ASSUNTA: La festa dell’Assunta richiama uno dei pochi dogmi della Chiesa cattolica. Ma i dogmi non piovono dall’esterno senza connessione logica. Se Maria è Immacolata Concezione, altro dogma, dunque nata senza peccato originale, non può poi morire, perché la morte riassume tutte le conseguenze del non-senso del peccato originale, atto idolatrico dell’uomo che si vuole sostituire a Dio. Maria è Assunta perché Immacolata Concezione.
ATEISMO: Ogni forma di ateismo evidenzia l’ultima paura, la paura dell’Altro davvero tale, davvero oltre. Non riuscire a tagliare davvero il cordone ombelicale con la propria appartenenza, la sola che dia sicurezza e protezione, l’appartenenza all’orizzontale visibile. Una forma di immaturità ontologica. E ancora: nell’ateismo e nei suoi rappresentanti, a vari livelli, è ancora presente l’equivoco di ritenersi su posizioni più valide rispetto al credente, in quanto razionali e sperimentabili. Cioè, posizioni certe, obiettive, forti di chissà quali dimostrazioni, quando in realtà queste si riducono a poche banalissime evidenze, espresse prevedibilmente da ogni uomo, anche di fede: la non visibilità e sperimentabilità di Dio, la possibilità di spiegare le cose attraverso la scienza, la presenza del male nel mondo, ecc.
Sarebbero queste ed altre analoghe, come costantemente viene dichiarato anche da figure di un certo rilievo pubblico queste grandi prove da opporre all’esistenza di Dio?
Di fatto la scelta atea è un atto di fede anch’essa.
CALENDA: Leggo quanto riporto: «Riassumere l'Europa in una croce vuol dire avere scarsa conoscenza della storia e poca frequentazione della cultura liberale. Il minimo comune denominatore dell'Europa è la democrazia liberale e lo Stato di diritto»- ha scritto Calenda sui propri social postando il tweet di Antonio Tajani nel quale c'era, invece, una difesa della radice cristiana dell'Europa». Ormai non c’è più pudore. Persino l’ignoranza ha il suo pride. La democrazia liberale e lo stato di diritto da dove sono nati? Come mai sono presenti nell’Occidente cristiano e mancano totalmente in Oriente e nei Paesi islamici, cioè nel resto del mondo non-cristiano? Credo che Calenda faccia meglio a tacere e a studiare meglio le radici dell’Europa, la creazione delle Università (universale=cattolico) in àmbito ecclesiale, le più grandi scoperte e novità operate da sacerdoti o monaci (per ricordarne solo alcuni in ordine sparso Copernico, Keplero, il padre della genetica Mendel, Galvani, Ruggero Bacone, Gassendi, Gemelli, Georg Lemaître, padre della teoria del Big Bang, il vulcanologo Mercalli, Luca Pacioli, Spallanzani, il catechista Alessandro Volta Stoppani, Saccheri pioniere della geometria non euclidea, e altri non ricordati perché meno noti al pubblico) per non parlare del ruolo originario avuto dal Monachesimo nel salvare quella stessa cultura che oggi definisce ciò che chiamiamo Europa. Dove era il liberalismo? Lo Stato di diritto? Figliolanze cristiane, come al solito, “usurpate” da una laicità senza alcuna propria specifica identità.
CONTEMPORANEITA’: Quando guardo uno dei tanti affascinati documentari sulla vita animale, al di là delle immediate suggestioni, alla fine la conclusione è sempre la stessa: mangiano, si accoppiano, si divertono e giocano, si riposano, cercano sempre il proprio benessere, si difendono con aggressività dagli avversari in amore e da ciò che è ostile al proprio utile. È chiaro che l’attuale umanità, tutta presa da quei medesimi obiettivi, non può vedersi molto diversa dal mondo animale, di cui si sente, di conseguenza, parte integrante. A vedere ciò che ci accade attorno, come dare torto a questa identificazione? Come non scorgere in questa contemporanea voluta convergenza tra animalità e umanità, -convergenza sino alla loro confusione-, l’elezione di quelle finalità basiche che qualunque bestia (e a modo suo qualunque pianta) perseguono da sempre? È una triste e avvilente constatazione finale per un essere che dovrebbe dimostrare invece di essere uomo.
CONVERSIONE: Il Cristianesimo non è stato capito ma frainteso ed è stato frainteso perché noi Chiesa non siamo riusciti nei millenni ad esserne degni. Le conversioni al Cristianesimo, quelle senza violenza ovviamente, avvenivano spontaneamente quando chi non credeva incontrava gente santa, autentica, con le sue debolezze ma vera nella sua testimonianza e capace di dare autorevolezza e senso specifico a quella vita. E il Cristianesimo si è diffuso e radicato.
DARWINISMO: A rinforzare in Occidente certe tendenze naturalistiche e/o animaliste che assolutizzano la natura, definendola impropriamente come una sorta di madre premurosa e giusta, o come un’entità che tutto spiega oppure, altro aspetto della medesima medaglia, mettere sullo stesso piano il valore della vita umana con quella animale (se non addirittura, in certi casi, capovolgerne persino il valore!, confondendo la vita biologica con il suo significato), altro non è che l’amplificazione di questi atteggiamenti panteistici sorretti, in/dall’Ottocento, a partire anche dall’uso ideologico del darwinismo. Se l’uomo proviene dal mondo animale e ne è una delle tante derivazioni, allora si è giustificati a prendere l’’antica madre’ come riferimento assoluto, così come una volta si prendeva Dio Creatore come Assoluto.
DELITTO D’ONORE: L’aborto, fra qualche anno verrà giudicato come è stato giudicato il delitto d’onore: un’imposizione tacita operata da un genere (prima maschile per il delitto d’onore, poi femminile per l’aborto) e ci si chiederà come fosse stato possibile accettarlo. Eppure ieri per l’uno, oggi per l’altro si sono tacitate e si tacitano le coscienze e tutto sembrava e sembra giusto e lecito.
DEMOCRAZIA?: leggo che i “soliti noti” a Nizza si sono opposti alla direttrice d’Orchestra Beatrice Venezi perché etichettata come “neofascista” in quanto avrebbe mostrato simpatie per l’attuale Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e con la colpa di essere stata nominata Consigliere per la musica dal Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano all’interno del Governo-Meloni. Si tratta di dodici associazioni che l’accusano di essere neofascista e hanno chiesto all'Opera di Nizza e al sindaco della città francese di annullare il Concerto di Capodanno da lei diretto.
Ora una breve riflessione: c’è qualcuno nel passato o nel presente che abbia mai contestato, ad esempio, Moni Ovada solo perché ebreo e neocomunista o a suo tempo, nel campo della musica leggera, per fare solo pochi esempi, si sia schierato contro Umberto Bindi o Elton John solo in quanto omosessuali? E per entrare ancor più nel particolare, forse che non si riconosce e non si celebra il ruolo svolto dal Nizzardo per l’Unità d’Italia, pur sapendolo ateo, massone e guerrafondaio (visto che dove c’era da combattere c’era lui, sotto la maschera libertaria, come un soldato della legione straniera o un mercenario)?
Perché ho riferito di questi particolari “contraltari”? Perché, stando alla sinistra democratica, supponente e presuntuosa, quella bene espressa dalle dodici associazioni nizzarde, ebrei, comunisti, omosessuali, atei, avrebbero dovuto e dovrebbero tuttora costituire i bersagli preferiti dell’eventuale opposizione e contestazione fascista e neo fascista. Ma si è mai sentita una polemica o una contestazione quando questi personaggi ricevevano un invito o un incarico artistico o culturale, pur essendo ebrei o atei o omosessuali o comunisti? Che io ricordi, mai.
Ma vuoi vedere che i veri unici fascisti che ancora restano, purtroppo, sulla faccia della terra sono proprio questi paladini della democrazia (di sinistra, omologata e omologante)? I nuovi inquisitori che si sentono legittimati ad una nuova caccia alle streghe fasciste, quando sono precisamente loro ad esserne paladini ed epigoni oinconsapevoli?
Non contano più gli anni di fatica, di studio, le competenze, la bravura di una persona: quello che conta per certi idioti che continuano a parlare senza vergogna è l’ideologia. O sei dalla loro parte o sei fascista! Una nuova caccia alle streghe, una selezione non biologica ma ideologica, radicalmente razzista, una cecità che è la stessa dei talebani che hanno abbattuto le statue del Buddha. Ricordate come proprio soprattutto la sinistra attaccò questi gesti oscurantisti?
Non si rientra nell’ideologia di sinistra? Si è condannati automaticamente.
E chiedo ancora: non era questo, precisamente questo, il criterio per i nazisti e per i fascisti (ma non dimentichiamolo, anche se viene sempre ad arte taciuto, per i comunisti, con le loro radici staliniane, o castriste o maoiste e di altri personaggi della variegata fauna rossa, ridicola come l’attuale comunista Kim Jong-un, della Corea del nord, guarda caso anch’essa definitasi “democratica”) non era proprio questo, dicevo, il criterio che li ha definiti dittatoriali, razzisti, antidemocratici e sanguinari?
Persino la grandezza del messaggio evangelico è stato piegato a queste logiche politiche e sono nati i “cristiani conservatori”, i “cattocomunisti”, i “cattolici progressisti”. E anche qui, discriminazioni dall’una e dall’altra parte. Tutto questo è davvero penoso.
DOMANDA RELIGIOSA: La domanda innata in ogni uomo è religiosa, religiosa nella forma, non nei contenuti: questi, infatti, possono anche apparire come meri contenuti materiali, persino immorali, ma l’insoddisfazione che procurano una volta raggiunti chiarisce che non erano quelli i veri fini da raggiungere e così, di nuovo, come sempre, ecco rincorrere nuovi obiettivi, perché la domanda è inesauribile, trascendente appunto. Va da sé, allora, che le risposte, libere perché la domanda è formalmente carica d’infinito, producono ciò che si chiama cultura, entro la quale si muovono anche i processi religiosi.
Ma non si può e non si deve partire dalla storia per capire i processi religiosi, ché altrimenti, per definizione, sarebbero tutti equivalenti, in quanto prodotti di cultura, soggetti tutti a cambiamento, trasformazioni e declino, sino al loro possibile annientamento.
In L’essenza del cristianesimo persino Feuerbach riconosceva che “la religione è coscienza dell’infinito”[1]. Dunque, la domanda religiosa è innata, secondo le indicazioni di Agostino (Dio si presenta nelle domande “innaturali” che l’uomo pone a se stesso, alla natura e alla storia, senza trovarvi risposta, come viene ricordato nelle Confessioni). La storia e la cultura altro non sono che una serie di risposte molteplici e mutevoli che cercano di saldare una frattura ontologica innata, dovuta proprio a questa presenza (il soffio di YHWH in Adamah, dunque una natura-argilla-terra dove risiede la traccia di Dio) che devasta il quieto adeguarsi alla vita come avviene per gli altri organismi. Non è naturale problematizzare la vita, la natura, ecc. Lo si fa perché questa “traccia celeste”, “celeste dote negli umani” per dirla con Foscolo, ci fa riconoscere la natura inadempiente e ci spinge, attraverso la ragione (strumento innaturale, al punto che viene in soccorso alle insufficienze proprio della natura) a trovare soluzioni alternative al nulla di risposte naturali. Di qui la spiegazione del leopardiano Canto notturno del pastore errante e la stessa denuncia di una “natura matrigna” che, se Dio non c’è, dovrebbe essere nostro padre e nostra madre, la nostra unica radice e che, viceversa, ci tradisce e ci lascia senza risposte.
Dunque ribadisco come la domanda sia sempre essenzialmente religiosa, pur solo inizialmente nella forma, cioè nel suo porsi oltre la realtà vissuta, individuale, naturale e sociale. Porre una domanda significa sovrastare ciò che si sta problematizzando: un soldato, ad esempio, che ponesse ad un ufficiale la domanda sul perché la vita militare e la caserma, non sarebbe un buon soldato (un soldato “evoluto”), ma un dissidente potenziale, un soldato ribelle che sarebbe punito per aver messo in discussione l’intero sistema. E l’uomo precisamente questo fa. Come il soldato richiede una giustificazione della caserma che sia oltre la caserma (ad esempio, “la difesa della patria”), in quanto spiegare e descrivere semplicemente quello che accade all’interno della caserma e della vita militare non fornisce il senso al tutto, così per la domanda che ogni uomo in quanto uomo fa e che investe l’esistenza propria ed altrui, non è sufficiente armarci di scienza e descrivere e conoscere (almeno si presume) dettagliatamente ciò che accade all’interno di questa esistenza per darle un senso, un fondamento. E’ necessario oltre-passare il tempo e lo spazio, l’uomo, la natura e la storia per azzardare un’ipotesi di risposta. Qualunque essa sia (ci si può accontentare anche di risposte di basso profilo), la “natura” della domanda è sovrannaturale, ribelle rispetto al sistema naturale e storico, dissidente in relazione alla mera conservazione dell’esistenza, senza domande, che produce ogni altro organismo.
EDIPO: L’Edipo (e il corrispondente complesso di Elettra) cosa ci può dire oltre al livello semantico strettamente psicoanalitico? Che la maggiore età o, se vogliamo, lo stato di adulto e indipendente, si raggiunge soltanto se l’Edipo viene superato, cioè se non si confondono i legami di sangue, cioè i legami naturali, con quelli culturali, con quelli sociali. L’esser figli non va confuso con il voler essere mariti e mogli.
L’acquisizione responsabile del rapporto di coppia deve superare lo schema e il modello della famiglia di appartenenza, in senso stretto o allargato: non sono le figure maschili o femminili con le quali si è legati per parentela che devono avere valore di modello, di paradigma per la scelta, ché altrimenti si resta all’interno dei legami di sangue, dentro ai legami imposti per natura dalla natura, per via diretta (discendenza diretta) o per via indiretta (parentela acquisita). Significa non aver superato l’Edipo e, di conseguenza, restare in uno stato di immaturità, non aver davvero tagliato il cordone ombelicale. Se infatti è stato tagliato il cordone ombelicale fisico, resta quello invisibile che lega ancora, in senso allargato, alla famiglia di appartenenza, al proprio sangue, al con-sanguineo. Un rapporto adulto, maturo, compiuto, può avvenire soltanto se costruito al di fuori dei legami naturali: “per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gn2, 24).
Quanto accade sul piano individuale con l’Edipo si ripropone come identica situazione che si manifesta socialmente con il tabu dell’incesto.
Questo tabu, infranto solo in evenienze sacrali, è una linea Maginot che tutte le società hanno acquisito. E lo hanno acquisito perché si sono costituite come società proprio in virtù di questo tabu. In altre parole la società nasce solo ed esclusivamente se i legami familiari che si costruiscono non si basano sui legami di parentela. L’incesto è l’Edipo che si realizza: dunque la penalizzazione dell’incesto è, a livello istituzionale, la conferma che si arriva ad essere società solo se si abbandona davvero la famiglia di appartenenza, non confondendo i due piani. E alcune società non dotate di scrittura, definite per questo “primitive”, vero reperto archeologico umano vivente, evidenziano questo aspetto in modo insuperabile.
In Le strutture elementari della parentela, Lévi-Strauss indica nella penalizzazione dell’incesto e nell’imposizione dell’esogamia (cioè contrarre matrimonio con individui che non siano legati dal sangue, quindi per natura), cioè aspetto esplicito di quanto il tabu dell’incesto implica in sé, due riferimenti universali fondanti ogni società umana. La penalizzazione dell’incesto costituisce «il passo fondamentale grazie al quale, per il quale e soprattutto nel quale, si compie il passaggio dalla natura alla cultura. […] è già la cultura che agisce e impone la propria regola in seno a fenomeni che inizialmente non dipendono da lei»[2]. La letteratura che ne è nata ha accentuato i legami con il simbolico, il linguaggio o, come indicato dallo stesso Lévi-Strauss con la necessità dello scambio. Si provi a considerare l’interpretazione che qui intendo proporre. Le altre hanno in buona parte esaurito la loro possibilità, arricchendo studi e proposte.
Ora si tratta di inserire questo tema in un àmbito nuovo, che necessita di paradigmi nuovi, di una nuova prospettiva semantica.
Non è originale ma poco praticata la connessione tra l’Edipo e la penalizzazione dell’incesto. In entrambi i casi, se esuliamo da un linguaggio specificatamente legato all’ambito etno-antropologico e psicoanalitico, anche perché giustificati dall’inserzione del simbolo che è un elemento che è trasversale ed appartiene a più discipline (forse a tutte), allora si può dire che entrambi alludono ad una sorta di pienezza che deve avere l’alterità. Legarsi ad un’altra persona non è semplicemente un fatto numerico o reale: è un fatto semantico. L’altra persona è davvero altra se la sua identità non è inquinata dall’identità, dalla somiglianza immediata (cioè di sangue, naturale), se non è una egoità allargata. Se si pensa bene, infatti, ogni legame con consanguinei amplifica la sfera dell’ego, lo certifica e lo conferma, lo accoglie perché già lo ha naturalmente accolto prima ancora della relazione incestuosa ed edipica. È un’alterità fittizia, puramente superficiale, giacché semanticamente quell’ego è rapportato con un alter-ego, esattamente come Narciso che suppone un “tu” che tu non è e che è soltanto la proiezione del proprio ego, un ego allargato. I legami di sangue sono l’amplificazione dell’identità e la negazione dell’autentica alterità, di cui pure si evidenzia il bisogno cercando la relazione.
Ma resta una relazione irrelata, perché manca l’altro che sia davvero tale: se resto nella mia famiglia resto in àmbito mio, privato, di uguaglianza di sangue, di parentela (cioè di rapporti preesistenti per natura). Ecco perché è opinione comune considerare chi resta a casa anche in età matura una persona immatura. Il senso comune, che non conosce gli addentellati complicati di certe indicazioni culturali, comprende perfettamente che la maturità è segnata dall’abbandono “di papà e mammà”, cioè del proprio guscio protettivo e questo anche in senso più ampio, sino ai vari livelli di parentela.
Simbolicamente tutto questo apre ad una considerazione: tanto più si accede ad un’autentica alterità, cioè altra davvero, maggiore è la maturazione della persona.
Questo indicano l’Edipo e la proibizione dell’incesto. Il primo per la maturazione individuale; la seconda perché nasca una società davvero tale.
Ma il superamento necessario di ogni vettore centripeto non può fermarsi qui.
Realizzato il proprio stato adulto sul piano individuale e sociale, -superando l’Edipo e il tabu dell’incesto-, si resta ontologicamente sempre in àmbito umano. Il vettore centrifugo che è valso sin qui, deve poter valere, per transitività fondativa, anche sul piano ontologico. E sul piano ontologico i due soli possibili referenti, altro da noi, sono l’animale e Dio. Se a Dio sostituisco il nietzscheano Übermensch come nelle parole di Zarathustra perché voglio fare a meno di Dio, ho bisogno comunque di uno über, qualcuno che non è più semplicemente uomo e che si presenti come altro dall’uomo, umano troppo umano. Non è qui il compito di analizzare il valore di questa sostituzione nietzscheana o le sue conseguenze. A me preme sottolineare, anche in questo caso, che si è costretti, ontologicamente, a riferirci ad altro. Per questo “l’uomo è una fune sospesa tra l’animale e il superuomo”[3].
Ma il vettore che tende all’alterità se si fermasse nell’orizzontale, rimbalzerebbe nell’egoità e nell’identità pur sempre della specie. L’Alterità metafisica è gratuità nel senso che non sperimento contraccambio, ma che si erge come altra Alterità, rispetto a quella soltanto umana, soggetta ancora alle leggi della natura, come la necessità di accoppiarsi o la solidarietà di specie. Se dunque supero l’Edipo e accetto pienamente la proibizione dell’incesto come soglie di accesso alla maturità umana che valica il proprio mondo, la propria sfera privata per entrare nel mondo altro che è principio stesso della società e della sua fondazione, fermarmi a questo approdo significherebbe non sancire la mia maturità umana rispetto all’animalità e ai processi della natura. Avrei semplicemente dato regole a comportamenti che tutti gli organismi, vegetali compresi, secondo il proprio statuto, hanno sempre realizzato.
Se l’alterità non deve spaventarmi, ma è il senso fondante dell’egoità, lo sia sino in fondo.
Mascherare l’altro con le fattezze dell’ego, a tutti i livelli, è non superare l’Edipo e il tabu dell’incesto, cioè restare non-nato, immaturo, fermo al legame di identità il primo naturale elemento di accoglienza che ha solo funzione propedeutica e non teleologica.
La tentazione di costruire relazioni a somiglianza dell’ego arriva persino all’Alter possibile e metafisico, come denunciato da Feuerbach e Marx e Freud e tutta la figliolanza epigonale che da secoli ci annoia con le consuete sterili e rimasticate critiche di alienazione religiosa.
Ma se in orizzontale rientra nelle possibilità costruire relazioni sull’identità o sulla forte somiglianza, e dunque errore implicito nella condizione stessa della relazione, fare altrettanto con l’Altro metafisico significa tradire la relazione stessa, giacché si sta alludendo a qualcosa che, per definizione, non condivide identità e proprio per tale motivo ne vuole essere il fondamento. Non si tratterebbe di conseguenza soltanto di un errore, ma di non aver proprio compreso il senso stesso sovra-immanente dell’Alterità quale fondamento.
EQUIVOCO delle origini: Le ipotesi che vogliono l’uomo come una sorta di animalità più complessa ed evoluta, pongono una serie di interrogativi filosofici:
1. C’è una evoluzione sincronica, cioè all’interno di ciascuna specie che permette le varianti di adattamento in rapporto all’ambiente e al clima.
2. C’è una evoluzione diacronica, da specie a specie che ha permesso all’uomo di evolvere dalle scimmie antropomorfe.
Nel primo caso si ha una variazione quantitativa, cioè “una cosa al posto di un’altra” ovvero “qualcosa in più o in meno” secondo quanto richiesto dalla sopravvivenza in quell’ambiente e con quel clima. Basti pensare al gran ventaglio di possibilità del becco degli uccelli.
Nel secondo caso la variazione è qualitativa non in se stessa, ma in quanto quella “cosa al posto di un’altra” o quel “qualcosa in più o in meno” decide l’appartenenza ad altra specie, una sorta di passaggio qualitativo. Per esempio dalla squama alla piuma, da rettile a uccello.
Dobbiamo dunque pensare che la seconda si determini in quanto fallisca la prima? O la seconda è inevitabile, consequenziale evoluzione che la natura impone ineluttabilmente? Insomma, paradossalmente, gli uccelli sono rettili che non hanno trovato la giusta evoluzione all’interno della loro precedente specie o che altro?
Ma il problema si accentua nel passaggio che, per ora, pare l’ultimo tra una specie e l’altra, vale a dire quel passaggio che ci ha fatto risvegliare come uomini.
E se vale in questo passaggio qui esemplificato tra rettili e uccelli, la medesima cosa nelle altre specie e nel passaggio che si è determinato dall’una all’altra, l’uomo sarebbe, nell’arco di milioni di anni, nient’altro che una monocellula incapace di accontentarsi, di volta in volta, della specie che via via andava “occupando”. Come a dire, per il semplice ragionevole e insindacabile principio dell’entelechia aristotelica, che il telos presente nella monocellula era già l’esser uomo, se ha potuto ogni volta “comprendere” le inadeguatezze della propria specie provvisoria di appartenenza prima di approdare allo status di homo sapiens sapiens. Insomma è avvenuto quello che socialmente e politicamente è un processo di colonizzazione: non basta la propria “terra natìa” e si va a conquistare “terre migliori”.
Intrinseco alla concezione evoluzionista c’è il modello animale, c’è presente lo stesso principio di economia della natura, teso ad “ottimizzare” sempre energia e lavoro e che seleziona spietatamente per mantenere alti livelli di efficienza, caratteristiche queste, selezione ed efficienza che, precisamente, segnano una società umana come disumana.
Intrinseco alla concezione evoluzionista c’è il modello animale di colonizzare i territori, di conquistare nuovi spazi e di invadere terre, caratteristica non certo estranea al popolo britannico e che si è riversata persino in una teoria scientifica.
Qualunque ipotesi, presa come rappresentativa di ogni altra ipotesi a piacere, che sia nel pollice opponibile, nella statura eretta, nella capacità di costruire strumenti o nella mera complessità del cervello la causa di questa differenza, è mera descrizione ipotetica di un comportamento anomalo rispetto alla regola animale. Una tale illusione astrattiva presume e pretende di partire dall’osservabile odierno per calarlo estrinsecamente sul problema e discriminarne così gli elementi che lo compongono. In questo modo si assolutizza una parte o cosa o aspetto dell’odierno homo e poi si cerca, con questa cornice e a partire da essa, d’inserirvi il quadro spoglio della realtà astratta e fittizia data per originaria, cioè quella di un animale che esca dalla sua animalità in virtù di una o più di queste componenti, capaci di permettergli il grande salto verso l’esser-uomini. Ed ecco che, la continuità lineare che l’economia del pensare esercita per propria virtù, applicarsi al problema che, viceversa, in quanto problema, è precisamente la rottura della continuità lineare. Siccome però, la complessità dei problemi non si lascia corrompere dalla banalità, una volta che ho stabilito l’uscita dal mondo animale per pollice opponibile o capacità di creare ed usare strumenti o per meri fattori biologici quali la statura eretta o la complessità del cervello, quella complessità impone l’ultimo perché. E a questo risponde un altro deus ex machina, l’evoluzione, una tautologia diventata legge, un’autoreferenzialità diventata, dogmaticamente, spiegazione buona per tutte le stagioni. Per quale motivo, infatti, il pollice opponibile, il cervello più complesso, la statura eretta o la capacità di costruire strumenti? Per fattori evolutivi? Perché l’uomo si è evoluto? Ma era animale, non uomo, non lo si dimentichi! E quale il motivo, allora, per cui quell’animale si è evoluto, laddove altri, nello stesso habitat, con i medesimi problemi, sono tranquillamente sopravvissuti senza bisogno di complicate evoluzioni?
Quale il motivo per cui alcuni di questi animali si sono direzionati altrimenti rispetto ai consimili pur avendo lo stesso nutrimento e vivendo nel medesimo habitat? Se avesse avuto forza cogente e ruolo essenziale l’ambiente, questa evoluzione avrebbe coinvolto necessariamente tutti gli organismi simili che erano presenti in quel determinato ambiente. E invece, alcuni hanno “varcato la soglia” dell’animalità, al punto da poter essere chiamati uomini; altri no e, anzi, hanno continuato ad esistere senza eccessivi problemi. Allora, la potenzialità della differenza e dell’evoluzione era già “dentro” quegli “animali”?
Ma se era già dentro, non erano più animali, erano già uomini! Insomma delle due l’una: o è l’ambiente a determinare l’evoluzione, ma allora è e deve essere un fatto generalizzato e trasversale, una sorta di coercizione dall’esterno che deve coinvolgere tutte quelle scimmie antropomorfe (come vengono definite) e indurle nel giro di qualche generazione (come?) a impadronirsi dei mezzi evolutivi (pollice opponibile, cervello più complesso, statura eretta, capacità di costruire e usare strumenti) ovvero, se la differenza è già in quell’organismo, esso è già uomo in origine e deve da subito presentarsi come tale e non come animale, per cui definirlo poi come animale evoluto è una vera e propria illusione astrattiva, in quanto si assegna una continuità che non c’è, come se ci fosse un ultimo stadio animale e un primo stadio umano. E una tale continuità non ci sarebbe neppure nella prima eventualità, quella dell’influenza decisiva dell’ambiente, in quanto rimane irrisolta la domanda secondo la quale, perché mai qualcuno “decide” di evolversi e qualcun altro no? E anzi, con l’aggiunta paradossale che chi non si evolve, non soltanto riesce a sopravvivere bene, ma ha anche una vita “naturalmente” ben più semplice.
Per questa ragione, è consequenziale che questa prima possibilità ricada nella seconda e che la differenza sia già insita in un certo organismo che è l’uomo e che continuiamo a chiamare animale e poi animale evoluto semplicemente per una illusione astrattiva, per una scelta di economia del pensabile, dove si sceglie sempre la strada più semplice e aproblematica (generalmente quella descrittiva, visibile, apparente).
INDUISMO: Un uomo intelligente e “dentro la situazione”, l’indiano economista e Premio Nobel Amartya Sen, si è sempre meravigliato del fatto che l’Induismo fosse visto dall’occidentale come una religione altamente spirituale. A suo avviso non è che la sacralizzazione della materia. Un rilievo ineccepibile.
INTELLETTUALI?: C’è stata una grande bravata, passata sotto silenzio, di alcune presuntuose vuote zucche accademiche (per fortuna ben individuabili e non numerose). Mi riferisco a quando con tanto di documento firmato alcuni “intellettuali” hanno rifiutato a Benedetto XVI (il cui genio era evidentemente inarrivabile a costoro) intervenire con un saluto a conclusione della cerimonia per l’inaugurazione dell’anno accademico 2007-2008 a “La Sapienza” di Roma.
Ignoranti sino al punto da non sapere che le università, cioè luogo dove si dovrebbe insegnare l’universale, sono nate per opera della Chiesa Cattolica, cioè universale. Renato Guarini, insieme al cappellano dell’università, padre Vincenzo d’Adamo e al rappresentante studentesco Gianluca Senatore invitarono Benedetto XVI all’inaugurazione prevista il 17 gennaio del 2008. Il Senato accademico fu favorevole alla iniziativa che già nel passato aveva visto dentro le mura universitarie (di Roma TRE) i pontefici Paolo VI nel 1964 e Giovanni Paolo II nel 2002. Ma il democraticissimo “Il Manifesto”, maestro di cultura civile e apertura al dialogo, esce con una critica all’iniziativa firmata dal fisico comunista Marcello Cini, che aprì la strada ad una raccolta di firme di 67 docenti all’interno della facoltà di Fisica con l’avallo di un altro fisico comunista Carlo Cosmelli, il tutto amplificato da un altro baluardo della democrazia italiana, il quotidiano “La Repubblica” con annesso direttore, che il 10 gennaio, a una settimana dall’inaugurazione (che casualità!), rilanciò pubblicamente quella lettera che era del 23 novembre! Come sempre, certi fatti vengono pilotati ad orologeria e si ammantano di democratico consenso. Di fatto quella lettera non aveva avuto seguito, ma a ridosso dell’inaugurazione, mancando i tempi di chiarimento e confronto, portò alla decisione del Pontefice di rinunciare all’intervento. Sistemi sovietici implementati nella nostra università!
Ma quanti lo hanno apertamente denunciato? È solo uno dei tanti esempi di chi, essendo fisico ateo e comunista (ideologia che non avrebbe bisogno di commenti viste le disgrazie e le tragedie che ha consumato nel mondo e che continua, ad esempio in Cina o in Corea del Nord a perpetrare, ma che viene accettata come scelta di democrazia!) si ritiene scientificamente più attendibile di un fisico credente non comunista. Pensate un po’: fede nella scienza come unica vera forma di sapere; fede nel marxismo come unica vera forma giusta di soluzione politica; fede che entrambe possano convivere armoniosamente insieme, visto che il “materialismo scientifico” secondo le illusorie credenze di Cini, assicurerebbe sulla diagnosi e i risultati in campo socio-politico.
Fede, fede e soltanto fede. Ma è, invece, per costoro, evidente posizione scientifica.
Una fede tutta orizzontale, appagata dal precario mascherato di assoluto, orgogliosa di una indipendenza da Alter perché orgogliosamente autoreferenziale. Perfetto delirio di onnipotenza.
LEGGE: La legge è la prima figura, certamente lodevole, dell’oggettività e dell’universalità che l’uomo comprende essere l’unica parvenza di verità che tutti affratella e unisce. Il fatto è che questa unione convergente è costruita su norme, divieti e obblighi, nonché su pene e punizioni. Per evitare ogni inquinamento di arbitrarietà e relativismo si sono di conseguenza cercati fondamenti assoluti: Dio, Natura, Ragione, Popolo, tentando in tal modo di trasformare la legge in qualcosa di insindacabile e autorevole. E così abbiamo avuto e abbiamo tuttora leggi teocratiche, leggi dalla tradizione rivoluzionaria fondata sulla ragione naturale egualitaria, leggi per consenso maggioritario popolare. Il Cristianesimo anche qui porta tutto a inveramento: il processo di Gesù vede tutto questo messo in scena: la legge teocratica del Sinedrio Lo condanna; la legge civile Lo condanna; la vox populi (arcaica versione della democrazia) Lo condanna scegliendo Barabba. Insomma, Gesù è stato condannato dalla Legge e per Legge. E questo potrebbe essere anche visto reciprocamente: Gesù condanna la Legge, la condanna perché ne è superiore, perché il Suo annuncio va oltre ogni legge. Il Cristianesimo rompe il nodo che si crede indissolubile tra Legge-Assoluto-Popolo. Cosa resta delle nostre pretese?
LEGGI DI NATURA?: La teoria, scrive Einstein, deriva dalla nostra esperienza sul mondo che ci circonda, ma nello stesso tempo non è contenuta in esso, perché è un prodotto specificamente umano, una nostra elaborazione che non troviamo in natura. Di conseguenza, una volta che nei millenni si è accumulata quella conoscenza teorica, quest'ultima guida l'esperienza. Il processo di conoscenza scientifica è, dunque, esattamente l’opposto ad una fedele ri-produzione della realtà a partire dal dato empirico: lo scienziato ha un’ipotesi che funge da criterio discriminante dei fenomeni, per cui vengono assunti come prove soltanto quelli che provano l’ipotesi di partenza. Come bene aveva detto Wittgenstein, lo scienziato dimostra apparentemente quanto già ha assunto come premessa. Credo sia opportuno ricordare un pensiero di Werner Heisenberg, che «una sera –come scriveva in Fisica e oltre- mi tornarono improvvisamente alla mente le parole di Einstein: E' la teoria a decidere che cosa possiamo osservare». Il prodotto scientifico nuovo, semplicemente, deve avere una credibilità maggiore di quanto già preesiste e che intende sostituire, perché, se la poesia può convivere con altre visioni poetiche, non intrattenendo con queste, per così dire, alcuna relazione di competitività, nel caso della scienza questa competitività è fondamentale per un dominio ideal-operativo, che ne permetta l’uso, l’applicazione e la diffusione. Non c’è, dunque, -non ci dovrebbe esser più-, l’ingenua, ancora attuale e ancora diffusa visione di una scienza costruita sulla relazione causa ed effetto e sull’osservazione dei fatti. Il processo induttivo, dunque, o se si vuole, il metodo sperimentale, tanto esaltato come base non-dogmatica della scienza, è, in realtà, un processo senza sbocco, inesorabilmente ed inevitabilmente incatenato alla soggettività empirica e che può aspirare, tutt’al più, ad un’opinione diffusa, cioè ad una probabile conoscenza dei fatti, numericamente sostenuta. Il salto di qualità dal quantitativo esteso ed estendibile al qualitativo, non può essere in alcun caso fondato sul numero, dogmaticamente considerato sufficiente ad abbracciare “tutte” le possibili esperienze, aspirando indebitamente all’universalità. Ecco perché Einstein esclude che possa esistere quella che normalmente si chiama “ricerca sperimentale”: «è un errore il permettere che la descrizione teorica sia fatta dipendere direttamente da affermazioni empiriche». Ogni “legge scientifica” è orientata sulla base di un determinato patrimonio di conoscenza, fatta da uno scienziato che è membro di un determinato ambiente culturale, con un preciso stile di pensiero. Per delineare dunque la relazione gnoseologica dello scienziato di fronte ai fenomeni della natura, non si tratta di considerarla come fosse un rapporto astorico, dove il primo, lo scienziato, dovrebbe ricostruire concettualmente (speculum-actio=speculazione, riflessione, ecc.) quanto appreso con i dati empirici ricevuti in uno stato virginale (tabula rasa), ma di una delle tante scelte operative che elegge un registro semantico e la sua connessa prospettiva sul mondo. Sarebbe il caso, ormai, di chiarire che non si tratta, per lo scienziato, di scoprire le leggi della natura, come se l’ego-conoscente si assoggettasse (sub-jectum) alle leggi della natura, da un reale che gli fornisce dati da elaborare concettualmente.
LIBERTA’: Molta problematicità spesso è ridotta o nascosta dall’uso generale di un termine che tutti credono di conoscere e sul quale solo specialisti si affaticano per ulteriori chiarimenti. Così è per il concetto di “libertà”, un concetto in cui va a confluire un po’ di tutto, la libertà di fare quel che si vuole, la libertà politica, quella di parola, quella civile, quella religiosa, quella di nascere o di morire, quella culturale, quella di pensiero, quella morale, quella giuridica, quella di tacere, quella di scegliere, quella di non farlo, quella di definire la libertà stessa. Da qualunque prospettiva la si osservi, una cosa dovrebbe manifestarsi con evidenza: la libertà, così come è concepita, è un concetto ancora giovane, ancora in crescita, che ha appena superato, se lo ha fatto, la fase infantile, la fase astratta e di prima applicazione. Se andiamo a leggere fonti e documenti di varia natura (storici, letterari, filosofici, politici. giurisprudenziali, ecc.) quello che definiamo passato e che possiamo datare con grande libertà sino al trentennio che unisce la prima e la seconda guerra mondiale, rappresenta, come aveva già intuito con la sua prospettiva storica Bacone per il quale gli antichi siamo noi, una fase iniziale, infantile della libertà, ancora con ampi spazi e tempi di controllo e negazione, una fase fatta di libertà vigilate, controllate, orientate e spesso inesistenti. Non è stata la Rivoluzione francese a cambiare le cose. Questa resta un fatto locale, di ampia influenza, ma locale, conforme alla condizione del popolo francese e delle sue condizioni socioeconomiche e politiche. Solo qualcosa di planetario, di “mondiale” appunto, poteva far fare un passo in avanti nella crescita e maturazione del concetto di libertà. La prima e la seconda guerra mondiale sono separati da pochi decenni e questo è sufficiente storicamente a separare i due tragici eventi, ma semanticamente, e cioè sul piano di un’analisi politica, soprattutto delle condizioni vessatorie fatte alla Germania, si tratta di un’unica grande guerra, esplosa in due fasi storiche diverse e, tuttavia, complementari. È questa unica grande tragica esperienza mondiale che ha portato la libertà dal gradino infantile a quello adolescenziale, quello attuale per intenderci. Le grandi sanguinarie dittature hanno rappresentato il canto del cigno di una libertà vigilata, controllata e direzionata, ancora “genitoriale”. Ora non è più così. Ora la libertà è cresciuta ed è nella sua fase adolescenziale, individualista ed egocentrica. E per questo motivo che è esplosa in tutta la sua anarchia: si accampano continui diritti, continue contestazioni, polemiche e contrasti. Il termometro segna più visibilmente questo fenomeno per il mondo femminile, da troppo tempo costretto al silenzio e alla sottomissione ed ora finalmente nella libertà di essere ciò che vuole. Così l’adolescente libertà attuale del maschio e quella altrettanto adolescente della femmina non possono che entrare in conflitto. Non c’è più un contesto culturale che nasconda o freni o schermi la potenziale aggressività maschile verso la donna come accadeva in passato. Ora ognuno decide per sé, in modo autoreferenziale, da adolescente, perché la libertà non ha raggiunto ancora quella maturità che accetta e guarda con distacco gli eventi, superando la conflittualità tipica di quell’età. E in questo drammatico confronto/scontro tra individui, prevale l’animalità, la forza dell’individuo, prevedibilmente del maschio in particolare. In un contesto del genere la donna non ha più chi o qualcosa che la difenda. Ed ecco di nuovo comparire la legge, con le sue norme e pene, con i suoi divieti e le sue sanzioni, qualcosa di già noto, un tutto che ha lo stesso effetto che si aveva quando lo si subiva da adolescenti: cioè praticamente nullo. Si continua testardamente a ricordare la vuota definizione di Martin Luther King per il quale la mia libertà finisce dove inizia quella dell’altro. Ma quella dell’altro dove inizia? Se i limiti vengono lasciati al singolo, ciascuno dispone come vuole della definizione e dunque della stessa libertà. Dispiace per un buon uomo come Luther King, ma la sua difficoltà di stabilire i limiti della libertà, del tutto normale, non giustifica la consueta speculare tautologia vuota e solo apparentemente seducente, di cui siamo già abbondantemente stufi (“sopravvive il più forte e il più forte è colui che sopravvive”; “amo l’altro, perché ha molto in comune con me”; “tu non parli perché sei fascista!”; ecc.) tutte affermazioni apparentemente lecite e ragionevoli che nascondono un’anima contraddittoria ed egocentrica, autoreferenziale, del tutto dogmatica in quanto pur con la sua essenza soggettivista essa pretende l’assoluto.
LIBERTA’ IN NATURA: Si tratta di un vero e proprio ossimoro. La libertà non ha niente a che fare con la natura. È un lusso che la natura non si potrebbe permettere! Già basta l’uomo a metterla a repentaglio! Un termitaio o un alveare dove ci fosse anche solo qualche minuto di libertà, andrebbe a catafascio. I predatori, almeno qualcuno, comincerebbe ad avere scrupoli morali. Nascerebbero gelosie, tradimenti, “delitti d’onore”, amori infelici, velleità indipendenti che vorrebbero liberarsi dal peso della procreazione, si comincerebbe a cuocere quella carne cruda e sanguinolenta per renderla speziata ed appetibile, ci si radunerebbe per pregare, per discutere come riorganizzare quell’alveare o quel formicaio, discutere senza neanche trovare la soluzione ottimale, ci sarebbe qualcuno che si muove e dice e fa qualcosa per divertire qualcun altro che sta ad osservare divertito. Insomma non avremmo più i nostri conosciuti compagni di viaggio, quegli animali che, fuori da ogni giudizio morale, sembrano riportarci ad una sorta di innocenza. La continuità evolutiva è in tal modo spezzata, invalidata, messa in radicale discussione. L’ipotesi evoluzionista, come ogni altra nella scienza, è un’ipotesi di lavoro, una guida di spiegazione e connessione di ciò che si sperimenta: non si può assolutizzarla come fosse realtà. È una possibile spiegazione della realtà, anzi di parte di essa. E dunque, la continuità lineare che viene ci viene propinata continuamente non è dunque fittizia, illusoria e che c’induce a vedere come un continuum ciò che, viceversa, è una vera e propria rottura, un salto di qualità?
LIQUIDO: L’esser cristiani, oggi, coincide con un impegno che non pensa, ma che si fa guidare ogni volta dalle circostanze, «a livello puramente sociale e politico”. Saltando ogni mediazione del logos teologico-dottrinario-, il Cattolicesimo gerarchico ha scelto di immergersi nella storia, nella realtà, nel mondano empirico, eletti come luogo privilegiato, campo di azione, di scelte, di aggregazioni crescenti. Le attuali scelte pontificie sono tutte antropocentriche, con cattolici che praticano, ma non pensano; s’impegnano senza saper dar ragione della specificità della speranza che è in essi: insomma, una Chiesa liquida. L’adesione religiosa, la fede, la propria identità cristiana nel nostro caso, può soltanto poggiarsi sul sentimento, sull’emozionale, sull’esperienziale, sul “cuore”, nel solo privato, sulle sabbie mobili degli umori che la vita mi fa attraversare: insomma, un impegno prevalentemente socio-politico e una fede tutto cuore e sentimenti.
MORTE: evento tragico che, teoricamente è preso come “naturale” e dunque da accettare senza ulteriori riflessioni, ma che poi, come detto, quando accade, chiede sempre il colpevole, proprio perché se ne sperimenta l’assurdità. Il corto circuito è tra “naturale” ed “assurdo”, tra “naturale” e “non-senso”. Insomma, si dovrebbe tutti morire di vecchiaia, in modo lineare, liquido, senza responsabilità di alcuno se non della natura. Si è estirpata dalla mente e dalla coscienza delle nuove generazioni la riflessione sulla morte che, quando arriva, soprattutto per un giovane, richiama come colpevole, -quando non se ne siano trovati in terra o non si abbia avuto il coraggio di trovarne-, quel Dio che, poveretto, messo dall’uomo fuori dalla sua vita, del tutto estraneo alla vita che si conduce e si è condotta, del tutto estromesso dai valori che si perseguono e si sono perseguiti, viene però riesumato quando di fronte alla morte resta un punto interrogativo. Ed il colpevole diventa Lui (“non doveva! Perché lo ha permesso?!”), anche quando le cause che hanno portato alla morte sono tutte umane e tutte legate a banali logiche umane (che Dio, ovviamente, per questa pseudocultura acritica e cieca, deve sempre avallare!).
Così, la stessa morte, nella sua radicale negatività, passa invano per l’uomo postmoderno, perdendo di conseguenza il nodo intelligente del problema, e cioè che “il fatto che l’uomo (e solo l’uomo) sa di morire, è già preannunzio, indizio della sua immortalità spirituale. Nell’animale, infatti, la mancanza di tale coscienza è anche assenza d’immortalità”.
PIETRO e PAOLO: Il 29 giugno si festeggia a Roma il binomio dei due Santi patroni della città con tanto di festa di precetto. È una scelta che non comprendo. Una festa di precetto non è una variabile locale che, basta qualche chilometro più in là, non ha più valore. E ridurre Pietro e Paolo, le colonne fondanti il Cristianesimo a meri patroni di una città, seppure papalina e dalla grande tradizione religiosa, è svilire i due Santi, il concetto di festa, il valore della norma del precetto. Quale credibilità può avere una indicazione che rende precetto la Messa in un luogo soltanto dove, è sufficiente valicarne i confini per farne decadere la normativa? È persino diseducativo dal punto di vista religioso perché alimenta una sorta di prospettiva relativistica, localista, particolare, togliendo valore a una partecipazione ecclesiale che dovrebbe coinvolgere tutti. Cosa dire ad un fedele di Aosta su Paolo e Pietro? Non che sono i patroni di Roma, ma che sono i due pilastri sui quali, pagando nel e con il proprio sangue, si è edificato il Cristianesimo. Del resto che ci sia una intima contraddizione lo dimostra il fatto che non per ogni patrono di città c’è festa di precetto. Qui, evidentemente, si capisce la portata ben più forte ed evidente dei due Santi, un valore che, tuttavia, poi non può essere schiacciato su un orizzonte localistico.
RELATIVISMO: Avvicinare le diverse religioni con parametri di equivalenza è contrabbandare un surrettizio giudizio di valore per metodo. Le religioni non sono tutte uguali: non sarebbe giusto nei loro confronti. La diversità è data dal loro modo di presentarsi e in quello in cui i propri fedeli vivono e credono.
Spesso si sentono nominare come leaders dello stesso tipo e valore Buddha, Mosè, un grande guru indù (ciascuna scuola poi ne cita uno, il proprio), Maometto, Zoroastro, Confucio, Lao Tse e Gesù. Ma questo presentare equivalente non è obiettivo, neutrale, storicamente corretto: è prodotto (tenuto nascosto) di un giudizio che è già stato dato: li metto sullo stesso piano. Ma storicamente non si sono presentati così e storicamente i fedeli non ritengono che sia così.
Buddha ha parlato di divinità tre sole volte e la sua proposta morale fa a meno di Dio. I grandi guru indù o gli yogin’ professano una liberazione individuale in ordine ad un’unione con la vita naturale stessa, dove appunto è il divino e non Dio a prevalere; Mosè non è neanche entrato nella Terra Promessa ed è stato un profeta, non Dio. Stessa cosa per Maometto che tra i tanti profeti, dove ha inserito per interpretazione propria anche Gesù, si è proposto come il profeta. Zoroastro è sacerdote e grande mediatore, Lao Tse maestro di saggezza, Confucio consigliere di corte…Come si fa a metterli sul medesimo piano di chi ha avuto la pretesa di proporsi come Figlio di Dio, il Dio che si rivela all’uomo facendosi uomo?
Senza il Cristo, fondatori, guide e saggi furono uomini che hanno tentato di dare un senso, una risposta all’inquietudine umana, al suo stato ontologico di inadeguatezza, di disagio, di squilibrio. Ciascuno poteva ritrovarvi quello che voleva. Ma per ciascuno era lecita la domanda: ma esiste quel Dio al quale direttamente o indirettamente alludete? Si trattava di onorabili e rispettabili risposte per cercare di dare quiete all’insondabile immisurabile domanda dell’uomo (spesso, retoricamente, definita “sete d’infinito”, vista anche, laicamente, come costante tensione al meglio, al progresso).
Ma, nella loro soggettività, lasciavano oggettiva la sola domanda: una domanda sotto forma di constatazione. Non sono io uomo a detenere le risposte che mi soddisfano e sono costretto a cercarle fuori di me.
Tutto cambia quando s’incontra una persona storica che muore pagando con la vita il dichiararsi Figlio di Dio.
Subito due constatazioni:
non si può ridurre la valenza semantica di Gesù asserendo che non era il Dio incarnato, ma solo un grande uomo. Un grande uomo che si professa Dio o è un grande folle, o è Dio.
Se si guarda alle religioni, è chiaro che senza una rivelazione, pur potendo stabilire, come accennavo poc’anzi, a una gerarchia di significati osservandone internamente la struttura e collegandola al significato di ciò che vogliono rappresentare (cioè una religione), le si condannerebbe tutte all’utopia. Che sia l’Induismo o l’Ebraismo, poco importa. Cosa ne sappiamo noi di Dio? E’ una semplice illusione umana? Mero flatus vocis? Il Cristo, indipendentemente dal crederci o meno, risponde alla domanda, ad ogni domanda: quel Dio che TUTTI cercano o confondono o pensano di aver trovato (ma sempre nell’immaginario privato o etnico o, in ogni caso, culturalmente definito) entra nella storia, è a tutti visibile, e per tutti raggiungibile e misurabile. E chiama alla decisione: “Chi dite che io sia?”. Ripeto: indipendentemente dal crederci o meno, oggettivamente si è fatto un passo decisivo nell’àmbito religioso. Dalla mera supposizione, dalla semplice idealizzazione e ricerca, ora si è di fronte ad una persona storica, analizzabile, studiabile da tutti e che oggettivamente muore perché si dichiara Figlio di Dio, Sua Rivelazione. Senza questa Rivelazione, ogni altra forma religiosa, è tacciabile di illusorietà. Gesù non è una illusione, ma una persona, storicamente documentabile alla mercé di chiunque voglia avvicinarlo, a qualunque livello d’indagine.
SILENZIO: Ci sono momenti durante la funzione eucaristica nei quali sarebbe più opportuno un po’ di silenzio, per concentrarsi nella e sulla preghiera, invece di sentire spesso invadenti canti improvvisati con tonalità allarmanti per intonazione e con contenuti ormai desueti. Mi vengono in testa gli ammonimenti di Riccardo Muti che invitava a chiudere definitivamente con queste “schitarrate” cercando di recuperare quel minimo di dignità musicale che sia almeno in parte compensativo delle grandi produzioni del passato.
TATUAGGI: “Dipingere e tatuare il corpo è un ritorno all’animalità”[4]. È uno dei tanti indizi del nostro tempo e del modello che, consapevolmente o meno, viene perseguito come modello appagante e compiuto.
UNIVERSALE: Chi può affermare che quel valore o quel criterio sia universale? Il fatto che invece di contrapporsi, accolga; invece di aggredire, ami; che invece di sostituirsi, inveri; invece di allontanare, porti a compimento.
VECCHIAIA: Quando il corpo comincia a tradire, si rende visibile l’implicito, ciò che c’è sempre stato, ma che prima non compariva e, per questo, ti illudeva. Così, le ossa, stanche del peso di un corpo tenuto in piedi per tanti anni, reclamano un dimagrimento degradante, ineluttabile, un corpo consumato che possa essere sorretto da quelle ossa. Ed ecco una graduale implosione, dove sembra che tutto si asciughi, in una sinteticità estrema, di pensiero, di corpo, di azioni, di giudizi, di vista, di udito, di ambulazione. Tutto diventa asciutto, così essenziale da mostrarsi senza pudore oltre i solchi della pelle e la carne sgualcita. Cos’è che davvero è così importante che perduri?
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