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Quello che oggi vediamo attorno a noi,
è crisi di fondamento: non sappiamo piü dove l'intelletto affondi le sue radici e trovi le sue basi. O l'uomo ritrova l'oggetto proprio della mente, la realtá dell'idea o della veritá, che lo fonda, lo governa e lo guida; o l'uomo é irreparabilmente perduto perché ha perduto il lume della ragione: non pensa piü nella luce della veritá, ma nelle tenebre dell'errore[1],
quasi che gli uomini, del tutto obliosi del divino, siano sul punto di appagarsi, come i vermi, di polvere e d’acqua[2].
Come poter allora
sollevare il genere umano dall’abbruttimento nel sensibile, nel volgare e nel singolo, ...per indirizzarne lo sguardo alle stelle [?]. [...] sembra che il senso sia talmente abbarbicato ai valori terreni, da rendersi necessaria altrettanta violenza a sollevarnelo[3].
Non ho voluto ingannarvi esordendo con questa articolata citazione, una citazione mixata accortamente, perché essa è, inizialmente, di Sciacca, ma poi, per l’altra metà, di Hegel.
Del resto Sciacca aveva parlato, nel lontano 1949, di “due idealismi”, omonimi proprio perché animati e accomunati dal medesimo slancio, dalla identica diagnosi della realtà e, persino, dallo stesso obiettivo: l’Assoluto: “l’Idea eccede e trascende la soggettività e tutti i contenuti”[4].
Questo voler accomunare all’esordio del mio intervento pensatori così lontani nelle conclusioni ha due altre motivazioni: la prima, del tutto personale, è strettamente legata e giustificata dalla mia sconfinata stima nei confronti di Hegel. Ritengo sia onorevole poter avere avversari così, c’è da avere nostalgia di interlocutori critici di questa intelligenza. Seppure paradossale, sarebbe un buon segno per i nostri tempi e una sfida che ci farebbe solo crescere.
L’altra motivazione è che l’intelligenza, seppure così diversa in Sciacca e Hegel, quando è tale, non asserve il potere della cultura dominante, non si fa “usignolo dell’imperatore”, ma si trasforma in fatica e pazienza solitaria, come “il ragno” di cui ci parla Sciacca nell’Appendice di In Spirito e Verità:
mistico, il ragno, -scrive il nostro Maestro- come il filosofo, che costruisce da sé la sua verità, la sua spirituale dimora. Solo lui vi si sente a suo agio; chiunque altro, vi si trova a scomodo: è un intruso, straniero, vi porta disordine. Concetto su concetto, ragionamento su ragionamento, tante ragnatele sottili, delicate; e tutte tratte dal fondo dell’anima, dalle interiorità più profonde, ‑senza che niente dal di fuori possa soccorrere[5].
Tuttavia, per quanto mi è stato richiesto e per la chiarezza che la stessa filosofia esige, soprattutto in una Cattedra, chiamata sempre ad un impegno educativo e didattico, a quella che Hegel avrebbe definito
la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo[6],
per pervenire a ciò che deve rompere l’uniformità dell’eguaglianza astratta tra i due e farci accedere pienamente e profondamente alla loro differenza, quel titolo datomi, “Sciacca e Hegel” deve rovesciarsi dialetticamente in “Sciacca o Hegel”, perché la congiunzione “e” è condizione integrante della dialettica hegeliana e non è mia intenzione, malgrado l’ammirazione succitata, fagocitare Sciacca in Hegel.
Dunque, meglio usare la disgiunzione “o”, per lasciare la differenza e percorrerla semanticamente. Percorrere questa differenza, almeno così ho scelto, non sarà un sunto del pensiero hegeliano filtrato alla luce dell’intelligenza critica sciacchiana.
Temo la vostra noia e l’approssimazione inevitabile della mia sintesi.
Ma come muovermi allora di fronte alla piena del fiume hegeliano, dove è facile naufragare?
Ora, quando si va a valle, il fiume può diventare impetuoso e di enorme portata, impossibile da arginare, anche se con strutture appropriate.
Ma se si va alla sorgente, ci si stupirà che tutta quella straordinaria massa d’acqua, all’inizio è solo un rìvolo, inesauribile certamente, ma definibile e controllabile. E tutto viene da lì, da quel rìvolo. Avviene così per ogni sistema di pensiero e Hegel, intercettato in quella scaturigine, non fa eccezione. Parte tutto da qua.
Il rìvolo filosofico hegeliano a cui alludo defluisce in tre faglie, l’una complementare all’altra, tutte e tre connesse vitalmente e che percorreremo insieme: la Spaltung, il “cattivo infinito” e la “coscienza infelice”. Un unicum che prende tre vie solo apparentemente diverse, ma che accumulano potenza via via sino a diventare onnicomprensive.
Iniziamo dal concetto di Spaltung.
E’ un concetto che pesa sulla speculazione tedesca kantiana e postkantiana ed ha chiare origini luterane. Gli idealisti, in particolare, la ereditavano come peso filosofico e culturale, in modo diretto, già da Kant e dal suo Verstand (“intelletto”).
Spaltung significa scissione, divisione, termine e concetto ormai bottino di guerra culturale della Psicologia & Affini, ma che ha iniziato il suo percorso in àmbito filosofico. Ebbene, anche se vi accediamo per la definizione psicologica capiamo perché, restringendo storicamente il problema da Kant sino a Freud, passando per Fichte, per Schelling, per Hegel, per Feuerbach e Marx, questo concetto ha tracciato la storia filosofica della Mitteleuropa del XIX° secolo, come in qualche modo indicato anche da Jaspers[7].
In un qualunque dizionario psicologico, la definizione di Spaltung, è la seguente:
meccanismo di difesa che consiste nello scindere, nel separare, nel disgiungere in modo netto le qualità contraddittorie o ritenute tali dell’io o dell’oggetto.
Così ne parlano Laplanche e Pontalis:
numerosi autori, tra cui Freud, l’hanno utilizzato per designare il fatto che l’uomo, sotto un qualche aspetto, si divide da se stesso[8].
Un tale elemento dissociativo, poi, come detto, preda delle scienze psicologiche, era stato, ancor prima l’anima pre-romantica e poi romantica, il vero e proprio nemico e bersaglio intellettuale di tutto l’idealismo tedesco e delle sue figliolanze, ma anche la sua essenza vitale. Così scriveva esplicitamente Hegel:
la scissione è la fonte del bisogno della filosofia. [...].
L’unico interesse della ragione è di togliere queste opposizioni che si sono consolidate. [...]. Quando la potenza dell’unificazione scompare dalla vita degli uomini e le opposizioni [...] guadagnano l’indipendenza, allora sorge il bisogno della filosofia[9].
Superare, ricomporre la scissione era divenuto l’obiettivo, o forse l’assillo, esplicito o sottinteso dell’intera cultura germanica, così politicamente lacerata e frammentata.
E così, la Spaltung è il contenuto dell’accusa di Fichte alla separazione kantiana tra fenomeno e noumeno, separazione da Kant dogmaticamente imposta secondo Fichte, ma è ancora la Spaltung a sussistere tra l’Io e il non-Io e che andava, per Fichte, incessantemente superata, senza mai compimento ed è ancora una volta la Spaltung che spinge Schelling alla sua Identità assoluta, ma, per dirla con Hegel, che voleva –e qui pretende la sua specificità- conservare nell’unità della ricomposizione il rapporto vivente delle opposizioni e la loro azione reciproca, un’identità dove si pretenderebbe
contrapporre alla conoscenza distinta e compiuta, questa razza di sapere, per la quale nell'Assoluto tutto è uguale, -oppure gabellare un suo Assoluto per la notte nella quale, come si è soliti dire, tutte le vacche sono nere ...,[10].
Non interessa qui la sorte successiva della Spaltung nell’”estraniamento” (Entfremdung) di Feuerbach e Marx o nell’alienazione in Freud. Voglio solo ricordare, con volontà di paradosso e per allargare l’orizzonte sulla valenza filosofica della Spaltung e quasi per anticipare Sciacca, che per Agostino non era possibile amare senza alienarsi, senza Entfremdung, conseguenza della Spaltung. Lo richiede persino l’uomo della strada: “mettiti nei miei panni” ci dice, precisamente ciò che costituisce il negativo per Freud, per il quale, come detto, sottoposto alla scissione,
l’uomo, sotto un qualche aspetto, si divide da se stesso[11].
Ecosì veniamo naturalmente a scoprire che è la Spaltung che determina la successiva faglia del rìvolo, la celeberrima hegeliana “coscienza infelice”. Questa, infatti,
è la coscienza di sé come dell’essenza duplicata e ancora del tutto impigliata nella contraddizione[12].
Cito con dei tagli, in modo tale da rendere più fluido e comprensibile all’ascolto il linguaggio hegeliano:
l’autocoscienza raggiunge il suo appagamento solo in un’altra autocoscienza[13]. [...].
dapprima l’autocoscienza è ...eguale a se stessa, poiché esclude da sé ogni alterità; ... sua essenza e suo assoluto oggetto è l’Io: ed essa [...] è qualcosa di singolo. Ciò che per lei è un altro, lo è come oggetto inessenziale...Ma l’altro è anch’esso un’autocoscienza; un individuo sorge di fronte a un individuo[14].
[...]. la coscienza della vita, la coscienza dell’esistere e dell’operare della vita stessa, è soltanto il dolore per questo esistere e per questo operare; quivi infatti come consapevolezza dell’essenza ha soltanto la consapevolezza del suo contrario, ed è quindi conscia della propria nullità. Da questa posizione essa inizia la sua ascesa verso l’intrasmutabile[15]. [...]...la verità di siffatto movimento è, appunto, l’esser-uno di questa coscienza duplicata[16].
Dunque, l'infelicità della coscienza nasce dalla consapevolezza della propria mutevolezza e precarietà e dal desiderio di immutabile, un immutabile che però è sentito come irraggiungibile e permane nella coscienza rendendola scissa, perché l’”altra individualità” è lì di fronte a me in opposizione a me. E tuttavia
col sentimento della sua infelicità e con la miseria dell’operare di tale coscienza si congiunge ... la consapevolezza della sua unità con l’intransmutabile[17].
L’infelicità della coscienza è dunque determinata dall’infinito, lo hegeliano Intrasmutabile, che è presente in essa, ma senza che questo Intrasmutabile sia raggiunto e posseduto, perché “ostacolato” per così dire da quanto si presenta a me come altro da me. Il problema hegeliano è di superare la Spaltung conservandone gli elementi oppositori quale segno di vitalità dialettica.
Se tuttavia la Spaltung è condizione solo patologica della coscienza da risolvere nell’annientamento dell’alterità che lacera, già qui è dato scorgere seppure ancora in nuce, la posizione immanentista, già qui è dato leggere il monismo hegeliano, già qui si svela il suo rifiuto del Dio cristiano, al di là del suo pur costante riferirsi ad Esso, già qui è dato scorgere la ribellione della creatura alla sua condizione di creatura.
Le due coscienze fenomenologicamente l’una di contro all’altra, devono sciogliere la loro relazione oppositoria e la sciolgono in una dialettica dove il momento dell’alterità, l’antitesi, è, nella prospettiva idealista, annichilita nell’idea dell’una, entro la quale verrà a far parte la seconda, altra per mera mancanza di consapevolezza della prima.
L’altro diventerà mio patrimonio di conoscenza. Così, l’alterità, invece di spingere lo sguardo all’interiorità e al proprio limite, scatena il mio conato di libertà e conoscenza a danno dell’altro, destinato a diventare mio patrimonio e conquista dell’Idea.
Sin qui Hegel.
E Sciacca? Vediamolo attraverso la magistrale ricostruzione di Caturelli:
La presenza dell’essere produce al tempo stesso la drammatica inadeguazione del pensare al pensato, del volere al voluto, del sentire al sentito e in quanto tali atti non si chiudono né si riducono al pensato, al voluto e al sentito, restano sempre aperti all’Essere infinito. Il che fa sì che la persona sia persona e pone in evidenza la sua capacità di attuazione infinita: questo è il “futuro assoluto” della persona, il suo destino che essa deve preparare [...]; la vita è dramma – continua Caturelli nel suo compiuto approfondimento di Sciacca- per la stessa partecipazione all’essere infinito ed è un dramma che ciascun esistente deve concretamente risolvere. Senza questa partecipazione all’infinito non ci sarebbe alcun dramma, in quanto non esisterebbe nessun problema del finito perché il mondo è problema soltanto attraverso l’uomo.[18]
L’Idea, dunque, sciacchianamente parlando,
sopravanza l’esistenza e la pone come tensione all’Infinito che la trascende; fa che l’esistente, partecipe di Dio attraverso di essa o il divino, tenda all’Essere assoluto. di qui l’inquietudine di quell’”essere dialettico” per essenza che è ciascun uomo[19].
La separazione dovrebbe essere, precisamente quel consapevole senso della creaturalità,
uno squilibrio che...rivela, nel suo ‘mancare’, quell’unità che nessun presunto e pretestuoso ‘riempimento’ sistematico ha mai realizzato: l’unità del pensare, del volere e dell’essere[20].
Per ogni uomo, l’altra coscienza di fronte a me, va considerata, dunque, solidale di fronte al medesimo condividere la nostalgia e la vocazione all’Assoluto, quel
sapere – secondo le parole di Sciacca- che l’esistenza del suo essere, dipende da Chi ha voluto che egli fosse e dunque dall’Essere, è sapere chi veramente egli è, è conquistare il senso ‘radicale’ del suo essere[21].
E subito qui, la disgiunzione che avevo invocato tra Hegel e Sciacca, si effettualizza, per dirla con il Maestro di Stoccarda.
Queste due faglie del primo rivolo alla sorgente ci dicono tanto. Ci dicono che lo stato creaturale, con la sua miseria e i suoi limiti, con la sua maestà e nobile responsabilità, non sono accettati da Hegel che avvia, sì, ogni relazione dallo squilibrio dialettico, ma attraverso una relazione che permane fittizia, in quanto l’antitesi, che effettualizza l’alterità, è già previamente includibile e poi inevitabilmente inclusa nei processi argomentativi dell’ego, altrimenti condannato ad una infelicità senza termine. Infelicità, per Hegel, soltanto perché non accettazione dell’esser-creatura di ogni uomo:
lo squilibrio ontologico – chiarisce Alessandra Modugno- resta ... il dramma della condizione umana: la dialettica di finito e infinito è sofferta agonia, lotta alle pretese prevaricatrici dell’egoismo personale e rilancio della tensione all’autoesigenza come attuazione della verità totale e inesauribile del vero sé[22],
consapevole del proprio limite creaturale e della propria fondazione metafisica. Il sentirmi “creatura” è l’”atto primordiale della coscienza”.
Infatti, scrive Sciacca, nel momento stesso
che avverto anche confusamente di essere, avverto che non sono da me, che sono esistente, cioè ‘da’ altri; avverto, dunque, attraverso i limiti del mio essere, che un (l’) essere non limitato, mi ha fatto ‘esistere’. La presenza di me a me stesso importa la presenza mediata analogica in me dell’Essere, senza della quale non avvertirei il mio limite (e dunque l’Essere da cui sono) e nemmeno saprei di essere[23].
Ciò che siamo in quanto creature, rende infelice Hegel, laddove Sciacca disegna serenamente ed effettualmente, secondo i termini hegeliani, la nostra condizione di uomini. Ogni uomo, infatti, scrive Sciacca,
non è equilibrio di elementi, bensì perenne tendenza all’equilibrio; fatto per armonizzare con se stesso, sfugge continuamente a questa armonia; la insegue e le sfugge e quando crede di averla raggiunta in una forma particolare di vita non se ne appaga e tende a realizzarne un’altra. Ogni uomo persegue di essere tutto l’uomo che può essere, senza mai esserlo interamente o pienamente[24].
La Spaltung, passaggio necessario e tuttavia inviso al mondo germanico, per sintetizzare con voluta approssimazione, è per la visione sciacchiana, il senso stesso della presenza della verità nella creatura, la sua eccedenza rispetto ad essa, la sua forza squilibrante e la conseguente consapevole limitatezza creaturale.
Hegel ne parla, sì, come la motivazione stessa della vita che necessita di filosofia per la ricomposizione di questa opposizione/lacerazione, ma mentre questa scissione indica, agostinianamente e rosminianamente, a Sciacca, la presenza della trascendenza nell’immanenza dell’uomo e, dunque, la conferma della Verità sovrastorica e dell’uomo che deve aprirsi alla Rivelazione, per Hegel essa va superata e ricomposta nella storia: la Rivelazione è assunta quale escamotage per avallare la pretesa della sua filosofia di compiere l’Assoluto nella storia, visto che proprio la Rivelazione cristiana annuncia il Dio che si fa storia.
Sottende questa diversa visione dei due pensatori, la diversa valutazione del ruolo e del significato dell’alterità.
Se assegno valore all’alterità, finita e infinita che sia, l’inquietudine che mi proviene dalla separazione non mi dà infelicità, ma diventa coscienza consapevole, segno della mia appartenenza al trascendente, all’oltre, indice, insomma, della mia vocazione a trascendermi, senza la pretesa di ricomporre tale scissione:
il limite costitutivo dell’ente uomo, –ricorda Ottonello- così come di ogni ente, implica il concetto di ‘differenza ontologica’, appunto, fra ente, ossia fra gli enti, e l’Essere[25].
La relazione tra le due autocoscienze, di cui parla Hegel nella sua Fenomenologia, quella relazione che genera scissione, è dunque rapporto tra differenti, dove l’altro dovrebbe richiamare la trascendenza, indurci a vedere “il proprio limite e a partire da questa consapevolezza”, svolgere la propria “identità secondo la vocazione che ha scoperto come sua propria: trascendersi”. Si “supera così la contingenza di sé, e [si] radica il proprio consistere nella pienezza di chi lo trascende”[26].
Hegel ha rinnegato, a giudizio di Sciacca, il fatto che, compreso che ontologicamente nell’uomo,
l’equilibrio è instabile: il suo ‘status’ normale è l’’inquietudine’, la spinta sempre al di là[27],
questo avrebbe dovuto costituire la scoperta della trascendenza e della sua validità fondativa, non il peso del negativo di chi debba essere ri-compreso e riassorbito nel processo dialettico dell’Idea.
Dunque, sciacchianamente,
non immanenza della verità al pensiero, ma presenza in noi della verità che ci trascende e ci fonda: dunque la verità intesa come l’al di là interiore e trascendente[28].
Paradossalmente, ciò che per Hegel è problema, per Sciacca è il luogo delle risposte.
In Hegel, se l’alterità, -finita e infinita che sia-, è ostacolo, motivo di divisione, elemento contrapposto da superare che soltanto la fittizia alterità dello Stato come assoluto ricomprenderà, l’Assoluto come Infinito ed irraggiungibile, lascia lacerata la coscienza, segnandola di infelicità.
Il nodo problematico resta ovviamente il Cristo, Colui che salda la Spaltung.
Hegel ha ben compreso che la divisione non poteva restare in piedi perché irrisolta relazione, così come espressa storicamente e religiosamente dall’Ebraismo. Si ricordi, infatti, come Hegel indicasse nel popolo ebraico il popolo della Spaltung, il popolo “errante”, in eterno nomadismo, in eterna attesa del Messia, in costante tensione.
E’ quanto Hegel ìmputa ai romantici, alle ‘anime belle’ come il pietista Jacobi con i suoi personaggi romanzeschi dell’Allwill e del Woldemar. Le anime belle sono tutte tese ancora ad un infinito che credono irraggiungibile e che ormai, invece, è qui, in mezzo a noi, e che basta raggiungere con consapevole riflessione, come lucidamente chiarisce il filosofo tedesco:
il vero [...] sta nell’Idea, e in essa sola.
Orbene, la natura dell’idea è essenzialmente quella di svolgersi e di comprendere se stessa soltanto attraverso lo svolgimento, di divenire ciò ch’essa è”[29].
L’amore testimoniato dall’ebreo Gesù, che aveva ben compreso l’anima del suo popolo, non ha avuto la forza coesiva oggettiva e chiara di ricomporre finito ed infinito.
Per questo motivo Hegel attinge dalla Rivelazione cristiana, senza alcun atto di umiltà e fede, soltanto gli elementi che potrebbero avallare il suo sistema, dalla Trinità letta come legge dialettica triadica, sino all’Assoluto che si rivela e si compie, in Cristo, nella storia, indiretta giustificazione per le sue polemiche contro le “anime belle”, quelle che vivono con “turgido entusiasmo” la Spaltung. La figura di Cristo è solo formalmente la mediazione dell’Assoluto con e nella storia, ma, sul piano dei contenuti, il Suo, -quello di Cristo, intendo-, resta per Hegel un nobile tentativo, fallito storicamente con la Crocifissione.
A ben vedere, non è dunque tanto la Spaltung o la “coscienza infelice” in se stesse a rappresentare compiutamente la problematicità eterodossa di Hegel, ma la soluzione presunta che egli intende dare alle due precedenti e che è sottesa al concetto di “cattivo infinito”, l’ultima faglia del medesimo rìvolo alla sorgente.
Come si intuisce e come ho accennato all’inizio, si tratta di tre aspetti che appartengono al medesimo concetto, quello relativo al modo con cui ci si rapporta all’alterità. Sto usando consapevolmente questo termine “alterità” non esattamente sciacchiano che la Raschini poco amava, ma lo faccio solo per parlare la lingua del nostro interlocutore.
Perché Hegel definisce un certo concetto di infinito come ‘cattivo’?
Perché è un concetto che non supera la Spaltung e lascia la coscienza nella sua infelicità, nella relazione irrisolta tra finito ed infinito, dove si vive un continuo rinvio all’unità, un’ “intrasmutabilità ...ancora inficiata di opposizione”[30]. Queste le parole del Maestro di Stoccarda:
l’intrasmutabile che entra nella coscienza è ...parimente toccato dalla singolarità ed è presente soltanto insieme con questa che, lungi dall’essere stata cancellata nella coscienza dell’instrasmutabile, vi ricompare di continuo[31].
L’accusa di “anima bella” Hegel, molto probabilmente l’avrebbe imputata anche a Sciacca. Come avrebbe infatti valutato affermazioni sciacchiane come questa?
Son noti i paralogismi dell’idealismo immanentista: «il pensiero umano è esigenza di assoluto, dunque è assoluto»; «il pensiero è percettivo della verità, dunque è costitutivo di essa».
No: 1) proprio perché il pensiero è esigenza di assoluto non è assoluto, ma contiene tanta forza naturale da dimostrare l’esistenza dell’Assoluto stesso, che lo trascende e lo fonda, 2) proprio perché il pensiero è «percettivo» della verità non è «costitutivo» di essa: è la verità che lo fa pensiero e non viceversa.
Dunque la verità è data al pensiero, affinché sia pensiero[32].
La trascendenza è presente quando l’idea oggettiva è l’essere pensato nella sua infinità e come tale mai adeguata dal reale finito[33]: è evidente che una tale inquietudine nell’uomo avrà quiete solo quando approderà in Dio, -come già sapevamo da Agostino-, e non è lecito, per raggiungere questo scopo, manipolare Dio trasformandolo nell’Intero e rendendolo, in tal modo, raggiungibile. L’Universale si è trasformato in Generale, la qualità fondativa in quantità totalizzante.
Anche se pare lontana, la radice di questa manipolazione inquinante, è implicitA già nei primi due rìvoli, giacché la presenza dell’alterità è una ferita da cicatrizzare, in quanto resta e deve restare senza ostacoli l’Ego-Idea che instaura la relazione stessa.
Trascendersi, -Hegel lo sa benissimo e lo presuppone come certo- impedirebbe la ricomposizione e lascerebbe nell’infelicità la coscienza.
Condizione che Sciacca non solo rileva ma che ricorda come identità stessa dell’uomo e sua vocazione più vera. Così con le sue espressioni:
il principio dell’essere nella forma dell’Idea o verità prima, [si badi! È la presenza che poi determina lo squilibrio, la Spaltung!], anche se specificato da tutti i possibili enti particolari e dall’intero universo, non è esaurito da alcuno di essi, né dal loro insieme; li trascende tutti, giacché l’essere nella forma dell’Idea è infinito. Pertanto, il principio del sapere non è esauribile in nessuna forma di sapere o di scienza: trascende la stessa filosofia, che su di esso riflette, trascende tutto il mondo dell’esperire; del conoscere e del fare[34].
Per questo motivo, prosegue ancora Sciacca,
lo storicismo che storicizza l’essere e tutti i valori non può evitarne l’appiattimento al livello dell’empirico; anzi ogni sua forma è implicitamente empirismo...[35]
Non valendo agli occhi di Hegel, la forza ricompositiva della Rivelazione, ecco che la sua geniale base d’avvio ha già posto tutti gli elementi in modo tale da renderli pronti, poi, a negare l’oltre-dell’altro.
Anzi, la Rivelazione fornirebbe l’avallo della negazione dell’oltre-dell’altro, visto che l’Altro è qui, non più oltre, ha piantato la sua tenda in mezzo a noi, nella storia, luogo dove l’Assoluto si rivela e che fa della storia l’Assoluto stesso.
A prova di queste mie interpretazioni può essere indicativo valutare il perché Hegel avesse identificato la “coscienza infelice” con lo scetticismo.
L’accezione che egli diede della scepsi è molto più ampia di quella che ne diamo comunemente noi e, soprattutto, come detto, era già implicitamente valutativa, in quanto il giudizio hegeliano avvolse di scetticismo ogni dichiarata irriducibilità della Verità assoluta alle categorie umane.
Precisamente la figura dell’eros platonico fu definita con caratteristiche scettiche da un contemporaneo di Epicuro, Arcesilao di Pitane (in Eolia), esponente della Media Accademia, vissuto tra il 315 e il 240 a.C. L’eros platonico, figlio di ricchezza e povertà, diventa il modello della “coscienza infelice”, condannato ad una tensione senza possesso.
Hegel avrebbe trattato Arcesilao di Pitane e l’interpretazione scettica di Platone nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia tenute a Berlino nel semestre 1825-1826[36].
Così, dopo la Spaltung che, permanendo, lascia la coscienza nella duplicazione di sé, dunque infelice perché ancora divisa, era necessario e funzionale connettere un concetto adeguato e adeguabile di Assoluto, che desse l’effettiva possibilità di superare quella scissione ed approdare alla calma quiete del compimento dello Spirito.
La sutura operata dal Cristo, tra finito e infinito, come detto, è naufragata sulla Croce: così ha decretato il “mattatoio della storia”, come lo definisce Hegel. Il compito di ricomporre la scissione non può essere affidato a qualcosa che conservi in sé elementi soggettivi ed irrazionali, come l’amore. La ricomposizione la compirà la filosofia che, nella sua interezza, è dialetticamente compresa per intero, nel sistema hegeliano. Per questo, effettualmente, Hegel oltrepassa i limiti creaturali, rifiutando, conseguentemente, l’esser-uomini[37], la cui storia diventa, come per incanto, non il luogo dove si rivela l’Altro come Assoluto, ma assoluto essa stessa.
Hegel pur parlando del Cristo come Dio che si fa storia, ne parla per farne un uso estrinseco, funzionale al suo sistema, giacché se davvero avesse creduto al Salvatore, ogni Spaltung si sarebbe sciolta, risolta, ricucita. Definitivamente. La non accettazione della Spaltung, nel sistema hegeliano, per come si articola la sua riflessione e con gli obiettivi che si era prefissato, ha un duplice presupposto: non credere al Dio Creatore né alla divinità del Redentore. La mancanza di questo riferimento alla pienezza compiuta dell’Essere, toglie consapevolezza creaturale all’ente e lo rende onni-pot-ente. Acutamente scrive la Raschini:
ogni forma di metafisica non creazionista, in effetti, manca di vera capacità dialettica –che inerisce alla costituzione del finito come dialettica esistenziale di ogni ente che deriva de Deo ex nihilo-, in quanto concepisce radicalmente il finito come non essere. E, una volta che si è collocata in una posizione che discredita la positività del finito, al tempo stesso cerca di amplificare retoricamente la finitezza come totalità della realtà per tentar di salvarla[38].
Ironicamente,
risolto il problema che l’uomo è a se stesso, che bisogno c’è di Dio? [...] Dio è Ragione, Dio è il Progresso, Dio è la Scienza, Dio è la Storia, ecc.[39].
e invece, ammonisce ancora Sciacca,
la presenza di me a me stesso importa la presenza mediata analogica in me dell’Essere, senza della quale non avvertirei il mio limite (e dunque l’Essere da cui sono) e nemmeno saprei di essere[40].
Sciacca auspica semplicemente una maggiore e vigile autocoscienza, quella dell’uomo che si riscopra creato. Così infatti scrive:
noi diciamo...che la vera conquista del pensiero moderno, non è il principio della ‘creatività’ dello spirito e conseguentemente dell’immanenza, ma la riconquista, attraverso il processo critico, della sua ‘creaturalità’ e perciò della trascendenza, riscoperta nel suo autentico significato spirituale datole dal pensiero cristiano[41].
Senza la fede in Dio e la conseguente speranza dell’immortalità, continua il nostro Maestro,
crollano tutti i principi della morale e della religione. La risoluzione della crisi della coscienza contemporanea è, dunque, nella restaurazione di quella metafisica tradizionale cristiano-cattolica, che è stata sempre la spina dorsale di ogni verace autentica civiltà, il fondamento incrollabile di ogni verace autentica concezione morale della vita[42].
L’alterità è fondamento e, hegelianamente, non può identificarsi con l’alterità fondativa dello Stato nel quale ogni singolo trova il suo senso. L’assolutezza dello Stato hegeliano è mera generalità, la totalità quantificata, al punto che, ci si può chiedere quanti assoluti ci siano nella storia, visto che ogni Paese potrebbe rivendicare se stesso come Stato assoluto. Lo Stato come Assoluto è un ego allargato, che resta un ego, per di più indebitamente assolutizzato, perché vi domina la generalità onnicomprensiva. E ogni Stato Assoluto rivendicherebbe altrettanta indipendenza. Così la relazione oppositoria tra le due coscienze si duplicherebbe, -si potrebbe dire si clonerebbe-, a livello di Stati, dove ogni Stato vivrebbe la sua infelicità di non essere compiuto come Assoluto, avendo davanti a Sé, contrapposti e divisi, gli altri stati. Dovremmo pensare, anche qui un unico Stato che abbia in se stesso “compreso e riassorbito, nel suo Aufhebung, tutti gli altri.
La più coerente realizzazione dell’assoluto hegeliano nella storia, della verità come sviluppo storico, ricorda ancora Sciacca[43], è stato Marx e la sua antifilosofia e oggi, in senso più ampio, ogni monismo autoreferenziale storicista e ateo.
E’
questione di ‘umiltà’ sentirci non i creatori della verità, ma gli umili servitori di essa, legati dal comune amore per la verità, fatto di rispetto e obbedienza. Solo in questo amore comune, unico stimolante ed unico fine, le culture possono trovare il loro punto d’incontro, la loro compenetrazione, come tanti punti di vista sollecitati dalla stessa aspirazione, tendente all’identico scopo[44].
Se l’oggetto proprio e degno ed unico della filosofia fu per Hegel l’Assoluto, bisognava recuperare la metafisica creazionista,
nel suo senso spiritualistico e non naturalistico, …metafisica il cui centro è il soggetto spirituale e non il “reale in sé”, che, come in sé, non significa niente[45].
Per questo motivo, il Soggetto trascendentale dell’idealismo, malgrado tutto l’immane lavoro teoretico del Maestro di Stoccarda, come denuncia Sciacca, resta ancora
pago della natura e della storia, la cui attività si esaurisce nell’ambito del mondo, […]; e questo non è più spiritualismo, ma naturalismo[46].
Così, quegli “uomini, del tutto obliosi del divino”, ai quali alludeva Hegel e che ho ricordato all’inizio di questo mio intervento, non sono stati sollevati “dall’abbruttimento nel sensibile, nel volgare e nel singolo” ed educati con la sua filosofia panlogica ed onnicomprensiva a indirizzare lo sguardo alle stelle.
Con il grande sistema hegeliano essi sono diventati certamente consapevoli della storia nel suo Intero, sono ormai forti di un sapere dialettico superiore, quello, come riconosce Sciacca stesso,
di cogliere la realtà nella sua concretezza che il processo astrattivo della logica classica tende[va] a fissare nell’immobilità e irriducibilità dell’essenza[47],
ma restano uomini che testardamente, a schiena e a capo curvi sulla terra, hanno continuato e continuano ancor oggi, nei multiformi epigoni del filosofo tedesco, ad “appagarsi, come i vermi, di polvere e d’acqua”[48].
[1] M. F. Sciacca, I due Idealismi, in Actas del Primer Congreso Nacional de Filosofía, Mendoza, Argentina, marzo-abril 1949, tomo 3, p. 2040. [2] G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Prefazione, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 6. [3] Ivi, pp. 6-7. [4] M. F. Sciacca, Atto ed Essere, L’Epos, Palermo 1991, p. 96. [5] M. F. Sciacca, In Spirito e Verità, Marzorati, Milano 1963, p. 287. [6] Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Prefazione, p. 14. [7] Cfr. K. Jaspers, Introduzione alla filosofia. Cortina, Milano 2010. [8] J. Laplanche-J.B.Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari 1974, vol. II, p. 544. [9] G. W. F. Hegel, Differenza fra il sistema fichtiano e schellinghiano, in Primi scritti scritici, a cura di R. Bodei, Mursia, Milano 1999, pp.13-14. [10] G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Prefazione La Nuova Italia, Firenze 1972 (4°R), vol. I, p. 13. [11] Laplanche-Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, p. 544. [12] Hegel, Fenomenologia dello Spirito, p. 174 [13] Ivi, p. 151. [14] Ivi, p. 156. [15] Ivi, pp. 175-176. [16] Ivi, p. 176. [17] Ivi, pp. 186-187. [18] A. Caturelli, Michele Federico Sciacca. Metafisica dell’integralità, Ares, Milano 2008, p.324. [19] Sciacca, Atto ed Essere, p. 56. [20] R. Rossi, L’oggettività interiore. Lezioni postume da M. F. Sciacca, Aracne, Roma 2015, p. 17. [21] M. F. Sciacca, L’uomo, questo “squilibrato”, Marzorati, Milano 1959, p. 141. [22] A. Modugno, Interiorità e trascendenza. La lezione di Sciacca per il terzo millennio, Armando, Roma 2009, p. 108. [23] M. F. Sciacca, Filosofia e Metafisica, Marzorati, Milano 1962, vol. I, p. 120. [24] M. F. Sciacca, L’uomo, questo “squilibrato”, cit., p. 146. [25] P.P. Ottonello, Sciacca. Interiorità e Metafisica, Marsilio, Venezia 2007, p. 46. [26] Rossi, L’oggettività interiore. Lezioni postume da Michele Federico Sciacca, p. 81. [27] M. F. Sciacca. Morte i Immortalità, Marzorati, Milano 1959, pp. 182-183. [28] M. F. Sciacca, Interpretazioni rosminiane, Marzorati, Milano 1958, p. 67. [29] G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1964 (2°r), vol. I, p. 30. [30] Hegel, Fenomenologia dello Spirito, p. 177. [31] Ivi, p. 176. [32] M. F. Sciacca, Ragione “critica” e Rivelazione, in Giovanni Rossi, Uomini incontro a Cristo, Edizioni Pro Civitate Christiana, Assisi 1954, p. 43. [33] Cfr. Sciacca, Interpretazioni rosminiane, cit., p. 159. [34] M. F. Sciacca, Gli arieti contro la verticale, Marzorati, Milano 1972, p. 61. [35] Ivi, p. 34. [36] Cfr. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, con introduzione di Roberto Bordoli, Laterza, Roma-Bari 2015, Sez. terza, Parte seconda, § 2. [37] Cfr. M. F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, Marzorati, Milano 1972, p. 143. [38] M. A. Raschini, Incontrare Sciacca, Marsilio, Venezia 1999, p. 131. [39] Sciacca, Filosofia e Metafisica, vol. I, p. 163. [40] Ivi, vol. I, p. 120. [41] Sciacca, Filosofia e Metafisica, I, p. 94. [42] M. F. Sciacca, Il problema di Dio e della religione nella filosofia attuale, Morcelliana, Brescia 1944, p. 267. [43] Cfr. Sciacca, In Spirito e Verità, cit., p. 156. [44] Sciacca, Filosofia e Metafisica, I, p. 163. [45] Sciacca, Interpretazioni rosminiane, cit., p. 114. [46] M. F. Sciacca, La filosofia morale di Antonio Rosmini, Marzorati, Milano 1960, p. 97. [47] Ivi, p. 113. [48] Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., p. 6.
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