Non ci sarebbe libertà, ma semplice espressione, manifestazione esterna di quanto è già in nuce presente nell’organismo. Tutti avrebbero la stessa risposta in quanto l’origine di essa sarebbe la medesima per tutti. Funzionalmente, cioè naturalmente, è la regola aurea di ogni vivente. Ma per l’uomo le cose non stanno così. Non c’è adeguazione tra le domande e le risposte. La natura non provvede l’uomo di risposte. Non c’è una risposta unica, senza discussione, insindacabile, la perfetta risposta che la natura fornisce per la sopravvivenza. Non nascerebbe alcun problema, ma semplicemente ci potrebbe essere la diversità superficiale della modalità di esecuzione della risposta, per tutti uguale. Dunque, se l’uomo avesse in sé, per natura, ogni risposta alle sue domande (a qualunque titolo fossero fatte), tutti darebbero la medesima risposta di specie e non ci sarebbero problemi, ma semplicemente inadeguatezze da risolvere nel tempo. L’uomo, queste risposte non ce l’ha. E non soltanto per domande complesse e articolatesi nei secoli, ma anche per mere esigenze di sopravvivenza. L’uomo manca di risposte e se le deve inventare. Non sopravvive per la forza delle risposte della natura, ma per la faticosa ricerca che lo spirito umano ha operato pur di trovare la soluzione più idonea. E trovatala, ci si accorge che altri hanno ritenuto più idonea una risposta del tutto differente. E questo, che consideriamo già “storia”, “cultura”, viene diffusamente considerato l’inizio, la base dalla quale avviare ogni considerazione successiva. Ciò che va trascurato è che, dietro le quinte, c’è l’elemento più importante: perché è sorto il problema? Perché si è costituita una condizione tale da spingere l’uomo a far emergere una mediazione, la mediazione tra domanda e risposta, che nessun altro organismo possiede? La mediazione è il pensiero e questo è radicato in quella libertà che ha riconosciuto il problema, cioè ha colto l’assenza, ha individuato la mancanza, ha intercettato l’insufficienza..

Ma non si può partire dal negativo (Agostino) perché non si riconoscerebbe come negativo. Il negativo non è all’inizio, cioè il problema non è all’inizio. Esso è già conseguenza e, come tale, ha implicita nella domanda la risposta che richiede. Lo squilibrio, infatti, è dato dal fatto che un contenitore finito, per così dire, ha in sé un contenuto infinito, che lo eccede e che, proprio eccedendolo, ci permette di riconoscere l’assenza.

Questo significa semplicemente che la domanda (le domande) eccede e travalica ogni umana risposta, prevedendone indefinite precisamente in quanto nessuna è in grado di esaurire la domanda. Tanto è accentuato questo squilibrio, quanto l’uomo è essenzialmente libertà. Dunque, la natura dell’uomo è qualcosa di ben diverso e lontano dalla natura della natura.

Nessun altro organismo animale o vegetale è libero: ognuno è ciò che deve essere e che il sistema natura gli impone: la necessità non prevede mediazioni (riflessioni, valutazioni, giudizi, scelte) e va subìta per quello che è.

Magari si legge a lungo un autore, lo si ama, ma la sua affinità sembrerebbe a volte più appartenere all’empatia che ad una corrispondenza del logos. Così, senza aspettarmelo, leggendo quasi distrattamente alcune pagine pirandelliane dai Quaderni di Serafino Gubbio operatore, improvvisamente m’imbatto in affermazioni che con parole nuove mi dicono di idee mie, o forse sarebbe meglio dire “a me giunte ed accettate consapevolmente”. E così leggo dal primo quaderno:


Restai sbalordito. Ma per poco. Ho anch'io - inestirpabilmente radicata nel più profondo del mio essere - la stessa malattia dell’amico mio.

La quale, a mio credere, dimostra nel modo più chiaro, che tutto quello che avviene, forse avviene perché la terra non è fatta tanto per gli uomini, quanto per le bestie. Perché le bestie hanno in sé da natura solo quel tanto che loro basta ed è necessario per vivere nelle condizioni, a cui furono, ciascuna secondo la propria specie, ordinate; laddove gli uomini hanno in sé un superfluo, che di continuo inutilmente li tormenta, non facendoli mai paghi di nessuna condizione e sempre lasciandoli incerti del loro destino. Superfluo inesplicabile, chi per darsi uno sfogo crea nella natura un mondo fittizio, che ha senso e valore soltanto per essi, ma di cui pur essi medesimi non sanno e non possono mai contentarsi, cosicché senza posa smaniosamente lo mutano e rimutano, come quello che, essendo da loro stessi costruito per il bisogno di spiegare e sfogare un’attività di cui non si vede né il fine né la ragione, accresce e complica sempre più il loro tormento, allontanandoli da quelle semplici condizioni poste da natura alla vita su la terra, alle quali soltanto i bruti sanno restar fedeli e obbedienti.

[…]. Sa quello che gli è necessario e non s’impaccia d’altro perché il bruto non ha in sé alcun superfluo. L’uomo che l’ha, appunto perché l’ha, si pone il tormento di certi problemi, destinati su la terra a rimanere insoluti. Ed ecco in che consiste la sua superiorità! Forse quel tormento è segno e prova (speriamo, non anche caparra!) di un’altra vita oltre la terrena; ma, stando così le cose su la terra, mi par proprio d’aver ragione quando dico ch’essa è fatta più pe’ bruti che per gli uomini.

Non vorrei essere frainteso. Intendo dire, che su la terra l’uomo è destinato a star male, perché ha in sé più di quanto basta per starci bene, cioè in pace e pago. E che sia veramente un di più, per la terra, questo che l’uomo ha in sé (e per cui è uomo e non bruto), lo dimostra il fatto, ch’esso -questo di più- non riesce a quietarsi mai in nulla, né di nulla ad appagarsi quaggiù, tanto che cerca e chiede altrove, oltre la vita terrena, il perché e il compenso del suo tormento. Tanto peggio poi l’uomo vi sta, quanto più vuole impiegare su la terra stessa in smaniose costruzioni e complicazioni il suo superfluo.


La libertà è il segno visibile di una non appartenenza alla natura, consapevolezza che da sempre accompagna la storia della filosofia, ma che è stata assunta acriticamente come inizio senza chiedersi cosa significasse. Si è liberi perché non si è totalmente natura: la natura non tollererebbe la natura, vero scompiglio delle sue necessità ripetute da millenni. . D’altra parte l’escamotage tautologico dell’evoluzione qui è ancor più evidentemente assurdo: la necessità non evolve in libertà, perché è la necessità che permette alla natura di sopravvivere. Noi, con la nostra libertà (mal guidata) la stiamo distruggendo e anche se avessimo avuto il senno di rispettarla, precisamente la libertà avrebbe avuto in se stessa la possibilità del contrario, come poi effettivamente sta avvenendo. E questo connota la libertà come antinaturale, effettualmente o potenzialmente poco importa. La libertà sorge da un’assenza, dall’assenza di risposte da parte della natura di fronte a domande che sono presenti dentro l’uomo: in altre parole di fronte ad una qualunque situazione il nostro comportamento non è prescritto, non sappiamo come e cosa rispondere e, prendendo in considerazione la situazione, decidiamo, cioè scegliamo, operiamo secondo libertà, esplicando in tal modo una varietà multiforme di risposte precisamente perché non prescritte, cioè non inscritte nel sistema naturale che ha imposto la/le domanda/e. Se la natura avesse guidato la risposta dell’uomo avrebbe imposto un’unica risposta, necessaria per l’intera specie, così come avviene per un qualunque altro organismo.

L’uomo è, dunque, metafisico, cioè ha una doppia natura, è un anfibio, condivide una serie di bisogni naturali ai quali è sottomesso (senza libertà, dunque), ma non è questa serie di bisogni che lo fa essere uomo, che lo connota, che lo specifica e lo distingue, facendo manifesta la differenza.

Far passare l’uomo per un animale evoluto, cioè un animale che ha amplificato il valore dell’animalità, portandolo avanti come tale, è una vera e propria truffa culturale: l’elemento evoluto dell’uomo è, da un punto di vista naturale, una forma di involuzione, di inutile complicazione e di potenziale danno alla natura, potenzialità, peraltro, -non mi stanco di ripeterlo per farlo diventare un elemento di riflessione diverso dal solito-, purtroppo realizzatasi. Non si possono confondere due grandezze non omogenee e contraffacendo la realtà, vengono confuse e si spaccia la via semplice e falsa di un animale evoluto. Dunque tutti i danni che stiamo procurando alla natura sarebbero le conseguenze di questa evoluzione? È per questo che ci viene chiesta una vita più sorvegliata, più “naturale”, rispettosa della natura, che non sprechi energie, che rispetti l’ambiente? A un animale evoluto deve essere chiesto questa ovvietà? Cioè di comportarsi come un animale non evoluto, che metta da parte le dannose complicazioni dovute all’evoluzione?

Ma non è evidente la goffaggine in natura di questo anomalo animale? Non se ne vede, come ammoniva Pirandello, l’estraneità, la distonia, la differenza?

E infatti, la libertà, cosa c’entra con le leggi naturali?

L’ambiguità semantica con cui si utilizza il concetto di “evoluto” è persino paradossale. Non ci si chiede “evoluto rispetto a cosa”, ma si assume lo stato attuale umano come indiscutibilmente superiore ad ogni altro animale e si cerca di far rientrare questo emergere nella continuità animale, parlando di evoluzione. In questo modo, castrando la differenza che segna la superiorità umana, la si può far passare per mera complessità animale, dimenticandosi per strada il concetto di “evoluto”. Il termine di riferimento, infatti, non può essere pre-assunto, antropocentrico, pre-giudiziale. Se parlo di evoluzione naturale devo vedere e verificare e riscontrare sperimentalmente, effettualmente che la natura e l’animalità, con l’uomo, siano amplificati, portati a valore più alto (cioè più naturale e più animale), non contrabbandare l’evoluzione come giustificazione della superiorità insindacabile dell’uomo che deve essere fatta rientrare nei canali della normalità naturale. Una sedia o un tavolo di legno non sono l’evoluzione dell’albero, né di una pietra che poteva servire come sedile o come base. Per fare la sedia e il tavolo, ho distrutto (non portato ad evoluzione!) un elemento della natura assegnandogli delle forme inesistenti in natura. L’albero, se potesse parlare, urlerebbe la mia violenza e l’atto innaturale che ho compiuto.

Una centrale nucleare non è l’evoluzione energetica compressa nei nuclei degli atomi: non c’è alcuna valorizzazione naturale della natura, ma una sua aggressione secondo modelli solo umani, per propri scopi e bisogni.

Il biossido di carbonio è un’evoluzione dell’aria naturale? Ne è un’amplificazione di valore e utilizzo secondo natura?

Se ho davvero rispetto della natura non vado ad assumere surrettiziamente l’uomo e il suo mondo come centro e valore e criterio di giudizio. Più che una tesi scientifica, l’evoluzione sembrerebbe la giustificazione di una superiorità, quella umana, che si vorrebbe naturale e che naturale non è. Così, stranamente, questa evoluzione naturale oggi è un problema per la natura, come se questa avesse prodotto e fosse responsabile dei danni che le vengono recati. E non si dica “ma è l’uomo ad essere responsabile!”, perché l’uomo -questo viene insegnato e dichiarato-, è natura, è animale fra animali e come non posso accusare un gruppo di elefanti di distruggere giornalmente tonnellate di vegetazione, perché è nella loro natura, come posso accusare l’uomo della sua capacità evolutiva, anche se reca con sé distruzione costante?


Assenza

L’assenza segna ogni ente, in quanto limitato, finito, precario, transeunte. È assenza a vari livelli, così come la nostra finitudine è sperimentata a vari livelli. Ma non ogni assenza è identica. La limitatezza appartiene anche a piante e animali, ma questi organismi sono perfettamente adeguati nella loro precarietà e sono quello che devono essere secondo il proprio statuto. Per essi ogni assenza, ogni mancanza li definisce, li connota, li fa essere quella specie con quelle caratteristiche e quelle particolari proprietà. Noi li definiamo precisamente in base a quelle loro caratteristiche, che ne evidenziano limiti e qualità, specificità irreversibili. Paradossalmente le assenze di ogni organismo ne descrivono l’identità.

L’assenza di libertà permette alla limitatezza di ciò che ogni organismo è, di definirsi perfettamente nella propria limitazione, di essere compiutamente appagato dal proprio esser ciò che è: l’assenza non costituisce problema, perché non viene percepita alcuna alternativa, mancando l’organismo vegetale e animale, di libertà. La loro necessità secondo natura compie perfettamente, nel limite di ciascuno, secondo la specie di appartenenza, la propria identità. Ognuno è al suo posto, non trasforma, non manipola, ma costantemente si adegua, si adatta, pur di sopravvivere e conservare nel tempo ciò che è, senza cambiamenti di identità o status.

È precisamente questo che viene richiesto oggi all’uomo, responsabile di devastazioni e inquinamenti di ogni genere. Viene richiesto di essere più vicino, il più possibile, al modello animale, rinnegando una specificità che, pur essendo andata a fini deviati (avrebbe dovuto ricevere bel altro orientamento valoriale!), evidenziava la sua differenza. L’uomo deve invece connotarsi sempre più come animale, integrato nei processi naturali, nutrito di prodotti solo naturali, figliol prodigo di una natura che, tradita dalla sua differenza, gli si sta rivoltando contro.

Malgrado questo, la stupidità diffusa continua ad alimentare un’uguaglianza tra animale e uomo (ora innalzando l’animale al valore dell’uomo ora abbassando questo a livello animale) che è solo foriera di danni, irreparabili ed irreversibili, oltreché di contraddizioni culturali, valoriali, educative.

L’animale e la pianta rappresentano l’assenza compiuta. Perfetti (“compiuta”) nel loro limite (“assenza”). Sono organismi che hanno e sono ciò che devono essere ed avere. Compiuti nel loro limite. Per questo la loro unica ragion d’essere è conservarsi, perpetuarsi, procreare; per questo motivo la eleggiamo come “legge di natura”, perché si conserva ciò che è compiuto e in sé perfetto. Perfetto non significa assoluto. Una penna che scriva è perfetta; una sedia comoda è perfetta; un occhiale da vista che ci permetta di supplire il nostro deficit visivo è perfetto. Animali e piante, questo sono. Per la natura, il fare storia, il produrre cultura è indice di insoddisfazione per la natura, di giudizio di inadempienza nei confronti della natura. Non ci sarebbero (come per animali e piante) se ci fossero state risposte adeguate da parte del “sistema” naturale. Dal punto di vista della natura, ogni animale o pianta è più perfetto di noi. Non ambiscono ad altro, non tendono ad altro, non vogliono altro che conservarsi per ciò che sono.

Il loro essere è perfettamente limitato e appagante nei propri confini. Il loro habitat è, secondo la umana definizione, un habitat incontaminato, sino a quando non vi giungerà l’uomo, inevitabile personificazione del disastro, dello squasso, di ogni contaminazione. Con l’uomo la natura per definizione non è più incontaminata.

Ma perché non ci si interroga su questa conseguenza?

Perché non prendere realisticamente atto che con l’uomo si è di fronte ad un “animale mancato”? Ad un organismo anomalo? Che “sulla terra l’uomo è destinato a star male?”. Ad un animale contrassegnato dal deficit naturale e costretto a porre riparo in altro modo a questo deficit?


Assenza problematica

Il problema è già la risposta. Esso cela ciò che la risposta vuole. Problematizzare non è l’inizio. O meglio lo è come causa genetica delle innumerevoli possibilità che si concretizzano come storia, ma non lo è come fondamento. Il fondamento è il perché che si genera. Perché l’uomo chiede, domanda, problematizza? Domandare significa già aver messo in discussione ciò che c’è, averlo superato perché giudicato. E in quel chiedere, presente quella superiorità, è adombrata giàla risposta. Non alla domanda, ma al fondamento della domanda. Perché si domanda?

“Quanto alla trascendenza, sappiamo -ed è anche questo un riflesso elementare- che è strutturalmente connessa al problematicismo; e da parte di Ugo Spirito ne avevamo constatato l’ammissione. Senonché c’è da considerare, in primo luogo, che codesta generica trascendenza è bisognosa di determinazione”[5].

Esiste una consistenza che è implicita e che è più forte, di frequente, di quella esplicita, anche se quest’ultima seduce e abbaglia maggiormente, rendendo pigramente acritici sull’ulteriore. Un esempio di consistenza implicita sorregge il mio CV, dove non c’è la pretesa di circoscrivere l’alterità trascendente che è Mistero, ma, fatti forti della dimostrazione rigorosa e selettiva, spietatamente selettiva, del di qua, del terrestre, dell’immanenza, l’ulteriore trascendente ne risulta implicitamente dimostrato, come senso fondante, giacché il senso non può essere interno al divenire che ne ha posto la problematizzazione. L’alterità è il fondamento implicito dell’esplicito accuratamente definito.

Questa consistenza implicita manca ad esempio al buddhismo. La lucida e rigorosa denuncia di insensatezza della vita, dolore e precarietà, effimero ed illusione, non riesce ad implicare la necessità di un Redentore, ma soltanto la presa d’atto che l’unica via d’uscita e l’annientamento, uscire dai cicli della esistenza e non essere più definitivamente. Il Qoélet denuncia la medesima condizione del buddhismo e lo fa con la stessa coerente durezza e lucidità. Ma la sua denuncia è una consistenza implicita, che, precisamente per questa denuncia e in virtù di questa denuncia, attende il riscatto, il senso redentivo.

È la differenza tra una sedia e una sedia vuota. A livello di rappresentazione, di esperienza, di visibilità, sono la medesima cosa. Tanto che se volessi disegnare una sedia e poi una sedia vuota, non potrei che disegnare la stessa immagine. Ma concettualmente non è la stessa cosa. La prima è quell’oggetto, con le sue modalità d’uso; la seconda è il medesimo oggetto con le medesime modalità d’uso che richiama tuttavia una presenza mancante: in altre parole, nella seconda, intercetto l’assenza. Così, se in un’aula scolastica, dove tutti i posti a sedere sono occupati, se uno studente chiede di uscire e lascia l’aula, un bidello che venisse da fuori e volesse una sedia per un’altra aula dove se ne ha bisogno, vedrebbe solo una sedia e la chiederebbe senza porsi alcun problema. Ma docente e studenti gli diranno che non può prenderla, perché non è semplicemente una sedia, ma una sedia vuota, una sedia che richiama una presenza mancante, una vuotezza che il bidello non ha potuto, né saputo percepire. Una presenza che emerge dalla vuotezza che è problema, cioè non mero dato da sapere ed archiviare, ma elemento di rottura con la linearità accomodante del sistema che tutto possiede, definisce, schematizza, circoscrive, conosce.

Ebbene, tutta l’umanità è segnata da questa emergia: si è attratti più da ciò che scopriamo mancare, che sedotti e appagati da ciò che vediamo e sperimentiamo ci sia e abbiamo.

La stessa libertà è l’emergere di un quid da uno squilibrio, dalla non-corrispondenza tra domanda e risposta. È talmente emergia che non ha contenuti ed è precisamente questa la sua identità.

Non si sta dicendo qualcosa di straordinario o di originale, perché qualunque indagine vive di queste dimostrazioni implicite, che prendono il nome di “indizio”. Il peso degli indizi è diversificato e di vario valore, ma in ogni caso restano indicative e allusive di un possibile.

Una successione numerica 1, 2, 3, 4, 6, 7, 8, 9, 10, 11, ecc. non dice del “5”, ma la sua assenza è ancora più forte, perché si nota, perché la si intercetta, ché se invece fosse scritto scivolerebbe via insieme agli altri numeri. Esso, nella sua presenza mancante rivela la differenza, la sua alterità, il suo emergere, consistente e forte e certo.

E cosa dire dei problemi metafisici che sono restati da millenni irrisolti e che, proprio per la loro irresoluzione, hanno spinto e dato l’alibi al loro respingimento o rifiuto? Ma la loro irresoluzione non è di per sé già una risposta? Agostinianamente, non sono la presenza interiore ad ogni uomo di un’eccedenza che trascende e che destabilizza? Non è precisamente la loro eccedenza trascendente, sovraumana e sovrannaturale a rendere tali problemi irrisolvibili, ma tuttavia, in se stessi, proprio per tale motivo, già risposta? E anche qui, l’eccedenza trascendente emerge dalla irresolvibilità di quanto esplicitamente viene affrontato. Purtroppo continuiamo ad essere attratti animalmente dal visibile e dallo sperimentabile, trascurando ciò che dà senso a tutto questo e che dovrebbe emergere come implicita dimostrazione (quest’ultimo termine inappropriato, da sostituire con “mostrazione”, ostensione).

La consistenza implicita è quanto emerge dalla figura di Gesù. In termini astratti, come residuo, ne ho parlato con la mia prima pubblicazione, A, dove indicavo precisamente in ciò che il sistema scarta, il vero ab-solutus, “libero-da”, svincolato da ogni categoria di possesso. Ebbene, più Gesù veniva inchiodato sulla croce e maggiore si mostrava l’emergere della Sua alterità, della sua indefinibilità secondo umane categorie: più i chiodi penetravano nel suo corpo, più Gli si stava gridando: “Tu non sei uno di noi!”. È una condizione che vale per ogni martire, ma nel nostro caso interessa di più, perché la forza divina si mostrerà ancora una volta dall’emergia, quella consistenza implicita che tutto mostra, senza che ci sia nulla: anzi proprio perché non c’è alcunché. È il sepolcro vuoto! Come quando un muro ha un alone quadrato che richiama l’assenza di un quadro (la presenza mancante) o una parte del corpo non abbronzata richiama, anche se non vista mai, la consistenza implicita che mostra che qualcosa ha coperto quella zona corporea, così un sepolcro vuoto, luogo del nulla, dove nulla c’è, rivela, mostra l’emergere più consistente: doveva esserci un corpo ma non c’è. La presenza mancante per eccellenza! La consistenza implicita del fondamento!

Un’orma, una traccia, un segno indiziario sono il mostrarsi di una consistenza implicita ben più forte di quella esplicita, perché induce alla scoperta, allo stupore, all’attenzione.

Qui sta la giustificazione del consistenzialismo. Si vuole intendere, con esso, una differente consistenza, non data più dalla presenza, visibile, toccabile, udibile, sperimentabile, ma da una presenza, altrettanto certa, che non c’è, ma sicuramente deve esserci. Sedia e sedia vuota, sono l’esempio degli organismi animali e vegetali che non problematizzano il proprio limite, la propria vuotezza. La sedia vuota è l’uomo, teso a ciò che non c’è ma deve esserci e che supera, di gran lunga, il valore di ciò che già è presente.

Per me, credente cristiano, la massima espressione del consistenzialismo, di quanto ho appena sin qui accennato, è il sepolcro vuoto: il luogo del nulla che allude ad una presenza che doveva esserci e non c’è. Se fosse stato semplicemente un sepolcro, anche con dentro una salma, oltre ad un rispetto doveroso, non avrebbe richiamato la nostra attenzione. Ma quel sepolcro, quello e solo quello, nel suo esser vuoto, grida una presenza che è certo doveva esserci e che nel suo non-esserci-più raffigura, invera, completa e compie ogni possibilità altra, una trascendenza colta nel discreto, quasi sommessamente, senza clamore (come poi avrebbe voluto san Tommaso). Intercettare quella vuotezza in quel sepolcro è spezzare la logica della morte e del nulla, come indebite e odiose assolutizzazioni del precario.


È implicita un’alternativa al reale-che-c’è, se quel reale è investito di problematicità. Vedere-oltre che è un vedere-altro rispetto a ciò che c’è: questa è la possibilità. E tutto questo mondo del possibile che guida e sollecita quell’atto di problematizzare è l’esercizio della libertà. Ed è intrinseco alla definibilità stessa della libertà la sua superiorità sulle necessità naturali, non per i risultati ottenibili ed ottenuti, ma per qualità, nel senso che apre alla conoscenza e questa è potere.

Non c’è da nascondere la radice dalla quale tutto scaturisce. Facile parlare di ragione, di libertà, di evoluzione quali elementi che vengono utilizzati per tentare di spiegare ciò che dovrebbe caratterizzare l’uomo, la sua diversa identità animale. Ma libertà, ragione ed evoluzione sono conseguenze, non presupposti. La libertà non può essere presupposta per la semplice ragione che è del tutto estranea al sistema-natura, anzi le è ostile e pericolosa, potenzialmente capace di far saltare (come purtroppo sta accadendo) l’intero sistema naturale. Ed anche un comportamento virtuoso dell’uomo, manterrebbe nella libertà la possibilità di recar danno alla natura e già solo questa possibilità non può essere considerata una conquista naturale, un’evoluzione naturale.

La ragione, il pensiero, altrettanto, cadono nelle medesime considerazioni. È vero che siamo in grado di concentrare, per loro capacità, le qualità che gli altri organismi hanno parzialmente ed unilateralmente, ma è altrettanto vero che pensiero e/o ragione sono forieri di problematiche ed affanni non-naturali, di complicazioni inutili, di conseguenze naturalmente drammatiche.

La stessa evoluzione, teoria avanzata con il pensiero e dunque non dato ontologico universale, come sono la libertà e il pensiero, ma semplice ipotesi di lavoro, di frequente agganciata alla ragione per fare un unicum confuso che possa giustificare la parola “evoluto” per l’uomo e dare un minimo di giustificazione al suo operare così naturalmente anomalo, è conseguenza: ci si evolve perché lo status che si sta vivendo non soddisfa o non è pienamente adatto all’ambiente e alla sopravvivenza. Né si può pensare di paragonare in condizioni di equivalenza le varianti evolutive degli animali e delle piante, tutte direzionate a conservarsi e a conservare ciò che li fa sopravvivere, con l’evoluzione umana, che fa un salto di qualità tale che, ciò che facciamo passare per evoluto è, viceversa, dal punto di vista animale, una forma di involuzione di cui oggi stiamo pagando sempre più consapevolmente le conseguenze. Perché mai, infatti, paradossalmente, se siamo evoluti, stiamo distruggendo il pianeta? È una forma di evoluzione? E se non lo è, da cosa scaturisce questa furia distruttiva? Non a caso, in modo acritico e sciocco, mascherando con un termine ormai di moda, cioè “sostenibile”, stiamo cercando di minimizzare l’impatto umano sulla natura facendo riemergere la natura. Allora vuol dire che i problemi sono venuti dal nostro esser-uomini! Tutta la retorica ecologista è quella di tornare alla natura e di seguirla, di usare il “bio”, di far riemergere l’incontaminato e puro naturale, la sua genuinità, cioè, in altre parole, da uomini, cercare di essere più animali possibile. Dunque, siamo un errore! Siamo una scheggia impazzita che dovunque vada distrugge e manipola, trasforma e sostituisce.

Che confusione banale, acritica, pigra intellettualmente, ideologica, omologante. Un animale evoluto che deve fare i conti sui disastri della sua evoluzione! E allora come faccio a parlare di evoluzione? Rispetto a chi o a che cosa? E la Natura, Madre Natura, la Natura Provvidente, termini smielati, untuosi, che talora si sentono persino in trasmissioni che vorrebbero essere scientifiche e che pagano il solito umano processo di reificazione, che fa? Ci sopporta, corre ai ripari dei danni che le rechiamo, ci tollera.

Non è forse il caso di rivedere i presupposti e stabilire che questa evoluzione dell’uomo non abbia niente a che fare con la natura e la sua evoluzione? E che riconoscendone l’estraneità, consapevolmente, l’uomo possa avere un comportamento ben più prudente e corretto e sorvegliato in un habitat che non è il suo? Se sono parte della natura ed anzi ne sono figlio evoluto e privilegiato per evoluzione, faccio quello che fa qualunque animale e lo faccio in modo amplificato, visto che la mia evoluzione lo richiede: penso alla mia sopravvivenza (ieri saccheggiando, oggi proteggendo), cerco il mio benessere e divento solidale quando mi viene richiesto dalla specie alla quale appartengo, come qualunque animale gregario (con tutta l’ipocrita retorica filantropica che altro non è che difesa della specie, sublimata idealmente!).

Tutti i danni, i disastri, le tragiche conseguenze che stiamo vivendo dipendono dall’aver assegnato all’uomo un’unica dimensione, quella animale, sino al punto di manipolare, violentare la sua profonda differenza qualitativa per trasformarla in una mera variante sullo stesso tema che appartiene agli altri organismi! La natura è più per gli animali e le piante, che per noi!: «ch’essa è fatta più pe’ bruti che per gli uomini».

Sono loro e soltanto loro a trovarsi bene ed appagati in essa, scannandosi a vicenda senza problemi o rimorsi, pur di sopravvivere, accoppiandosi senza dover amare e senza gli effetti collaterali dell’amore, cercando accoppiamenti indesiderati senza essere accusati di stupro, accoppiandosi anche tra consanguinei senza essere definiti incestuosi, escludendo ed eliminando i diversi senza dover essere accusati di razzismo, di conquistare nuovi territori, cacciando o eliminando gli indigeni, senza dover render conto del proprio colonialismo, di scontrarsi spesso in modo cruento, senza venir accusati di essere guerrafondai, di abbandonare gli individui malati o vecchi saltando ogni accusa di eutanasia, di uccidere i propri simili senza essere accusati di omicidio; di nutrirsi dei propri simili senza diventare in un giudizio morale “cannibali”. In natura non c’è morale: non ci sono belve feroci o animali buoni, né piante cattive e dannose o buone e medicamentose. È tutto in funzione nostra. In natura tutto è come è e accade come accade: in essa non vi è alcun senso e seppure ve ne fosse uno, non avrebbe alcun senso. Questo mio ultimo riferimento al genio di Wittgenstein, pur con le dovute attenzioni, resta un monito ben preciso: il senso, il fondamento è sempre oltre, fuori dal mondo.

L’uomo è soltanto per metà, fisico. L’uomo è metafisico. La natura è una parte del suo essere, quella sulla quale nulla può e che deve subire e che lo accomuna ad altri organismi. Non è certamente questa parte naturale a distinguerlo, a segnarlo come uomo. Allora cominciano già a trovare la loro sede, il proprio sito consono la libertà il pensiero, lo spirito, la stessa evoluzione: in lui c’è altro oltre all’elemento “natura”. Questo “altro” che, annullato e reso invisibile da una cultura dominante acefala, ha agito in modo disorientato all’interno di una sede, quella dell’animalità, che non gli compete e che gli è lontana, provocando solo disastri

Si provi a considerare l’uomo un anfibio, un connubio tra natura e sovrannatura, tra finito ed infinito, platonicamente tra realtà e verità. Così è chiarita l’inquietudine umana, la sua ricerca del meglio, il progresso e l’evoluzione, la libertà e la ragione, la costante umana problematizzazione della realtà, la nascita delle civiltà, l’esplicarsi dell’umano fare storico, la differenza qualitativa dell’uomo rispetto agli altri organismi. Così è chiarito l’uomo e la sua identità. Il libro della Genesi ne aveva già chiarito i termini: tratto da Adamah, dall’argilla, dalla terra, dalla cenere, ma con il soffio di YHWH dentro: finito ed infinito, relativo ed assoluto, natura e sovrannatura, fisico e metafisico.

Difficile pensare come prodotto della evoluzione il raggiungimento dell’affanno, dell’inquietudine, dell’insoddisfazione per la natura e per quello che essa ci offre. Difficile spiegare con l’evoluzione la tensione all’altro e all’oltre come figure propositive scaturite, emergenti da un giudizio di inadempienza del proprio esser-così e del proprio habitat naturale.

Si sceglie la continuità evolutiva rispetto ad una relazione discreta che, come tale, rompendo la linearità dello sviluppo presunto elegge la qualità, si sceglie quella continuità, dicevo, perché è più facile. Il rasoio di Ockam colpisce ancora: è la via più diretta e controllabile, che non necessita di fatiche ulteriori per approfondire e cercare, ma che ha già omologato il risultato e lo ha facilmente diffuso nelle menti pigre e accidiose della cultura di massa (mass media compresi, anzi, in prima linea). Come un deus ex machina il principio evolutivo è buono per tutte le stagioni e viene a colmare (ma in realtà solo apparentemente e superficialmente) improvvisi vuoti interpretativi. C’è mamma-natura che provvede, che accudisce, che ci guarda con amore e viene incontro a tutti i nostri errori cercando la risposta più giusta, sino a quando la nostra malvagità e cecità le riuscirà impossibile da tamponare! A livelli diversi, i più sciocchi e banali dell’opinione pubblica sino a quelli pretestuosamente scientifici, siamo di fronte a questa idiozia irrazionale, acritica, anzi del tutto acefala. La natura è buona e l’uomo è cattivo: una grande favola che ci stanno raccontando per instupidire le menti. Peraltro riuscendovi. La natura non è né buona, né cattiva; l’uomo può essere l’uno e/o l’altro. Ma essendo così anomalo per la natura, l’uomo ha dovuto, sin dalla sua comparsa sulla terra, combattere contro la natura: contro il freddo, la sua scarsa velocità, la sua forza limitata, la sua vista circoscritta, con gli altri sensi ampiamente precari, impossibilitato a nutrirsi senza costruire arnesi, lavorando pietre o rami, con i suoi continui interrogativi su ciò che vedeva e non sapeva spiegarsi e che, a differenza degli animali, su di lui avevano sin dall’inizio un impatto tremendo. E allora riti, disegni rupestri, segnali simbolici. Dunque, non ci si inganni: fin da quando è comparso sulla terra l’uomo ha dovuto combattere contro la natura, la sua imprevedibilità, la sua forza devastante, la sua amorale capacità distruttiva. Lentamente, faticosamente, l’abbiamo ordinata, lavorando i campi, seminando i prati, controllando acque e fuoco, arginando i fiumi, difendendoci dalle belve, dai parassiti, dalle erbe infestanti, da mareggiate, carestie, dalla stessa prossimità con animali (dai topi la peste, se lo abbiamo dimenticato) e da altre innumerevoli condizioni di pericolo. Poi l’abbiamo redenta, partecipando di un progetto redentivo molto più ampio e grande di noi. Ci è stato dato di riscattarla dalla sua banalità ottusa, dalla sua insensatezza, dalla sua crudele e spietata esplicazione di quello che chiamiamo comunemente “vita”. Scienza e arte, ordine e bellezza sono le due capacità dello spirito umano di riscattare la cecità della natura, capacità che abbiamo reificato e fatto passare per qualità naturali. Così, divinizzata la natura, -la costante originaria e perenne tentazione idolatrica dell’uomo- noi, centro della creazione, siamo diventati i boia della natura e delle sue meraviglie.

Trascurato quello squilibrio ontologico che ci rende diversi dal resto della natura, dimenticato o volutamente messo da parte quel disagio esistenziale che ne è derivato e che ha fatto sorgere libertà e, nel suo esercizio, storia e cultura, abbiamo implicitamente assimilato l’uomo al resto degli animali e l’uomo si è comportato di conseguenza. Non c’è animale a cui dà preoccupazione il bene del pianeta e neanche del suo stretto habitat. Prende, arraffa per il suo stato di benessere. Violenta, saccheggia tutto quello che può essergli utile e funzionale, senza rispetto, senza pensare ad altro che non a se stessi. Come animale fra animali. E anzi, come animale evoluto, animale al massimo grado, espressione massima dell’animalità!

Non abbiamo mai sottolineato l’estraneità della natura rispetto alle nostre domande. La natura è come casa d’altri in cui stiamo vivendo come ospiti. Il rispetto ne è, ne sarebbe stato, la conseguenza più ovvia.

3.2.- Pienezza come possibile

Se ci si fermasse soltanto a questo livello nulla cambierebbe, se non che l’uomo continuerebbe a produrre e a costruire e a proporre tutto quello che è considerato normale: la sua storia, la sua arte, la sua scienza, e così via. Ogni tanto il discorso potrà anche cadere su questa inquietudine di fondo, ma, come sta già avvenendo, interverranno gli annacquatori del problema, capaci di renderlo invisibile o poco graffiante.

Ma questo squilibrio ha segnato esplicitamente tutta la filosofia occidentale ed implicitamente, come scritto, ogni uomo in quanto tale. Dal δαίμων socratico sino a Platone e poi sino alla Spaltung che nell’Ottocento ha rappresentato la spinta, l’incentivo, la motivazione dell’intera speculazione filosofica, testardamente s’è cercato ciò che è già miticamente alluso, come scritto, nel libro della Genesi: in Adamah c’è il soffio di YHWH o, se si vuole, platonicamente, nella realtà c’è la reminiscenza della verità. Si è talmente dentro a questa condizione che qualunque spiegazione che ne voglia dare interpretazione diversa, non può ergersi a giudice in quanto è, a sua volta, conseguenza di questo dislivello, di questo squilibrio. Questo dislivello ha creato problemi, fosse anche la semplice volontà di spiegare ciò che nessun altro organismo ha bisogno di spiegare, ma semplicemente di vivere. Si vuole dunque dare una interpretazione economico-politica, sulle orme di Feuerbach e Marx? O una di stampo psicoanalitico secondo le indicazioni di Freud? O sociologiche, psicologiche, evolutive, ecc.? sono tutte risposte ad una domanda, al problema e sono state esse stesse partorite dall’uomo per tentare di avere e dare un senso rispetto alla propria originaria condizione che, evidentemente, non si è sentita appagata dalle risposte di chi avrebbe dovuto dargliele, cioè dal proprio habitat naturale. Se questo fosse risultato in equilibrio con le esigenze e le richieste umane, niente ci avrebbe distinto dagli altri organismi. Ma non c’era, non c’è alcun equilibrio tra ciò che la natura offre e ciò che l’uomo richiede. Per questo motivo sono nate le proposte economico-politiche per alcuni, sociologiche per altri, psicologiche e/o psicanalitiche per altri ancora: non sono al di sopra della scissione che pretendono di giudicare, perché ne sono esse stesse un tentativo di risposta, più o meno consapevole: non esisterebbero se la condizione naturale fosse stata appagante. La scienza, l’economia, come l’arte ed altre umane attività già precedentemente indicate, non sono naturali, anzi posseggono una identità innaturale, nel significato di costituire per la natura un pericolo, una scheggia impazzita, l’irregolare e anomalo comportamento di un animale che cerca oltre ed altrove rispetto a “madre natura” le proprie ipotetiche risposte appaganti. Perché mai, sia detto di passaggio, l’animale-uomo avrebbe avuto bisogno di evolversi se non perché ha giudicato insufficiente il proprio stato originario naturale?

E in base a quale criterio ha intercettato la propria mancanza e ha stabilito la propria deficienza? Come ha potuto naturalmente scoprire le inadempienze del proprio naturale? Come scoprire l’assenza, se non si ha una virtuale pienezza in sé? L’assenza è possibile che si scopra soltanto se ho conoscenza, più o meno chiara, più o meno consapevole, di una pienezza o presunta tale. L’assenza non è principio, né può essere all’inizio, l’assenza non è al/il principio: non potrei riconoscerla come tale. È la lezione di Agostino che viene dalla sua polemica contro i Manichei e dalla sua disputa con Fausto. Senza un criterio di pienezza che mi permette il riconoscimento, mai potrei cogliere ed accorgermi dell’assenza. Cioè della mancanza, di ciò che non ho e che vorrei o potrei avere. Si rimanda per questo all’esempio della “sedia” e della “sedia vuota”. Ciò che manca, il negativo, non può essere all’inizio: rispetto a cosa potrei giudicarlo negativamente? Senza il riferimento ad una pienezza, che non c’è in natura, quale criterio mi svela la mancanza? E, sinteticamente, perché la natura non risponde alle mie richieste? Non certo le richieste di star meglio, ma quelle relative al fondamento, al senso della vita, della morte, del dolore, degli altri, della stessa natura.

Questa pienezza si presente all’inizio nella semplice possibilità.

Nessun altro organismo in natura vive e sa ed agisce e vuole secondo il criterio della possibilità. La possibilità è la prima Emergenza rispetto alla linearità necessaria della natura. È il primo figlio naturale della libertà, se vogliamo usare analogie secondo natura. Ma il possibile, come il virtuale, che soltanto la libertà può far emergere, altro non è che apertura all’altro. Ho giocato con la ripetizione dell’”altro” perché è il concetto-fondamento: squilibrio, libertà, storia come emergere delle risposte allo squilibrio, ma anche le indefinibili ed indefinite storie mai scritte, anche solo virtuali e/o possibili, sono generate dalla libertà e ciò segna come l’apertura all’altro, all’ulteriore, all’oltre siano inscritto ontologicamente nell’essere, mai unilaterale, uniforme, omogeneo, ma scoperto nella e dalla sua scaturigine soltanto perché l’essere è radicato nell’altro.

La prima figura della trascendenza è precisamente quel possibile che rivela una presenza mancante e mostra la consistenza di quella mancanza in modo ancor più deciso delle tante presenze illusoriamente appaganti. La presenza mancante è già nel possibile che è allusiva della pienezza che è da concepire come compimento, equilibrio, appagamento (popolarmente è la felicità, il benessere, la perfezione, l’optimum) e il possibile come pienezza è l’infinito, da cui l’indefinito della libertà è generato.

Il possibile è già metter-in-discussione ciò che c’è, è compararlo a quello che, pur assente, si paventa migliore e si ritiene così trainante da spingere ad abbandonare il possesso del reale che abbiamo per avventurarci verso ciò che non esiste ancora.

C’è chi continua pervicacemente a ripeterci che dobbiamo essere appagati da ciò che c’è e che il possibile è invenzione, alienazione, frustrazione, rifugio, paura della vita, problemi irrisolti in terra, a livello economico-sociale o psichico che hanno bisogno di un punto di fuga nell’oltre, nell’ultraterreno, in Dio, nell’al di là, ecc.

È incredibile come questi esponenti blocchino la loro logica e la loro presunta forza di osservazione quando gli si ritorca contro: se bisogna basarsi sulla storia, sull’empiria, sui fenomeni, su ciò che vedo e sento, sulla materialità della concreta realtà storica, allora i fatti, questi fatti, precisamente questi, indicano che non siamo adatti, né contenti, né soddisfatti della natura. E cosa fanno allora questi splendidi pensatori laicisti, non offuscati dalle tenebre della superstizione, dall’oscurantismo religioso? Invece di attenersi ai fatti, anche loro, sì, anche loro vanno a finire nel possibile! Ognuno sostituisce la realtà con il proprio possibile interpretativo, confermando metodologicamente, quanto vanamente hanno cercato di sconfessare.

Mi si passi un ricordo degli anni universitari. Dovevo sostenere l’esame di Logica (ne ricordo l’identità perché qui non è casuale) e il programma prevedeva la lettura di una serie di testi su Marx, dando per noto un nucleo ampio ed importante de Il Capitale. Nel programma d’esame comparivano poi Rosdolski con i suoi studi sui Grundrisse marxiani, due testi di Althusser e un testo del docente di cattedra. Termino l’esame in modo impeccabile, con i complimenti. Ma il docente si accorge evidentemente di qualcosa che, nei miei tratti o in altre espressioni incontrollate, avevo espresso. “Mi pare però che lei non condivida tutto questo, vero?” mi dice mentre mi scrive il massimo dei voti sul libretto. Alla mia conferma, mi chiede i motivi. Ed io gli ho fornito quanto adesso andrò scrivendo.

Se parto dal presupposto (in realtà pre-giudizio) che tutti gli organismi che vivono in acqua siano pesci, nel vederne uno che salta fuori dall’acqua e va sulla terra ferma, quel pregiudizio mi farà dire: “è saltato fuori perché non ha risolto i suoi problemi in acqua. Sono lì i problemi da risolvere e così non salterà più fuori”. Prendo quell’organismo e lo rimetto con forza in acqua. Ma dopo un po’, me lo ritrovo nuovamente fuori, sulla terra ferma. È ovvio che se è saltato fuori, l’acqua non rappresenta il luogo del suo benessere, ma questo mi dovrebbe far fare due elementari considerazioni:

1.- a livello storico, empirico, fenomenico, non posso affermare che quell’organismo sia un pesce, a meno di far prevalere il pregiudizio sulla realtà.

2..- cosa ci ha detto la spiegazione che quell’organismo non abbia risolto i suoi problemi in acqua? Niente di più che quello che si vede. Sì, è un organismo che in acqua non sta bene, che vuole altro, che vive in acqua, ma che non è un pesce: è un anfibio. Questo dovrebbe essere l’atteggiamento corretto, scientificamente parlando, non quello che spaccia l’ideologia e i pregiudizi per dato di scienza.

Il silenzio e il sorriso del docente nel riconsegnarmi il libretto, per me sono stati una risposta.

In tutta la metodologia scientifica (lo ricorda peraltro genialmente Wittgesntein), marxismo compreso, le premesse già hanno in se stesse quanto si articola poi nella dimostrazione successiva. Il marxismo si regge su quel pregiudizio. Che l’uomo debba essere integrato e soddisfatto nella natura e dalla sua storia. Dunque se questo non avviene ci sono ingiustizie da abbattere. E la religione diventa una droga distraente, l’oppio dei popoli, come viene diffusamente ricordato senza intelligenza. Ebbene, è sufficiente partire da un presupposto opposto, che cioè l’uomo è destinato per un’altra dimensione che non sia la natura e la storia ed ecco che la droga, l’oppio dei popoli diventa il marxismo e tutte quelle idolatrie immanentiste che distraggono dal vero fine trascendente.

La pienezza è possibile, ma identificare il possibile con una futura realtà terrestre, significa rendere esauribile, limitata, finita quella domanda che ci rende liberi solo perché è inesauribile, illimitata ed infinita. Infatti, quando in qualche Stato è stato raggiunto l’ideale marxista, ovviamente in quella situazione politica non potevano esserci uomini anfibi, ma tutti erano costretti ad essere o a diventare pesci, educati all’ateismo. E con coerenza, ogni libertà è stata via via limitata sino ad essere vanificata, estirpata: la domanda era stata, ovviamente, finalmente risolta ed esaudita, perché schiacciata sull’orizzontalità, ponendo all’uomo il modello animale come sua finalità.

Possibile come “infinito altro”

Perché ci sia cambiamento, trasformazione, evoluzione o, guardando solo la parte attraente, quello che chiamiamo progresso (ché, infatti, affinché ci sia progresso ogni volta deve esserci un giudizio di insufficienza su quanto, invece, in precedenza aveva rappresentato l’illusione della risposta), deve esserci un focus orientativo, più o meno manifesto, più o meno legato ad analogie migliorative empiricamente determinate, un focus di possibilità, indefinibili in quanto ancora solo possibilità, ma senza le quali il processo di cambiamento sarebbe cieco e non potrebbe certamente essere definito evoluto o progressivo. Il mondo del possibile è tale perché è germinato dalla libertà o, se vogliamo dire più in profondità, dalla scoperta di uno scarto ineludibile tra le nostre richieste e quanto la natura ci ha potuto fornire come risposta. La libertà è lì per adeguare, per tentare di ridurre quello scarto, ché altrimenti avremo ripetuto, appagati, il nostro stato così come avviene per ogni altro organismo. Noi celebriamo la libertà e il progresso perché sono sinonimo dell’esser-uomini, perché segnano nell’essenza l’identità umana. Ma questo non significa che il loro significato si esaurisca nel solo aspetto celebrativo e retoricamente usato per questo o quell’intervento sporadico a tampone di situazioni difficili. Libertà e progresso hanno radici profonde, che si alimentano di una condizione che li motiva, li giustifica, li orienta: la coscienza che ogni risposta raggiunta, -che chiamiamo comunemente storia- è ogni volta giudicata, prima come panacea, poi come insufficiente e inadeguata e così ci si volge oltre. Per questo possiamo ribadire di essere più attratti da ciò che ci manca che sedotti e appagati da quanto già possediamo.

L’inesauribilità della nostra domanda, nata dall’aver intercettato le inadempienze del proprio essere e della natura che pure ci accoglie, garantisce la libertà di scelta di miliardi e miliardi e miliardi di uomini, tutti protesi, ciascuno nel proprio, a trovare quel fine che possa finalmente colmare il vuoto dell’assenza, calmare la tensione inquieta verso chissà cosa debba fornirci appagamento, felicità, quiete. Ognuno, storicamente, sceglierà la sua strada per cercare di acquetare la propria ricerca ed esprimere sino in fondo che il proprio mondo sia conosciuto, non passi invano senza lasciare traccia. Allora vogliamo esprimere il proprio io, le nostre idee, il nostro gusto, cercare di farsi notare, illudendoci di segnare il tempo che stiamo vivendo, per non essere soffiati via dal futuro che verrà dopo di noi.

L’indefinibile mondo delle possibilità che coincide con la libertà e che produce il mondo variegato e molteplice delle culture, -in generale il mondo della storia-, ci rende uomini, perché il possibile non esiste per gli altri organismi, necessitati ad essere come sono e completamente tesi a conservare ciò che sono. Ma senza quello scarto, quel gap, senza quel senso di inadeguatezza, ontologicamente inscritto nella condizione umana, senza la scoperta che le nostre attese e speranze e progetti restano ogni volta inadempiuti, insoddisfatti, al punto da far scaturire la funzione della libertà (saranno così contenti tutti i funzionalisti e chiarificatori della differenza in termini meramente animali!) e, da essa, mediante essa ed in virtù di essa, l’emergere continuo di possibilità che vengono portate ad attualità, che vengono realizzate o che si desidera realizzare; insomma, il mondo della nostra storia, personale o generale. Quell’indefinito mondo delle possibilità è quantitativo e traduce nell’orizzonte terreno, nella realtà finita, la qualità infinita della nostra domanda, l’essere possibile come infinito e traccia dell’infinito in ogni essere finito che è l’uomo. Senza questa presenza eccedente nel finito che siamo, negli stessi limiti che siamo, non saremmo liberi. Se tra le nostre richieste e le risposte, seppure valutate non subitaneamente risolvibili, ci fosse una omogeneità che almeno lasciasse ben sperare sulla risolvibilità del nodo problematico che si è venuto a creare, anche nostro malgrado, basterebbe apprendere per risolvere e non avremmo né inquietudine, né tensione, né spinte al cambiamento, alla trasformazione, né cercheremmo soluzioni migliori e più evolute. Il riferimento che misura l’inadeguatezza della natura, delle sue risposte e di quelle della storia che stiamo costruendo o di quella che è già alle nostre spalle, deve essere un riferimento superiore, superiore ogni volta e ritenuto tale anche per il futuro avvenire, tanto che siamo concordi nel pensare che chiunque, un giorno più o meno lontano, affermasse di aver trovato LA risposta appagante (in tal caso lo affermerebbe in modi diversi, magari artisticamente, politicamente, economicamente, o altro), sarebbe destinato più ad una clinica psichiatrica che al convivere comune. Come si fa a scoprire l’insufficienza se non si conosce il riferimento sufficiente? E chi è o cosa è questo riferimento? E mancando nel nostro essere e nel nostro habitat, da dove proverrebbe un tale riferimento, visto che non è né la natura né l’uomo a poterli produrre? Anzi, va persino aggiunto, che tutto questo viene considerato un affanno di cui si vorrebbe fare volentieri a meno, piccolo indizio quest’ultimo, della sua provenienza altra.

Il pensiero che intercetta l’assenza e la libertà che emerge per colmarla possono farlo solo se in essi è depositato quel riferimento superiore che non è frutto di evoluzione (visto che questa, l’evoluzione, avrebbe bisogno a sua volta di una spiegazione e che è già in sé conseguenza e non premessa), ma che presenta la traccia dell’eccedenza, che ha in sé il soffio dell’infinito, quello stesso che poi concepiamo, in modo più o meno oscuro, in modo filosofico, letterario, artistico, parlandone in maniera irrazionale e con espressioni belle e suggestive, ma senza che sia oggetto serio di approfondimento.

L’infinito lascia la sua prima traccia nel possibile. Il mondo del possibile è la nebulosa e tuttavia evidente manifestazione di una eccedenza sovrastorica, sovraumana, sovrannaturale. È l’indizio del nostro sperare oltre, del nostro attendere altro, del nostro volere il meglio, ma è anche la certezza del nostro giudizio di insoddisfazione di quello che si è e si ha, senza il quale non avremmo quel vettore di ricerca. Il possibile è l’oltre della realtà, è altro dalla realtà, è il metter-in-discussione ciò che c’è in nome di ciò che potrebbe esserci. Il possibile è il soggetto sottinteso di ogni ricerca, la traccia di ogni alter-nativa. Il fatto che il possibile possa svolgersi nella storia e lungo gli avvenimenti che la segnano, non deve accontentare. La domanda è inesauribile (ché altrimenti, fosse finita, non avrebbe creato alcuno squilibrio).

E come si è visto in precedenza, non ci si accorge che assegnare la risposta a questa domanda inscritta ontologicamente in ogni uomo risolvendola in semplici problemi storici e con valori storici (espressione che è in realtà un ossimoro), significa poter approdare ad un risultato, ad una risposta dove non c’è più libertà, perché non c’è più squilibrio e se c’è la risposta, ogni altra proposta è decapitata, perché giudicata impossibile: si confronti per questo il contingentismo di Boutroux.

La libertà è destinata a non finire precisamente perché radicata ontologicamente nello squilibrio che è uno scarto non tra una domanda finita e la corrispondente risposta finita (ché altrimenti avremmo la necessità, non la libertà!), ma tra la domanda inesauribile, infinita che, in quanto tale, apre il ventaglio indefinibile delle risposte, libere appunto, non necessarie. Quando si afferma dunque che ciò che ci differenzia dagli altri organismi è la libertà, si dice il giusto, ma questa affermazione non può fermare la riflessione. A domanda finita corrisponde risposta finita. Ebbene questo è quanto accade a tutti gli altri organismi ed è ciò che definisce la necessità. C’è omogeneità tra domanda e risposta. La stessa necessità in Dio (della Sua esistenza, ad esempio), deriva dal fatto che domanda e risposta sono infinite, omogenee, senza scarto, perfettamente compiute. Ciò che l’animale o la pianta deve svolgere nel tempo Dio è da sempre. Ma l’uomo non è né animale, né pianta, né Dio. Segnato dalla libertà è segnato dalla disomogeneità tra domanda e risposta, dalla loro asimmetria, dalla loro eterogeneità. Se la libertà in Dio è necessità, per le ragioni succitate, nell’uomo no, perché quello scarto qualitativo gli impone la tensione all’adeguazione, al riequilibrio, ad una quiete appagante raggiunta in modo illusorio tanto da essere subito dopo rinnegata per l’ulteriore (il principio del progresso). E per il finito che tale è, che è consapevole del proprio limite, la prima figura dell’infinito è il possibile, ciò che non hanno né gli animali, né le piante, ma che non ha neanche Dio, pena la Sua imperfezione, la Sua incompiutezza.

Animali e piante svolgono nel tempo la distanza puramente quantitativa tra domanda e risposta (entrambe omogeneamente finite), laddove Dio, pur avendo omogenee domanda e risposta (infinite) non svolge alcunché nel tempo essendo Colui che è: in Lui non c’è scarto.

L’uomo vive nel reale ed è sollecitato dal possibile, che è sempre, per sua essenza, oltre ed altro. Il possibile è, di conseguenza, la prima figura dell’alterità, la sua discreta denuncia delle inadempienze del reale. Il tempo animale e vegetale è una successione omogenea immanente che qui si esaurisce, ma il tempo per l’uomo ha fondamento metafisico: il suo compimento non è mai qui.

La libertà è la possibilità data alla volontà di ripristinare l’adeguazione, è la ricerca della risposta in forza del possibile.

Certo che la domanda insita in ogni uomo può significare un’ottimizzazione delle possibilità umane e giungere a quello che gli animali posseggono, ma magari unilateralmente! Certamente potremmo vedere la storia, la cultura, le civiltà, come una più complessa manifestazione dell’animalità! Ma sarebbe una valutazione sommaria, perché in questa storia ci sarebbero da distinguere scopi immanenti, che hanno il modello animale quale riferimento, e valori innaturali e persino dannosi per la natura che non possono avere come modello l’animalità.

Vediamo più in particolare. Banalmente proviamo a riassumere in uno schema quanto si vuole qui chiarire:

+ I

(+) -- U + A

Tutto nasce dallo squilibrio. Quel (+) lo devo presupporre ché altrimenti l’assenza, la mancanza non sarebbe riconoscibile come tale, non sarebbe problematizzata. Da quello squilibrio nasce il vettore storia-cultura-civiltà, che può avere due orientamenti, come sempre: “fatti non foste a viver come bruti”. Un modello immanente che è strettamente animale/naturale; uno trascendente che riconosce la propria specificità umana nell’oltre, nella sovrastoricità, sovrannaturalità, sovra-umanità.

Per essere chiari chiameremo il primo vettore A (avendo l’animalità come riferimento); chiameremo I (avendo l’oltre, l’infinito come riferimento), l’altro vettore, il secondo.

Modello A: semplificando, l’uomo percepisce la sua povertà strumentale: la natura non gli ha dato risposte adatte e se le deve costruire. È nudo e deve vestirsi, è lento e costruisce protesi che lo rendano veloce sino ad arrivare a velocità che nessun animale può raggiungere; vede poco e costruisce binocoli, microscopi e telescopi, siamo lenti in acqua e siamo in grado di supplire con moto d’acqua, motoscafi, navi, transatlantici e così via; non voliamo e costruiamo jet; persino nelle profondità dei mari e degli oceani siamo riusciti a raggiungere o valicare nello spazio distanze impensabili a qualunque altro organismo. Così, anche senza andare nello spazio, valichiamo con facilità e comunichiamo a distanze enormi con strumentazioni sofisticate. Insomma, preso il modello animale quale riferimento, lo si è emulato e superato, concentrando le capacità che le specie animali hanno in modo unilaterale, nell’unica nostra specie umana, che è diventata invece multilaterale, complessa, articolata. È il progresso tecnologico che davvero è progresso, in quanto non c’è dubbio che nel corso dei secoli ci sia un evidente miglioramento graduale, un ottimizzazione crescente.

Si tratta di qualcosa di così evidente che attrae e seduce e spesso la si prende come una condizione che esaurisce l’essenza umana. Quanti sono rimasti e rimangono attratti da questo progresso! Excelsior è un inno al progresso che oggi, dovrebbe, ad occhi critici, essere il balletto delle illusioni, quasi patetiche, perché proprio questo progresso ci ha dilaniato: da una parte non riusciamo a farne a meno e celebrarlo; da un’altra, denunciandone i danni, vorremmo rinaturalizzare la nostra vita, “tornare alla natura”, semplificare il nostro quotidiano cercando di fare a meno di ciò che sino a ieri, trionfanti, esaltavamo come conquista tecnologica.

Ma al di là di tutto questo, nel lontano passato e nel presente ci sono uomini che ignorano il progresso ed altri che lo hanno esplicitamente rifiutato.

Ma non per questo non sono uomini, né perdono alcunché della loro essenza umana. Insomma, si è uomini, indipendentemente dal vivere in condizioni di progresso e di tecnologia. È una possibilità che molti di noi realizzano, ma che è una possibilità che, realizzata o meno, non è così indicativa da diventare essenziale alla definizione di “uomo”. Si è pienamente uomini, indipendentemente dal progresso e dalla tecnologia: uomini che vivono in condizioni di stretta sopravvivenza, fuori dal mondo cosiddetto civile, popoli che appartengono alle cosiddette “società primitive”, gli Amish, i sami oltre a piccoli gruppi o individui.

In conclusione: rincorrere il modello animale in forme più complesse e complete, pur rappresentando una possibilità di risposta, non è in grado di esaurire la domanda, al punto tale che si nasconde questa condizione frustrante, edulcorandola in affermazioni come: il progresso non ha fine; il progresso è il futuro; non si può fermare il progresso e così via. Ci viene presentata la parte illuminata del problema che è anche la parte più seducente: migliorare.

Ma c’è anche una parte scura e implicita, inesorabilmente presente, che è la condizione per la quale niente ci soddisfa, niente riesce ad esaurire le nostre richieste, la nostra domanda. E per questo si va avanti, cioè si progredisce. Perché ogni volta, ciò che avevamo creduto essere la risposta soddisfacente, poi si rivela insufficiente e reclama un’ulteriore ricerca di risposta.

Persino il progresso che non ha fine denuncia l’inesauribilità della domanda.

E questo ci giustifica a vagliare l’altro modello, quello infinito, quello sovrannaturale, sovrastorico, sovraumano. Ciò che è tacitamente presupposto nell’idea di progresso, qui viene reso esplicito ed affrontato: la domanda non troverà risposte esaurienti sul piano orizzontale.

Per questo motivo si dice che il progresso è senza fine. Si è anche oscuramente a volte consapevoli che mai l’uomo fermerà la sua ricerca, il suo inquieto mutare scopi, modelli, tipologie di vita, valori. Quella domanda inesauribile giustifica le indefinite molteplici varie e libere risposte dell’uomo che sa, anche se non lo fa mai presente alla sua mente con lucidità, che non c’è risposta nell’orizzontalità della storia, ché altrimenti dovremmo pensare ad un progresso che finisca, ad una ricerca che termini, ad una inquietudine finalmente placata. Primissima considerazione: se il modello fosse finito, sarebbe sotto le leggi della necessità, mentre uno scopo oltre-natura impone una situazione, nell’uomo, oltre-natura. E questa situazione oltre-natura è la libertà, di cui s’è già detto. Questa è la premessa perché da essa si avvia l’altro riferimento, quello verso l’infinito. Dalla libertà emergono:

· la morale, che noi soltanto abbiamo e che è, sotto il punto di vista naturale, inutile e persino dannosa. In natura non ci sono animali feroci e animali buoni, azioni crudeli o altre di amore materno o di fedeltà. Sono antropomorfizzazioni dell’animale che è quello che deve essere secondo natura. Non c’è alcun merito se si è fedeli per natura. La fedeltà è un valore se si può non essere fedeli e si sceglie liberamente di esserlo. E così per tutto il resto. L’affezione che ci dà qualche animale a noi più vicino è espressione del suo gregarismo, della sua devozione al capobranco e l’averla che infila gli insetti nelle spine per averli pronti ancora vivi quando ha fame, non è crudele, perché non può essere diversamente. La morale, dal punto di vista naturale, è inutile peso, fardello di cui liberarsi o di cui non tener conto, perché il peso di una colpa, di un rimorso, può persino andare contro le mere leggi di natura e della propria sopravvivenza e del proprio utile. L’animale non ha morale, non si pone problemi morali, non può neanche farlo, mancando di libertà. La morale impedisce l’illusoria innocenza, richiama costantemente alla responsabilità del proprio agire e pensare, non si accontenta di perseguire obiettivi funzionali, utili, facili come quelli che la natura impone per istinto agli altri organismi. La libertà si porta dietro la responsabilità delle scelte: l’animale non ce l’ha e dunque non va neanche giudicato come buono o cattivo. La morale ha una radice metafisica, in quanto è antinaturale perché è sovrannaturale. La sua eredità è edenica: dall’albero della conoscenza del bene e del male è nato l’uomo, che ha trascinato con sé quel retaggio primigenio, dove ha riconosciuto la propria libertà nel momento in cui essa si è contrapposta: il peso del negativo, il riconoscere qualcosa solo quando si rischia di perderla o la si perde davvero.

· l’arte e la bellezza: si tratta di due elementi che confondono e rendono difficile discriminare quanto sto dicendo. Avendo fortissimo appeal ogni discorso di chiarimento è battuto in partenza. Ma va fatto. Noi reifichiamo ciò che è l’occhio del nostro spirito. Persino una tempesta ci muove a pensieri di bellezza e forza della natura che ci ammalia e ce la fa ammirare e guardiamo stupiti le grandi onde che s’infrangono sulle rocce e il faro che è assediato dai marosi. E quanti versi, pagine di letteratura, quanti splendidi dipinti…e parliamo di bellezze naturali, reificando ciò che appartiene soltanto al nostro spirito. Quella tempesta è bella perché noi la contempliamo. Ma se stessimo lì, dentro, avvolti dalla sua furia, quella stessa tempesta non ci porterebbe a un giudizio estetico, ma di paura, di terrore. Un tramonto può essere letto come di solito si fa in termini estetici, ma c’è chi lo analizza sul piano dell’ottica e dell’elettromagnetismo. E lo può fare altrettanto legittimamente. La cosiddetta “bellezza naturale” riproduce sul piano estetico la stessa problematica esistente sul piano scientifico, bene espressa da una battuta di Einstein: “il più grande dei miracoli è che la natura risponda alle leggi che le assegniamo”. C’è un misterioso file rouge che lega l’osservatore e l’oggetto naturale: il nostro spirito gli assegna leggi e l’oggetto ti risponde come se le avesse; il nostro spirito lo definisce bello e l’oggetto ti si mostra in tutta la sua afunzionalità, indipendente dall’uso che ne viene fatto nel ciclo naturale.

Così un fiore, un prato, un tronco d’albero vecchio, una ramificazione, persino una pietra, realtà che hanno una collocazione nel mosaico naturale e una propria spiegazione, per così dire, nel ciclo della natura, a noi appaiono svincolati da quel legame necessario e assurgono a pura icona di bellezza, da memorizzare, da dipingere, da descrivere, da fotografare, ecc. Eppure si tratta di un fiore, subito aggredito da un bombo, si tratta di un prato dove poco dopo vediamo pascolare un gruppo di vacche; eppure si tratta di un vecchio tronco dove insetti e qualche animale ha trovato solo il proprio rifugio o cibo; eppure si tratta solo di una ramificazione di un albero, come avviene da milioni di anni, ma che ai nostri occhi ha assunto una forma “bella”.

È solo lo spirito che si concilia con la bellezza e che sa intercettarla nelle cose, nella natura, nelle persone, in ogni cosa.

· La filosofia, che è, notoriamente qualcosa di “inutile”, grazie a Dio. Cioè, non è sottomessa ad un sapere pragmatico, funzionale, schiavizzata al sopravvivere quotidiano. È la libertà di essere uomini, di riflettere su quanto molti non riflettono, accettando la loro parte sul palcoscenico in modo passivo, come tutti gli altri organismi naturali. Per questo, agli occhi della gran parte della gente la filosofia è sinonimo di inutili ragionamenti, di perdita di tempo, di sofismi senza senso. Ogni animale cerca di difendersi, valorizzando il proprio e attaccando ciò che potrebbe metterlo in crisi. Quanti di noi hanno abdicato alla specificità umana ingigantendo e monopolizzando il proprio essere sul modello meramente animale! In fondo, si dice, siamo animali anche noi! L’errore, -anche questo animale-, è di esaurire l’uomo in quella animalità, rubandogli lo specifico, annientandolo nella sua dignità, togliendogli ogni differenza qualitativa. L’inutilità della filosofia è la sua appartenenza al mondo della specificità umana, è l’espressione dell’indipendenza dell’uomo dalla schiavitù che i processi naturali impongono. Non così la scienza, almeno quella canonica, che, a ben vedere, cerca sul piano dello spirito (specifico umano) le stesse leggi necessarie che regolano i processi naturali. Purtroppo la scienza, grande redentrice della natura e dal suo caos imprevedibile, per sua stessa metodologia china la testa alla natura, attraverso quel criterio gnoseologico che chiamiamo “esperienza” e che ci accomuna ad animali e piante.

· La geometria, realtà idealizzata, al di sopra del tempo e dello spazio, al di là di ogni misurazione e modello animale o naturale. Il mondo della geometria non esiste, eppure riconosciamo le particolarità della realtà in base a quel modello. Parallele che s’incontrano all’infinito, punto infinito, e tutte le figure che sono soltanto enti astratti. La geometria, per così dire, è una realtà ideale, pura, che non viene dopo la realtà, per esperienza, ma che, viceversa, è fondamento della conoscenza della realtà, della sua misurazione, delle sue proporzioni, della sua stessa identificazione e nomenclatura. Le forme geometriche sono nel nostro spirito e, dono celeste, ci permettono insieme alla bellezza e all’arte, di redimere, di riscattare la realtà dalla sua brutalità senza senso, dalla sua accidentalità cieca, dalla sua ottusità ripetitiva. Ci rendono partecipi della forza redentiva dell’universo che ci segna come appartenenti al mondo celeste dell’infinito. Nel mondo della geometria non c’è consunzione, decadenza, errore, casualità, morte. È un mondo che allude all’eterno, all’imperituro, al sovraterrestre. La luminosità della geometria non ha bisogno di superare contrasti, non ci sono lotte, né continue né discontinue, non ci sono guerre, ma solo problemi che sfidano il pensiero e che ci ricordano leggi da rispettare, non scritte, che lo spirito segue per capire e cum-prendere per poi sapere.

· Come più volte ricordato, va qui inserito l’amore. L’amore non esiste in natura. Non va confuso con l’affezione, il legame gregario, la solidarietà di specie, l’istinto materno, sentimenti ed emozioni che accompagnano anche altri animali e persino le piante. L’amore è solo per l’uomo, nell’uomo, dell’uomo. Ma, precisamente per la sua natura anfibia, finito e infinito insieme, non va confuso con la sua parte animale, che potrebbe perfettamente e felicemente farne a meno. Se fosse stato così naturale e diffuso e reperibile Dio si sarebbe scomodato per rivelarcelo? L’Incarnazione di Dio sarebbe stato un atto così superfluo? L’amore ha il suo fondamento nel sovrannaturale: questo significa che Dio è amore. E quando l’uomo ama, gratuitamente (da gratia), incondizionatamente, sta rivelando la sua sovrannatura, perché l’amore è sovrannaturale, non naturale. Come può aver valore ciò che indebitamente definiamo amore, per animali che, privi di libertà, si comportano per necessaria conseguenzialità? Come confondere ciò che fanno in natura con quelli della loro specie, con ciò che ripetono con noi, con le medesime cadenze, ritualità, scelte gregarie? L’amore ha senso solo perché è fondato sulla libertà e si alimenta, giorno dopo giorno, con un continuo sì che è conquista ogni volta responsabile. Animali e piante non hanno amori infranti, tradimenti, amori non corrisposti, pene d’amore. L’amore è celeste dote negli umani e solo negli umani. E quella parte nell’uomo che ha come vettore per rispondere alla domanda originaria il superamento del livello naturale, animale, terreno, è quella che ha in sé questa possibilità. Per il progresso, per l’altro vettore, non c’è bisogno né di morale, né di amore. E se l’amore ha fondamento metafisico vuol dire che il suo riferimento è l’Altro/altro, cioè che questi è l’assoluto. Un amore terrestre ha basi storiche e, come tale, vale quanto il suo contrario. Non può essere valorizzato e perseguito come valore se non su basi soggettive, opinabili, se l’Amore ha basi assolute, trascendenti, metafisiche, non ha alternative. Il cristiano non può permettersi di non amare; chi non crede, può.

Quanto ho dovuto nettamente distinguere, -i due vettori che cercano la risposta-, sono nell’uomo, persona una e indivisibile, intrecciati e spesso interagenti, confondendo un possibile vaglio e riconoscimento degli stessi. Ma è precisamente questo il socratico “conosci te stesso” che scopre il “demone dell’inquietudine”, ciò che spinge alla ricerca: dunque, ancora una volta, lo squilibrio originario, la natura anfibia dell’uomo, non sedotta da ciò che c’è e che ha, ma spinta e sollecitata da ciò che non ha, da ciò che manca, da ciò che è assente.

Causa e fondamento

Senza scomodare chi ha saputo indicare i pericoli dello storicismo (come Troeltsch), può essere più poetico e suggestivo ricordare quanto insegnava Paul Valéry: «la Storia giustifica qualsiasi cosa. Non insegna assolutamente nulla, poiché contiene tutto, e di tutto fornisce esempi». E così, ognuno la saccheggia e la volge al proprio uso e alle proprie presunte dimostrazioni. E, sul piano storico, con il banale nesso causa-effetto, tutto sembra spiegato, tutto ciò che si vuole dimostrare può essere dimostrato (è sufficiente prelevare quel nesso tra gli eventi che possono avere utilità e dimostrare post quanto era già pre-supposto). Affidarsi alle cause storiche altro non è che il regno dell’opinione, dell’opinabile, del soggettivo, semplicemente allargato quantitativamente, con una falsa dimostrazione attraverso la cieca e ottusa forza dei numeri. E ognuno cerca più numeri dell’altro, come se ciò che è vero fosse una questione statistica. Dopo quasi due millenni e mezzo da Socrate, i nuovi sofisti hanno ripreso la strada del soggettivismo e della doξα, con l’aggiunta perversa ed ignorante di aver fatto di Socrate il modello dell’uomo che pensa nella libertà e che affida alla conoscenza di se stesso la base per ogni altra conoscenza.

Almeno i Sofisti dell’epoca di Socrate, con maggiore onestà ed intelligenza, avevano capito che l’Ateniese era un attentato al loro soggettivismo arbitrario. L’attuale soggettivismo è talmente deficiente (in senso etimologico), che dogmaticamente persegue i suoi banali obiettivi di parte, spacciandoli per democratico confronto. La democrazia non può coinvolgere il fine, ma i mezzi. Ognuno ha la libertà di utilizzare mezzi diversi per l’unico fine. Ma questo non è negoziabile. Il fine è il Giusto, il Vero, il Bene: ognuno può trovare la sua via per praticarli., ma non può metterli in discussione. Non siamo noi ad averli creati. Ci sono stati, non a caso, rivelati.

Le cause storiche non spiegano nulla, semplicemente possono descrivere il processo storico.

Ma descrivere (peraltro sempre in modo soggettivo) la eventuale successione causale degli eventi, non significa spiegarli. O meglio: li si spiega nella semplice omogeneità di una prospettiva che vuole restare orizzontale e non cerca alla radice di ciò che accade, qualcosa che con la storia non abbia nulla a che fare. L’esempio più eclatante è proprio sulla religione, sul metodo storico-comparativo che ha dilagato e in parte è diffuso ancor oggi e che intende esaurire la spiegazione di ciò che è religioso soltanto sul piano storico. Non è qui il luogo per aprire un ampio versante polemico: potrebbe bastare la constatazione “in base a quale criterio io eleggo alcuni atti o fenomeni o oggetti o altro, come religiosi, se non so prima cosa sia e come si definisca ciò che appartiene alla religione?”. Ovviamente, con questa metodologia tautologica, do per scontato quello che è il problema (ciò che è religioso) e guardo alle manifestazioni (risposte) senza confrontarmi col perché (la domanda). E quand’anche lo facessi, come negli astuti tentativi di un Marx o di un Freud, fornisco soltanto un’apparente spiegazione del perché: se l’uomo si aliena (e ne descrivo le possibili cause) come “animale” gli è dato farlo e questo e di questo dovrei prendere atto scientificamente (come pretendono freudiani e marxisti) non far passare per scienza quello che è la mia definizione di uomo, una definizione dogmaticamente assunta a criterio: l’uomo è spiegabile solo con l’al di qua, con la linea orizzontale e storica e scientifica delle ipotesi umane. Se l’animale uomo si aliena, cioè trova il suo significato fuori da sé, evidentemente non essendo un caso isolato, posso anche ipotizzare che il senso dell’uomo sia fuori dall’uomo. Una rana che salta sulla terra, ha giudicato, in quel momento, insoddisfacente il suo stare in acqua e sta cercando sulla terra quello che non ha trovato in acqua: cibo, compagno/a, riparo, benessere. Questo osservo e questo devo far oggeto di indagine, non confrontandolo e criticandolo in base al mio schema riduttivo e semplificativo, messo in crisi da questa anomalia.

Sia chiaro: non si può, su ogni cosa, cercare il fondamento e, da questo punto di vista, un abbozzo di spiegazione storica è persino doveroso, perché non siamo angeli e abbiamo bisogno di riferimenti visibili, verificabili, osservabili. Ma è il solito problema: se l’uomo, come già indicato, è un anfibio, ogni unilateralizzazione è riduttiva, castrante, non conforme alla doppia dimensione dell’uomo. Due sono i vettori, come s’è visto, e due devono restare le prospettive d’indagine e di comprensione. Accanto alla ricerca di cause, non deve mai mancare l’interrogativo sul fondamento di quello che sta accadendo. Interrogarsi sul fondamento è interrogarsi sull’intera storia, indipendentemente da quello che accade e di come accada. La storia è un’esplosione, micro e macro, di idee, interessi, scopi, prospettive, valori, scelte, azioni, parole, ragionamenti, sentimenti ed emozioni, e tanto altro che fa parte della insondabile essenza dell’uomo. Ed è certo che se c’è un’esplosione si può descrivere come essa sia scaturita, ma non si può trascurare che per crearsi quell’accumulo di pressione ed energia che andrà ad esternarsi con forza, in taluni casi con un’onda d’urto da sconvolgere oltre il previsto, deve esserci necessariamente un innesco, una originaria collisione, una primigenia differenza che squilibra e determina l’esternazione evidente, forte, potente di quell’implicito.

Attorno a noi gli altri organismi si ripetono e non fanno storia, perché non ne hanno bisogno: in essi c’è già la risposta e non sono sollecitati a cercarla. E così, mentre per i primi la verifica della bontà delle risposte è la loro sopravvivenza, per l’uomo non è la medesima cosa, giacché già solo nello scegliere questa strada che rivendica il modello animale/naturale, possono sorgere seri dubbi sull’eticità di quella scelta, oltre al fatto che non si ha alcuna certezza che la risposta proposta sia l’unica da seguire.

Ritengo che si debba sfuggire ai legacci che da Hume in poi hanno bloccato ogni credibilità del nesso causa-effetto. Questo nesso è solo operativo, orizzontale, ipotetico e statistico, tutto da verificare (con una verifica, ovviamente, che di conseguenza sarà pilotata dal presupposto di quel nesso da dimostrare). Quando la causa è metafisica, direi di abbandonare il concetto e il termine “causa” e sostituirlo con “fondamento”. Teologicamente parlando, possiamo definire la linea di successione causale come “generazione”, laddove il fondamento allude alla creazione. Il primo è sostituibile, interscambiabile, precario e finito e destinato alla morte. Ma persino questa, la morte, richiama alla domanda sul suo fondamento. E questo le nega un senso per definizione, visto che come “nulla”, la morte annullerebbe anche un eventuale senso. Il senso che è il fondamento la trascende ed è la vita. Se la morte fosse il primum originario che tutto avvolgeva, tutto era nulla, nulla del tutto e dal nulla, nulla si produce o nasce. La creatio ex nihilo stabilisce da subito i due piani di lettura: quello delle cause, dove l’uomo cerca di orientarsi con nessi arbitrari che vuole rendere condivisibili e quello della creazione, che ha relazioni misteriose, relazioni che non sono finite e transeunti, precarie e destinate a morire.

Niente nella storia, nel mondo delle cause può essere assoluto o eterno; anzi è precisamente il fluire del divenire a mostrare l’imperfetto, l’incompiuto, anche se questo fluire del divenire assume spesso definizioni seducenti quali progresso, miglioramento, ricerca del meglio, evoluzione, ecc. La vita è movimento, è fluire e precarietà, è cambiamento e possibilità, è ricerca e insoddisfazione. Ma è tutto questo soltanto se accetta esclusivamente il piano delle cause, cioè la linea di successione storica.

Dio non è Causa prima: lasciamo a taluni scienziati la magra soddisfazione di ipotizzare inizi alternativi alla creazione del mondo. Ma il fondamento non può essere toccato da alcuno scienziato, giacché persino lo scienziato e la sua scienza e le sue ipotesi sull’origine del mondo e dell’uomo devono avere un fondamento sovrastorico. Infatti, soltanto perché la realtà è stata problematizzata che si ha poi la necessità di una spiegazione razionale per essa. Ma il problema nasce sempre dal non riconoscimento dell’evento per quello che è. C’è qualcosa che esorbita l’evento e che si traduce nella ricerca di un significato. Altrimenti, perché, ad esempio, la scienza? E qui, confondendo i due piani, l’uomo cerca nelle cause, nella successione storica, nel processo del prima e del poi, la semplicistica spiegazione di quanto è avvenuto: è il “prima” che spiega il “poi”. Una banalità elevata a scienza, a metodologia rigorosa, dove sono addotte prove omogenee alla spiegazione: storiche, effimere, opinabili. E in questo turbinio caotico ecco l’opera redentrice della scienza che vuole arrivare ad una legge, a qualcosa, cioè, che sia universale e che non subisca il tempo e il suo divenire precario.

Ma, ancora una volta, qual è il fondamento di questa ricerca di una legge? Di un qualcosa che valga sempre e per tutti, superando tempo e spazio (cioè la storia, la vita)?

Perché arrivare a una dimensione che, per definizione, non appartiene all’orizzontale? È come aprire uno squarcio di salvezza (l’assoluto) nel caos quotidiano (relativo transeunte). Anche qui è visibile lo stato anfibio dell’uomo, che vive le due dimensioni: il divenire precario e l’assoluto delle leggi scientifiche, la sua appartenenza allo hic et nunc, ai suoi volatili rapporti di “causa-effetto” e la sua appartenenza anche allo huc atque aliquando, dove la relazione è piena, compiuta, perfetta, senza i vincoli limitanti del tempo e dello spazio.

Il calculus è una pietruzza, un sassolino e siccome ci si è avvalsi di questi sassolini per addizionare, sottrarre, moltiplicare, dividere, noi parliamo di “calcoli matematici”. Se queste pietruzze possono essere considerate la causa della matematica, non ne sono certo il fondamento: la matematica avrebbe potuto utilizzare qualunque altra cosa, visto che è un alfabeto astratto universale presente potenzialmente in ogni uomo. Ed è precisamente quest’ultimo, l’alfabeto astratto universale innato in ogni uomo, ad essere il fondamento.


Fato e Provvidenza

Una delle forme di idolatria della storia è il fato.

Esso può riassumersi in un concetto: tutto ciò che accade non poteva che accadere ed allora accetto che sia accaduto, perché se è accaduto era giusto che accadesse. Questo atteggiamento, che Nietzsche definì “filisteo”, asservito agli eventi, succube di ciò che accade al punto da doverlo giustificare, è figlio, con buona pace di Nietzsche, precisamente di una visione ciclica (modello animale/naturale) dove impera la necessità. E Nietzsche neutralizzò, -almeno in superficie- quel filisteismo che lo coinvolgeva malgré lui, parlando di amor fati.

Credere al fato significa soltanto mettere in atto quel nesso tutto umano tra causa ed effetto e volgerlo all’evento, cercando di capire ciò che non è da capire. Persino in questo atteggiamento l’uomo è problematico e non accetta supinamente quanto accade, ma deve reificarlo in una sorta di forza impersonale superiore che definisce poi Fatum, Ananche, Karma, concetti tra loro diversi, ma analoghi. La forza del destino è la forza dei fatti, la loro effettualità, il loro accadimento, sul quale poco o nulla possiamo. E la nostra impotenza fa emergere l’ultimo possibile diritto umano che ci resta: accettare quel grande nesso tra causa ed effetto che, in realtà, è stato creato soltanto dalla nostra mente.

A ben vedere il fato è una sorta di provvidenza pagana: accettare di appartenere ad una serie di processi tanto necessari, quanto giusti che l’uomo, suo malgrado, deve accettare.

Ben più complesso è il concetto di Provvidenza cristiana, o meglio, ciò che è stato ed è comunemente diffuso per Provvidenza. E il modo diffuso di presentare la Provvidenza cristiana è precisamente la medesima che definisce il fato pagano, solo che al posto della res fittizia Fato, si sostituisce Dio: “devi accettarlo perché devi fare la volontà di Dio”; “è Dio che lo ha voluto”; “quello che ti pare negativo nei disegni della Provvidenza può diventare positivo”; “Dio ha voluto chiamare a sé il nostro caro, per un imperscrutabile Suo disegno che dobbiamo accettare”, “tutto quello che accade è volere di Dio”, ecc. una perfetta confusione tra causa e fondamento. La superiorità di Dio su ogni evento non significa che ne sia la causa.

Dio è padrone della vita e della morte, ma non ne è la causa. Ne è il fondamento. Il fondamento della vita è la pienezza, l’Essere che è e non può non essere. Completo, eterno, compiuto, appagato. La vita che concepiamo noi è quella della generazione, una parvenza della vita nella sua pienezza, una vita che per la caduta ha conosciuto la morte. Questa dunque, non appartiene a Dio. Dio può non far morire, ma certamente non fa morire. Dio non è la causa della vita come generazione. Lo è stato una sola volta, quando Maria è rimasta incinta senza aver conosciuto uomo. La causa della vita generativa sono le creature che nella loro finitezza scimmiottano “il dare la vita” attraverso il superamento del proprio limite che connota ogni umana nascita. Il fondamento della vita è Dio che è amore, perché la vita è amore e questo appartiene al trascendente, al sovrannaturale, al sovraumano. È il piano della creazione, dove la quantità di anni vissuti nella generazione non contano, dove fama o successo, ricchezza o povertà, molto o poco, -tutti criteri quantitativi-, non contano. Si è eterni nel progetto di Dio. Nella generazione vita e morte sono la cadenza del finito che noi assegniamo erroneamente a Dio. Se quello che accade, vita e morte, è volontà di Dio, se la successione degli eventi della storia sono sotto la protezione e la progettualità di Dio, perché abbiamo avuto bisogno del Redentore? Da che cosa avrebbe dovuto riscattarci? Dalla morte? Ma non è anch’essa, in questa errata concezione, volere di Dio? Dagli eventi della vita? Se così fosse, il redentore sarebbe un superfluo.

Il progetto di Dio è rivelato dal Cristo, vera Provvidenza, unica Provvidenza. Attraverso Lui, se crediamo in Lui la mia appartenenza alla generazione cadùca e mortale si innesca nella Resurrezione che mi fa partecipe del progetto eterno della creazione. La Provvidenza c’è ogni giorno, perché Gesù è figura storica ed entrando nella storia, Incarnandosi, per chiunque crede in Lui, in ogni momento, Egli diventa la via, la verità e la vita.

Questa dualità è presente sin dalla nascita: c’è quella della generazione, biologica, terrena e c’è quella fondativa, col Battesimo, vita vera perché se il Battesimo è testimoniato, è una vita che non muore.

La diffusa attuale e confusa concezione della Provvidenza altro non è che l’antico fato pagano, con un nome nuovo. Ma tutto è restato come allora: quello che succede va accettato perché doveva succedere, per volere superiore. La stessa preghiera è stata ancorata a questa visione: preghiamo per la salute, per la pace, per trovare lavoro, per tutta una serie di orizzontali finalità che è scaturita dalla nostra nascita, nascita nel/col peccato originale, cioè come condizione precaria e priva di appagamento, dilaniata e in continuo affanno. E cosa c’entra Dio con i nostri errori? Con le nostre meschinità? Facciamo quello che vogliamo e poi chiamiamo in causa Dio perché le cose vadano secondo i nostri fini.

Anche qui, Dio può tutto e può intervenire, ma è il miracolo, l’interferenza misteriosa del trascendente con la successione storica e naturale e le sue leggi. Non si tratta di un rapporto automatico per cui tutto ciò che accade lo vuole Dio. Semmai, non c’è nulla che accada dove Dio sia assente, perché ognuno di noi è stato creato per amore, prima ancora di essere stato concepito nella generazione. Egli ci accompagna sempre, ma non determina alcunché del nostro volere. Non ci costringe, non ci spinge, non ci direziona. Ci lascia liberi: per questo motivo ha inviato Suo Figlio. Lo ha inviato nel mondo generato nel male, separatosi dal progetto di salvezza della creazione. E il Figlio ha redento, riscattato, salvato, liberato il mondo dalla sua insignificanza, dalla sua precarietà senza senso, dall’esser condannato a morte per ogni cosa che ha prodotto e che produce. La morte è il senso stesso del non-senso e condannare a morte la morte significa aprire a quella pienezza della vita che ne è il fondamento. Ora anche la generazione, attraverso Colui che è stato generato ma non creato, può ritrovare la via verso l’eternità.

Dunque, che Dio sia superiore alla morte, al male, ad ogni evento della storia o della natura, non significa che ne sia la causa: un terremoto non è causato da Dio, anche se Dio potrebbe fermarlo in ogni momento; la mia morte non è voluta da Dio, anche se Dio potrebbe dilazionarla in un tempo successivo se lo volesse. Il rapporto tra Dio e il mondo non è diretto e automatico, il rapporto, come direbbe Tommaso, non è univoco, dove si confonde l’azione di Dio con l’accadere. Si ripropone l’Identità assoluta schellinghiana, confusa ed indifferenziata, dove finito ed infinito interagiscono, ma dove non si capisce dove inizi o finisca l’uno e dove inizi o finisca l’altro. Se si giustifica tutto ciò che accade perché è Dio a volerlo, tra mondo e Dio, tra finito e infinito, non c’è più differenza e l’uno e l’altro coincidono. Un panteismo mascherato, fatalista, che recupera quell’ambiguo concetto di Provvidenza di origine stoica, impersonale perché modello animale/naturale mascherato, ma che con il Cristianesimo non credo abbia molto a che fare.

Si è schiacciato l’infinito sul finito per giungere ancora una volta, erroneamente, ad un’altra forma di unilateralizzazione riduttiva. La Provvidenza di Dio è l’assolutizzazione dell’evento.


Natura e Redenzione


Tutti assumono la natura, la storia e la vita come un insieme già redento, anche se non sanno nulla di redenzione, né ne hanno percepito il significato e la necessità.

Non si può mettere in secondo piano l’evento che, filosoficamente parlando, ha voluto, a ragione o a torto, dare un senso alla vita, alla storia e alla natura.

C’è un prima e un dopo?

Sicuramente c’è una vita, una storia e una natura prima del Redentore e una vita, una storia e una natura dopo l’Incarnazione.

Nel processo degli eventi ci sono state figure o ideologie che segnano la storia come fossero state uno spartiacque: la filosofia cristiana dopo Tommaso, il vettore soggettivista e irrazionale di Lutero, la nascita della quantificazione della fisica moderna con Galileo, la scienza prima e dopo Kant, il marxismo e la psicoanalisi, per tacere di eventi storici in particolare tragici. E chi, con folle audacia, si è professato il Redentore del mondo, il vincitore sulla morte, il Figlio di Dio è rimosso con stupefacente superficialità, relegato subito nella tradizione chiesastica e popolare che ne ha fatto quello che ha voluto, ammorbidendoLo, edulcorandoLo.

Il Cristo delle comunità pasquali, che ha dato la forza alla testimonianza sino al prezzo della vita, si è trasformato in un semplice consolatore, rivoluzionario fondatore di un nuovo credo, povero tra poveri, nato in una capanna e vissuto per gli ultimi, come voce dei reietti.

Gesù non è nato povero. La capanna che già nel vangelo dell’Epifania è chiamato “casa”, era una normale abitazione, fuori le mura, certamente di pastori. E in quelle case gli animali venivano messi in fondo, a riscaldare, mentre il padrone di casa dormiva vicino all’ingresso, a sua difesa. Giuseppe era un carpentiere, un uomo, cioè, con un mestiere in mano, ricercato in zona, visto che tra pastori e pescatori, pochi erano gli artigiani e così il suo mestiere assicurò a Gesù e a Maria una vita più che dignitosa. Il primo miracolo di Gesù fu per gente di un certo livello sociale e, se vogliamo, operato su un qualcosa di non particolarmente importante. E quel miracolo non ebbe eco come tanti altri, rimanendo quasi un fatto privato tra Gesù e sua madre e qualche servitore. Una gratuità totale.

La guarigione di storpi, ciechi, sordomuti, indemoniati, lebbrosi, avviene in un contesto dove la malattia fisica era considerata una punizione per il male commesso: miracoli, dunque, che dovevano prefigurare la liberazione dal peccato, la redenzione. E siccome questi miracolandi, in genere, erano povera gente, ghettizzata e messa ai margini della società, fu quasi automatico che dietro Gesù andasse proprio questo tipo di persone. Inoltre, socialmente parlando, Israele era fatto da pastori e pescatori, gente che viveva con poco e che, dunque, sintetizzava in sé la povertà e la sottomissione, gli stenti e la difficoltà a sopravvivere. L’equivalenza tra status sociale ed economico del popolo e predicazione di Cristo indusse a vedere in Lui un cospiratore, un liberatore politico, un utopista sociale. Un equivoco che è arrivato sino ai nostri tempi, dove il Cristianesimo è sempre più una dottrina socio-economica utopista. E così Gesù, la personificazione dell’Infinito nel finito, ancora una volta, veniva e viene schiacciato sul versante finito, alla rincorsa di un eden terrestre, dove tutti vivono in pace, tutti hanno di che mangiare, tutti sono felici e contenti, amandosi gli uni gli altri nel rispetto del gregarismo che segna la nostra specie. Per questo fu scelto Barabba, anch’egli “figlio del Padre” e che fosse personaggio storico o meno, neanche interessa. Perché è Barabba il riferimento orizzontale del liberatore, lui capo degli Zeloti, rivoluzionario e idealista, combattente coraggioso per il suo popolo. In quel verdetto conclusivo, dove in Gesù “non si trova colpa”, dove il popolo sceglie Barabba, si può leggere il modello animale, un messianismo tutto terrestre che invade ogni aspetto della vita e che in quei tragici momenti non ha permesso di riconoscere chi davvero fosse Gesù. O meglio: la scelta di Barabba, fa comprendere come in realtà si fosse compreso chi fosse Gesù e per questo si è scelto una guida che parlasse la lingua, -umana troppo umana-, dell’orizzontalità.

Il crocevia di ogni vita, di ogni storia, della natura tutta, è qui: la scelta di Barabba al posto di Gesù è l’ultimo atto della violenza dell’esistere, della sua essenza invasiva, della sua unilaterale spietata manifestazione. In un certo senso, la Crocifissione ne è una diretta conseguenza, che ha già, in nuce, la vittoria sul vecchio mondo.

Se abbiamo il dovere di vivere le nostre due dimensioni, nel costante equilibrio che rappresenta la grande complessità dell’essere umano e la nostra responsabilità nel creato, come modello non possiamo prendere noi stessi, cioè non basta vivere la nostra condizione anfibia. Questa è un mezzo, non può essere il fine. Il superamento dell’unilateralità è indefinibilità, alla quale noi, per altri organismi, diamo la definizione di “anfibio”. Questo significa niente altro che non si è né di terra né di acqua, ma di entrambi. Stando così le cose, o si accetta l’equilibrio difficile e arduo tra le due dimensioni o si assolutizza l’una o l’altra, sminuendo, svilendo, depauperando la ricchezza che è l’uomo. L’uomo non è, né può essere modello a se stesso. È la prima forma di idolatria. E quando dico che non può, intendo allargare questo modello umano a tutte le produzione che l’uomo ha progettato e che hanno delineato la sua storia, la cultura, l’esistenza. Il modello deve scegliere all’interno delle due dimensioni: quale parte dell’uomo possa rappresentare il suo riferimento. E questo, non deve essere la dimensione materiale, che pure non va mai trascurata o perduta come valore transitorio, ma che come valore assoluto, essendo terreneità precaria, non potrà mai essere. È l’assoluto nell’uomo che deve diventare il riferimento assoluto. Nell’uomo questo assoluto è una traccia destabilizzante la sua animalità, ma che deve trovare il proprio compimento oltre l’uomo, oltre la sua storia, oltre la cultura, oltre ogni esistenza generata. Questa, come ricordato il mercoledì delle Ceneri, è nulla e ogni folata di vento la spazzerà via.

Dunque, dovere profondo è quello di vivere pienamente la propria generazione, la propria condizione anfibia, ma non per farla diventare fine a se stessa, ma per direzionarla a quella parte che è migliore, imperitura, compiuta, eziologica. Soltanto così si è fedeli all’eterno, al progetto di Dio, alla creazione, e si è destinati a superare il nulla che siamo e che è in noi e di cui la morte, essenza della generazione, è “compiuta entificazione”.

Una volta nati, -ha ragione Heidegger-, la nostra essenza diventa la morte. Ma qualcuno ci ha liberato da questa ineluttabilità, aprendoci la via all’oltre, quell’oltre che è già il fondamento della vita, il piano creativo che non muore e al quale possiamo liberamente aderire credendo nel Cristo Risorto. L’attuale retorica del diritto alla morte è la manifestazione più evidente, purtroppo, di voler appartenere alla sola sfera biologica della precarietà terrena, di cui voler disporre coerentemente sul piano meramente soggettivo.

L’universale o precede e fonda ogni particolare o è irraggiungibile ed è concetto fittizio. Dal particolare all’universale non si giunge, in quanto l’universale non è concetto quantitativo, estensivo[SR1] [SR2] [SR3] [SR4] [SR5] , completabile[SR6] da una estensione pure fortemente amplificata, ma concetto qualitativo, che non dipende da alcun numero, più o meno esteso. Già solo parlare del particolare che potrebbe raggiungere l’universale (metodo induttivo, metodo sperimentale) significa presupporre lo schiacciamento dell’universale sul numerabile e quantificabile e, per questo motivo, diventa conseguenziale la domanda: quale è il numero degno per far passare un’esperienza da particolare all’universale?

Quale numero di esperienze va raggiunto per essere autorizzati a dichiarare queste esperienze come base di una legge universale? Chi stabilisce la “linea Maginot” oltrepassata la quale si è in campo non più quantitativo, ma qualitativo? E in base a quale criterio?

Come parlare allora di verità scientifica? Di diritti universali?

Perduto, come oggi è, ogni riferimento all’universale, ci si deve accontentare di un’alta percentuale (alta in quel momento e per quel frangente), di un numero rassicurante (gregarismo intellettuale!), di un’estensione misurabile (controllo per timore), il tutto spacciato per universale, che, però universale non è. Ancora una volta, una legge animale trasfigurata viene assunta come specifico umano, senza esserlo, senza avere quella diversa qualità che giustificherebbe la sua appartenenza all’uomo. Infatti, un numero esteso è sempre questione numerica: il +, che è più esteso, più numeroso e, si pensa banalmente, sarà anche più giusto (semplicemente perché è il più forte), diventa il criterio metodologico, diventa scienza, sicurezza consolatoria per la gente. Un mero criterio naturale (non solo animale, visto che coinvolge anche il mondo delle piante) dove “il più” domina e che poi, nell’umano consorzio, viene sublimato, edulcorato, trasfigurato in chissà quale valore! Tutta la cosiddetta democrazia occidentale si muove spesso su questo criterio, mascherato dal termine “maggioranza”, dai conteggi numerici, dalle oscillazioni quantitative, misurabili e, per questo ritenute oggettive e universali.

È facile e possibile supporre manovre oculate, ben precise, di poteri che sanno come orientare diversamente la gente, prona di fronte ai media e acriticamente gregaria, come tante formiche, tutte dedite al lavoro, a testa bassa, che seguono l’andamento generale dato dalla cultura dominante che quei poteri hanno creato. Così, questa gente, democraticamente, oggi sostiene con “convinzione” quello che ieri detestava, con la stessa superficialità ogni volta à la page, pur di essere ben integrata e in linea con quello che “si dice” e “si fa” e “si pensa”, per sentirsi come tutti gli altri, per pensare come tutti gli altri, per essere accettati ovunque si vada.

Questa, solo questa, è la “verità” di cui oggi ci si accontenta e che si spaccia per tale con presunzione: è un’opinione allargata, condivisa, o, come si suol dire oggi, ampiamente condivisa, di ampie convergenze. Generalità, maggioranza, unanimità sono le sue parole d’ordine. Non sono bastati millenni di speculazione filosofica a smantellare questa radice tumorale del soggettivismo, ora semplicemente allargato numericamente; non sono bastati secoli di scienza per far capire che l’uomo ha bisogno vitale di universalità, per la conoscenza, per la morale, per qualunque riferimento di giudizi di valore. Tutti rincorrono la metodologia scientifica, una sorta di documento di serietà, rigore e certezze, assegnando ad essa una valore assoluto che non ha, pure se pretende di avere. Ma questo anelito alla scientificità evidenzia quanto sia necessario all’uomo un approdo di certezze indiscutibili, riferimenti insindacabili, via maestra fra tanti sentieri più o meno tortuosi, più o meno interrotti. Viv

iamo nel particolare, ma questo è uniforme, omogeneo, equivalente, dunque caotico e, per questo motivo, disorientante, è un ammasso di opinioni, con le quali siamo bombardati ogni giorno e dalle quali cerchiamo di capire e orientarci, affidandoci ora a questo, ora a quello e, alla fine, a se stessi. Un riferimento assoluto, per definizione, non può essere storico, né può essere partorito dalla storia (o se si vuole, dalla natura o dall’uomo). Il riferimento assoluto che è Bene, Verità, Bellezza, Giustizia, non può essere sostenuto, avallato, affidato ad un’opinione condivisa, votato a maggioranza o all’unanimità, tutti criteri arbitrari, interscambiabili, mutevoli, perché storici. La assurdamente dimenticata “dittatura del relativismo” è tale perché, come dicevo, c’è l’apparente tolleranza (tale soltanto perché non si ha alcun interesse per l’idea altrui, inconsapevolmente percepita come una mera opinione passeggera) di dire che ognuno ha il diritto di pensare quello che vuole e dire quello che vuole e fare quello che vuole, ma poi si ha la presunzione o di autoappagarsi della propria opinione (che se davvero considerata paritaria alle altre mi dovrebbe far chiedere: “ma allora, onde evitare contrasti o litigi, perché non condividere le opinioni di chi sto criticando?”), oppure, di dettare all’altro regole rigide al dire, al pensare e all’agire, del tutto infondate, in quanto fondate esclusivamente sul “diffuso”, sull’esteso, su quello che tutti o la maggioranza accetta e segue e (passando dalla supina passiva condiscendenza alla fase attiva pseudopersonale) impone. La gerarchia rispettata è la medesima di qualunque gruppo animale, con una leadership che fa da battistrada imponendosi in qualunque modo, con i valvassori della moda (imposta dalla leadership) pronti a diffonderla e poi con una serie di figure secondarie, passive, pronte a seguire la scia e che poi, gregariamente, si mettono in proprio per confermare e scimmiottare e diffondere il nuovo verbo.

L’animalità è la grande tentazione: è quella regressione ad uno stadio che, viste le complessità insormontabili ed irrisolvibili dell’esser uomo, appare come un miraggio di salvezza. La natura è buona, è incontaminata, è pura, provvede a tutto, e banalità del genere vorrebbero costituire l’alibi per un illusorio ritorno alla natura, mai esistito, giacché l’uomo considerato solo natura, non è più un uomo, ma un animale, avendo estromesso la sua dimensione sovran-naturale. Dire dunque “tornare alla natura” significa mascherare il desiderio di essere animali e non uomini, di non voler vivere la responsabilità e i problemi dell’esser uomini, sognando quell’indifferenza a tutto che animali e piante manifestano ogni giorno. Ci si accorge, oscuramente, che animali e piante, sul piano naturale, sono più perfetti di noi, sono creature appagate, sono ciò che devono essere, e questo attrae, seduce, coinvolge. È una tentazione continua, perché esser uomini è faticoso, in quanto lo si è soltanto inverando ogni volta la nostra parte animale. Inverando significa “umanizzando”, dando all’animalità un senso, un significato, che non sia semplicemente quello fisiologico-naturale.

Un grande ossimoro sorregge questa confusione: l’uomo che cerca la libertà nella natura. Quante volte la natura è stata chiamata in ballo per rappresentare con i suoi spazi immensi il senso di libertà umano! E’, ancora una volta, una forma di reificazione e di inversione causa-effetto, un errore di prospettiva che imperversa e continua a produrre caos valoriale. Se c’è un àmbito che è il contrario della libertà è proprio la natura! La natura è determinismo, necessità, inesorabile susseguirsi identico di eventi, dove tutto è come è e accade come accade, senza alcun senso se non quello autoreferenziale di conservarsi. E perché mai allora l’uomo si sente così libero in essa?

Non si vuole, non si riesce a comprendere che è lo spirito che investe di possibilità quello spazio, quell’orizzonte, che si stupisce per quei colori che gran parte degli animali percepiscono in modo diverso o non percepiscono. Di fatto, questo stare soli e liberi in natura è come una forma di rigenerazione, di una microvita ex novo, come quando, da bambini, si iniziava un nuovo quaderno. La sensazione dell’inizio, della molteplice possibilità che quei fogli bianchi suggeriva, bene si coniugava con questa idea del ricominciare daccapo, da una nuova e virginale scaturigine. Ma come per il quaderno, così per la natura, è lo spirito umano che li investe di questi significati ed assegna loro una sorta di icona simbolica, quella della palingenesi, del poter dire e fare e pensare ex novo, come un ri-creare il mondo.

Quaderno e natura sono solo cose, realtà per se stesse chiuse nella propria ottusa funzionalità.

Ma il bivio che si apre davanti ad ognuno di noi non è soltanto sul piano esistenziale, sul piano della nostra vita quotidiana. Si tratta già di una conseguenza.

La volontà di sopravvivere che segna l’intera natura e che guida l’ipotesi evoluzionista non può che essere una legge violenta. È radicata sull’ego, sul proprio diritto di esserci, a qualunque costo e in qualunque modo. Dall’atto sessuale che vìola un altro corpo, lo penetra e lo trasforma, al concepito che si fa largo nel ventre di un’altra creatura nutrendosi di quanto essa si nutre, fisicamente, biologicamente, psicologicamente, sino al parto, dove il farsi largo abbandonando il precedente sito è per appartenere di diritto a un altro sito, dove esercitare la medesima pretesa di esserci, di rafforzare il proprio ego, di sopravvivere. E tutto il nutrimento, fisico, biologico, educativo, psicologico, culturale, identitario, valoriale, sociale, economico, politico, religioso o ateo, affettivo, sessuale, dipende dall’altro, è l’altro. Tutto è nelle mani dell’altro, ma viene accaparrato in maniera autoreferenziale, per sé e basta. Dipendiamo dall’altro nel nostro modo di essere così e non altro, dobbiamo nutrirci di altro (non possiamo nutrirci di noi stessi) e questo processo di graduale assimilazione diventa persino criterio dell’apprendimento: l’ego deve amplificarsi, solidificarsi, fare proprio quello che è di altri.

Si dirà: ma è così, questa è la vita! Certamente. Non si tratta di cercare alternative, che non ci sono, ma di comprendere la valenza violenta della vita e, dunque, la sua necessità profonda, essenziale, di redimersi, di riscattarsi, di uscire da questo gioco perverso causale di “egoizzazione” cui ogni vita tende.

Abbiamo identificato il peccato in maniera pretesca, come se la vita fosse bene e poi, in essa, qua e là, l’uomo la va a condire di cattivi ingredienti, più o meno veniali o mortali. E questo non ha fatto capire nulla dell’importanza unica e straordinaria della Redenzione: “è venuto per i nostri peccati!”. Ma che vuol dire?! Che non li commettiamo più? Certamente no! Che ci vengono automaticamente perdonati? Certamente no! E allora? È talmente gratuito quest’atto redentivo da essere stato diffusamente ridotto a categorie insignificanti, come quelle umane. Eppure ci hanno parlato del “nuovo Adamo”, del “peccato originale”, dell’ombra del peccato che avvolgeva la natura… La generazione non è la creazione, ed è la generazione ad essere sottomessa al peccato della sua origine, non certo la creazione che ha questa sua origine in Dio. Ed è la vita, nella sua interezza, nei suoi meandri più nascosti e dimenticati, ad essere redenta, a cominciare dal mangiare e bere, per poi passare via via attraverso la sua precarietà, sino a quella estrema del dolore e della morte. Allora comincio a capire perché devo (me lo impone Gesù stesso) mangiare il Suo Corpo e bere il Suo Sangue, atto cruento, cannibalesco, tanto fastidioso quanto, però, conforme perfettamente al fatto che il nutrimento, base della sopravvivenza, andava svincolato dalle ferree catene della necessità naturale, che ci accomuna alle bestie, liberato dalla dipendenza dall’ego e dai suoi bisogni, redento dalla schiavitù della legge naturale. Così come i sacrifici dell’Antico modo di collegarsi a Dio, nell’immolare bestie od offrire altro presentavano una imago, seppur imperfetta della gratuità, che sottraeva quanto necessario a vivere per offrirlo all’Essere extraumano, il capovolgimento semantico del sacrificio che fa dell’Essere extraumano la vittima per l’uomo (che resta in entrambi i casi il “boia”) porta a compimento la gratuità. Non è più l’uomo ad appropriarsi di altro per nutrircisi, ma è l’Altro, che ogni altro raccoglie e invera, ad offrirsi, gratuitamente, trasformando una bestiale necessità naturale in una comunione, in una “unione con”, dove l’altro resta “salvezza”, ma non più sul piano naturale, orizzontale, precario, dove si continua ad aver fame e sete.

Dio che s’incarna, che diventa uomo, santifica ogni cosa dell’uomo e l’uomo stesso, sempre che egli lo voglia. È sempre l’universale che dà senso, fondamento, orientamento ad ogni particolare.

Ma perché chi è convertito non muore? Quale migliore occasione per far comprendere come la salvezza è legata alla scelta libera dell’uomo che dice sì al piano della creazione, della salvezza, al piano del Redentore che ci libera dalla morte. E invece torna l’animalesco attaccamento alla vita orizzontale: pace, benessere, lavoro per tutti, vittoria sulla pandemia ed altre malattie, ecc. un vero e proprio eden terrestre, che se davvero si realizzasse, non richiederebbe alcuna salvezza, alcun Redentore, alcun Dio. L’uomo basterebbe a se stesso. Così, un monito a direzionare la vita, a superare il piano della generazione inverandolo in quello della salvezza, è diventato, nuovamente, un’attenzione umana, troppo umana, alle cose di quaggiù. e allora ci si chiede: perché mai Gesù non ha ridato la vista ad ogni cieco, guarito ogni lebbroso e malato, risuscitato ogni Lazzaro, moltiplicato il pane per tutti e risolto così almeno la fame del suo popolo, perché non ha combattuto le ingiustizie sociali, economiche, politiche, come gli zeloti?

Non gli è bastato dirci che la pace, la Sua pace non era quella del nostro mondo, che il pane che ci ha dato non è quello che ci sfama nel quotidiano (che pure chiediamo per esser vivi e degni di Dio), che il vino non è quello delle nozze di Cana, ma un vino salvifico che non ci farà più sentir sete, che la risurrezione di Lazzaro è un palliativo consolatorio destinato nuovamente alla morte. Si corre spesso l’errore di trasformare Gesù in un qualunque Barabba. Così continuiamo a fare di Gesù un liberatore orizzontale. Se stiamo a sentire le cosiddette preghiere dei fedeli, ci accorgeremmo che, di frequente, per lo più sono la trascrizione edulcorata e buonista di un qualunque elenco di richieste sindacali: pace, sicurezza, lavoro, benessere, contro ogni povertà, miseria, abbandono. Niente di “celeste” attraversa queste richieste, come se,-e avviene sempre, inesorabilmente-, il tempo che si vive, solo perché dominato dai viventi di quel tempo, è il più importante, è un tempo particolare, di grandi crisi, di sconvolgimenti, di gravi difficoltà, nell’ignoranza che è questa la perenne condizione di ogni tempo, passato e futuro. Ognuno si ritiene centrale nel tempo che vive e giudica unico il tempo che vive. La solita assolutizzazione del particolare. Se davvero Dio desse ascolto a quelle preghiere dei fedeli, l’utopia si farebbe storia, la storia si farebbe eden e l’uomo si farebbe Dio, autosufficiente, felice, appagato. Viene messo dentro a queste richieste il Signore, ma ciò che si vuole raggiungere è la piatta disinquieta condizione animale, dove tutto trova la sua risposta più conforme. Non ci si riesce ad abituare al fatto che la nostra condizione anfibia, non è lacerata da mancanze terrene, ma dalla vocazione alla pienezza dell’infinito. E chi ne dovrebbe parlare, chi dovrebbe testimoniarlo -Chiesa, papa, preti & co.-, hanno ridotto questa inquietudine verticale ad una mera ricerca di un benessere orizzontale, dove l’inquietudine che nasce dall’infinito nell’uomo è ridotta alla mera ricerca di una tranquillità di vita orizzontale. Gesù non si è mai affannato a cercare malati e poveri per risolvere il loro disagio terreno. Questo, il disagio terreno, che piaccia o non piaccia, non conta nulla, è destinato a finire, sia che si tratti di disagio che di agio. Non è la soluzione del disagio ciò che conta, ma è fare dell’altro il mio fondamento e questo non implica necessariamente che lo esaurisca nello sfamarlo. La base terrena della solidarietà è mutevole e se oggi aiuto perché posso, voglio, il tutto su basi soggettive e mutevoli radicate nella storia, rifiutare l’aiuto all’altro è possibile, alla stessa maniera e nella stessa misura, in quanto avendo radicato la solidarietà su basi storiche, in esse c’è anche il contrario, visto che nella storia nulla c’è di assoluto. La filantropia non è valore, in quanto se le sue radici sono, come sono, soltanto storiche, inscritte magari per natura nella difesa della specie, per gli stessi criteri posso scegliere il contrario: non salvare o salvare chi mi interessa salvare e mi è più vicino, secondo criteri storici e/o naturali.

Solo se l’altro è assoluto ha senso l’aiuto. Ma la carità, il particolare, deve avere radici nella verità (universale) e questa è sovrannaturale, sovrastorica, sovraumana. È gratia, senza contropartita, al punto che dovrei imparare ad amare persino il mio nemico, chi, cioè, è talmente altro da sentirsi un estraneo ostile rispetto a me. Se il cristiano si riconoscerà dal modo con il quale amerà, secondo le parole del Redentore, vuol dire che c’è una specificità tutta cristiana che non è presente in altre forme di amore. È un concetto che ho già affrontato, ma che, credo, sia opportuno ribadire. Se amo senza Dio, il mio amore è affidato a me, all’altro, alla orizzontalità storica, alla nostra precarietà, alla nostra soggettività. Non può neppure, in senso stretto, essere definito un valore, giacché “vale” quanto il suo contrario, l’odio, altrettanto storicamente fondato, altrettanto opinabile, altrettanto soggettivo. Amare solo umanamente, per così dire, è condannare questo amore alla fugacità, all’interscambiabilità, al mutamento, alla fine, come tutte le cose terrestri. Ma se l’amore ha una base trascendente, dunque sovra-storica, cioè assoluta, diventa valore oggettivo, non più precario e interscambiabile, ma, appunto, valore assoluto, eterno, al di sopra dello schema animale del gregarismo, della mera funzione sessuale, generatrice, mercantile (cioè del dare e ricevere). Amare incondizionatamente è il riflesso fedele dell’Ammore come assoluto. Dunque la gratia, la gratuità (ciò che è gratis non vuole contropartita). Ed ecco allora come si inserisce l’amare il proprio nemico, la gratuità più radicale, quella che certamente non mi farà avere nulla in cambio. Se amo chi mi ama, sono umano, troppo umano e chi mi ama potrebbe cambiare così come, di conseguenza, il mio amore. La volubilità di ciò che è storico non appartiene all’amore, che regge l’universo e la relazione tra gli uomini e che, pur potenziale in ogni uomo, ha scomodato Dio perché ci fosse rivelato, tanto è difficile coglierne l’autentico significato.

È questa base metafisica a rendere riconoscibile il cristiano e il suo modo di amare, come ammonisce lo stesso Gesù. Un amore solo storicamente fondato, infatti, vale come il suo contrario. È trasformato in opinione. Non è la verità per cui si esiste e si dovrebbe esistere.

[1] A. Rosmini, Filosofia del diritto, Cedam, Padova 1967-69, IV, 898 [2] Ritengo che la smisurata importanza data oggi alla particolarità, alla personalità, sia uno degli elementi che rappresenta la denuncia di uno stato di frammentazione soggettivista dal punto di vista socio-culturale, e, nel contempo, un educare a dimenticare, sottovalutare o ignorare l’universale. Siccome questo non è alienabile, ecco che ricompare, -a partire dal soggettivismo però-, quella nostalgia all’universalità che ha nell’omologazione la sua pessima decadente sua brutta copia. La confusione tra universalità e generalità ha qui le sue radici. [3] Lucio Lombardo Radice, Figlio dell’uomo, in I. Fetscher, M. Machovec (a cura di), Marxisti di fronte a Gesù, Queriniana, Brescia 1979, p. 26. [4] Non è la stessa cosa per il concetto di “causa”, reificato dall’uomo. Per questo se ne parlerà quando si ricorderà il contributo, malgré lui, di David Hume. [5]Gustavo Bontadini, Dal Problematicismo alla Metafisica, Vita & Pensiero, Milano 1996.

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