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Per quale motivo è necessario, oggi, qui, parlare e cercare di capire l’interpretazione dell’idealismo tedesco fatta da Sciacca?
Questo titolo, -a pensarci bene-, non è semplicemente programmatico per una lezione, ma allude, in realtà, ad un bivio: aut aut. Il titolo, infatti, presenta due paradigmi, due modelli alternativi, senza mediazioni reciproche. Da una parte c’è un pensatore, -non casualmente oggi per lo più ignorato-, che testimonia la filosofia perenne e la visione cristiana della vita; dall’altra, c‘è l’assolutizzazione della storia, delle sue preoccupazioni ed urgenze, l’asservimento giustificatorio del logos al mutevole storico.
Ma è questo asservimento giustificatorio di ciò che accade, la natura e il compito del logos filosofico, così come ci viene richiesto dal titolo del Corso? Far tacere il pensiero e far parlare l’evento storico, per poi giustificarlo?
E detto questo, ha senso oggi questa alternativa di scelta? Non si assegnerebbe, in tal modo, un’importanza eccessiva ad un pensiero, quello idealistico tedesco, che pare aver esaurito le sue pur ampie possibilità? Non abbiamo altri importanti problemi da dover affrontare insieme?
Se per idealismo tedesco, però, intendiamo la più compiuta forma di filodossia, come la definiva Sciacca, troveremo quale suo epigono vivente quella perdita dell’Assoluto Trascendente o la sua confusione con la storia, ben presente oggi e che rende l’alternativa, purtroppo, visibile e predominante persino, -ho davvero la speranza di sbagliare-, nelle pieghe stesse –pieghe che Rosmini avrebbe definito piaghe- della nostra Chiesa.
Su questa premessa, il mio intervento in questo Corso che pure è una Cattedra, non può insegnare niente, a nessuno, perché è soprattutto un grido d’aiuto, seppur decantato, d’aiuto intellettuale intendo, nell’ottica dell’ortodossia cattolica. È un intervento che mi pesa e che vorrei verificare con voi, sottoporlo alla vostra valutazione. Come docente ed educatore cattolico in una istituzione, per giunta, legata direttamente al Pontefice, questa mia relazione è, lo ripeto, una richiesta di ascolto e d’aiuto, d’aiuto al mio disorientamento.
Avevo preparato questa relazione in modo molto diverso, ma persino a mia insaputa, per così dire, quanto vi proporrò è diventato pensiero e preoccupazione dominanti, in questi ultimi mesi soprattutto, tanto da spingermi a stravolgere la prima stesura e a deciderne una seconda dove, purtroppo, dovrò alludere a riferimenti sgradevoli a me e a voi e per i quali chiedo anticipatamente scusa e clemenza. D’altra parte, all’apertura del Sinodo straordinario sulla famiglia, siamo stati invitati tutti, noi cattolici, a parlare con parresìa, cioè a dire tutto con franchezza e libertà[1], e, aggiungo, da parte mia, con onestà d’intenti.
Sono disorientato perché l’adorazione, anche implicita del mondo si manifesta, come suggerisce Sciacca, nella ricerca della
perfezione orizzontale che si alimenta di un mediocremente utopistico “amore del prossimo”, sostitutivo di Dio, come se senza Dio il prossimo fosse ancora tale, e non “lontanissimo”…[2]
Ora, noi sappiamo sempre da Sciacca che la filodossia è il trionfo del particolare, del mondano, dell’agire per urgenza senza più l’orientamento del logos, perché schiacciato sugli eventi storici. Anzi, ogni filodossia è una dichiarata logofobia che coinvolge il principio dialettico di ogni logos, sempre fondato sulla differenza non certamente sulla omo-logia come in Hegel. L’alterità che Hegel oppone per poi risolverla nel processo dell’Idea è, come è noto, una alterità fittizia, denunciata, seppure in modo adombrato, nella figura della “coscienza infelice”, dove l’infelicità è risolta laddove la coscienza diventi consapevole che l’altro è semplicemente alter-ego, il “me” dall’io scisso che devo ricomporre. Si tratta di un processo dialettico autoreferente, che tutto include perché non c’è confronto autentico con l’alterità: non si esce dalla dimensione dell’omos. Del resto, non è forse eliminata, preliminarmente, nel sistema hegeliano, l’Alterità per eccellenza, cioè quella della Trascendenza?
Ma senza logos, avvertiva Sciacca,
non c’è più niente, né verità umana né Verità rivelata: c’è solo il puro “razionale” funzionamento di un tutto funzionale e razionalmente strutturato, cioè il “lucido” senza la luce dell’intelligenza, l”organizzato” senza l’ordine dell’essere, la “socialità” senza il fuoco della carità, annaffiato dalla tolleranza nel senso più retorico e deteriore[3].
M’interessa dunque evidenziare questo bivio interpretativo: logos o filodossia, storicità o storicismo, trascendenza o immanenza.
La premessa è questa: Sciacca, come perfettamente sintetizza la Modugno, aveva capito che soltanto il
concepire il principio dialettico diverso dal principio metafisico, consente di pensare l’essere analogo e di far “stare tutto in uno nella diversità” e non nella univocità-equivocità[4].
Il riferimento è chiaro: recuperare la metafisica
nel suo senso spiritualistico e non naturalistico, …metafisica il cui centro è il soggetto spirituale e non il “reale in sé”, che, come in sé, non significa niente[5].
Siamo nel 1954 e il filosofo siciliano chiariva così le sue critiche all’idealismo tedesco:
Debbo al Rosmini la liberazione da Kant e dall’idealismo trascendentale, […]. Il problema è qui: la verità è «sviluppo» o è «scoperta»? È «posta» … «creata» dall’uomo o è «presente» interiormente all’uomo?
Son noti i paralogismi dell’idealismo immanentista: «il pensiero umano è esigenza di assoluto, dunque è assoluto»; «il pensiero è percettivo della verità, dunque è costitutivo di essa».
No: 1) proprio perché il pensiero è esigenza di assoluto non è assoluto, ma contiene tanta forza naturale da dimostrare l’esistenza dell’Assoluto stesso, che lo trascende e lo fonda, 2) proprio perché il pensiero è «percettivo» della verità non è «costitutivo» di essa: è la verità che lo fa pensiero e non viceversa. Dunque la verità è data al pensiero, affinché sia pensiero[6].
Il bivio ora si è chiarito. L’idealismo ha trasformato la verità interiore in autofondamento, schiacciandola nella soggettività assolutizzata del pensiero e asservendola alla storia e alle sue cadenze.
Per questo motivo, secondo Sciacca, analogamente alla struttura apriori kantiana, può dirsi
del Soggetto trascendentale dell’idealismo, anch’esso pago della natura e della storia, la cui attività si esaurisce nell’ambito del mondo, […]; e questo non è più spiritualismo, ma naturalismo[7].
Ho sempre amato nel Socrate propostoci da Platone la capacità di dialogare, confutando i propri interlocutori partendo dalle loro premesse. Non il di-battito, il battersi con ogni mezzo, ma il dia-logo, un logos che passa dall’uno all’altro e lo può fare soltanto se non sono due mere posizioni soggettive a scontrarsi.
Insomma: avviare il dialogo dalle premesse di quanto afferma colui che dovrà essere smentito. Questo è, qui, nel nostro caso, ciò che mi servirà ad avallare le riflessioni di Rosmini e Sciacca, partendo dalle premesse hegeliane.
Infatti, l’idealismo assoluto hegeliano, quello per cui la storia si risolve nell’Idea e questa nel processo storico, la interpretiamo precisamente secondo le indicazioni di Hegel stesso, in particolare attraverso quelle che, genialmente, egli espresse nei confronti dell’Identità schellinghiana.
È nota la concezione dell’Assoluto in Schelling che pretende di cogliere questo assoluto come un’unità indifferenziata, come un’unità indistinta di soggetto e oggetto, di finito e di infinito. Mi sto riferendo alla icastica stroncatoria affermazione hegeliana secondo la quale Schelling è rimproverato di vedere l’assoluto come una notte in cui tutte le vacche sono nere, cioè in cui non si può distinguere niente, dove ogni differenza svanisce.
Queste le parole di Hegel:
contrapporre alla conoscenza distinta e compiuta, questa razza di sapere, per la quale nell'Assoluto tutto è uguale, -oppure gabellare un suo Assoluto per la notte nella quale, come si è soliti dire, tutte le vacche sono nere, tutto ciò è l'ingenuità di una conoscenza fatua[8].
Ma in Hegel, storia ed Idea sono un’unica realtà: filosofia è, infatti, storia della filosofia. Pensiero e storicità, dialettica dell’idea e processualità storica convergono completamente. Se principio metafisico e principio logico coincidono, come esplicitamente dichiarato da Hegel, ogni alterità che avrebbe permesso il riconoscimento ed il mantenimento della differenza, nella effettualità hegeliana scompare, evapora, è mera apparenza del passaggio dialettico. È perduta l’intelligenza dell’essere perché è annullata la metafisica ed è, di conseguenza, perduta l’essenza dialettica dell’intelligenza che si sa finita ma con un contenuto infinito.
Ed è qua che possiamo applicare, socraticamente, a Hegel proprio a Hegel, le sue critiche antischellinghiane: “nella notte dell’identità dell’Assoluto hegeliano come Intero, dove la processualità della storia e dell’idea s’identificano, tutte le vacche sono nere”.
Ciò significa, rosminianamente e sciacchianamente, che idealismo e materialismo coincidono. Direi che la sintesi tra le due dimensioni è l’ambiguo concetto di “storicismo”, dove la vita che si delinea è solo una neopagana divinizzazione della natura.
Né deve ingannarci il fatto che Hegel avesse voluto superare questa indifferenza tra ragione e storia introducendo nella processualità dell’Idea la mediazione, cioè una struttura dialettica triadica: essa è soltanto funzionale all’intelligibilità del reale e alla storicizzazione dell’idea, cioè alla loro immanente reciproca riduzione equivalente. Ma oltre alla diade Idea-Storia non c’è un tertium. Questo, infatti, è interno, dialetticamente immanente, relativo all’identificazione tra storia e idea e come medium svolge ed esaurisce la sua funzione solo in questa unità raggiunta.
Non a caso, a conferma di quanto appena detto, l’identificazione hegeliana tra realtà e razionalità, proclamata nei Lineamenti della filosofia del diritto, pubblicati a Berlino nell’ottobre del 1820, ha bisogno di una chiarificazione che, a mio avviso, spiega molto di questa unità indifferenziata. Non tutta la realtà, infatti, per Hegel, è razionale e razionalizzabile. Egli distingue infatti Realität da Wirklichkeit. Soltanto questa seconda è razionalizzabile e dunque “vera realtà”.
La prima, -autentico alter-, è irriducibile al pensiero, in quanto giudicata mera “cosalità” senza significato per il progresso della Ragione speculativa. Questa irriducibilità della Realität, che sfidava come alterità il sistema hegeliano, invece di diventare motivo di confronto, è stata espulsa dal sistema stesso, dando vita a filosofie che hanno trasformato questi scarti, queste “briciole”, come le avrebbe definite Kierkegaard, in tematiche vitali: l’ex-sistente, il dolore e, paradossalmente, la vita stessa[9].
Cosa ha fatto dunque Hegel?: selezionando e pre-scegliando la realtà pensabile e scartando nelle premesse, invece, quella irriducibile al pensiero, ha poi trionfalmente “dimostrato” che la realtà pensabile è coincidente con il pensiero. E certamente! E lo era già in avvio! La dimostrazione è fittizia, è semplicemente una argomentata tautologia[10]. La metafisica hegeliana è schiacciata sulla logica[11].
La trascendenza della verità rispetto al pensiero, viceversa, reca con sé l’esistenza in sé della Verità trascendente. Dunque
se l’oggetto del pensiero non è posto dal pensiero stesso, consegue che la Verità è prima ed indipendente dal pensiero; dunque, oltre alla verità in me, esiste la Verità in sé[12].
Sciacca vuole giustamente sottolineare la conservazione da parte del Roveretano, del dualismo di tradizione greco-cristiana, di contro al pensiero moderno: c’è la nostra piccola “verità” umana e la Verità in sé trascendente alla quale quella è analoga. La Verità alla quale l’uomo anela come suo compimento, non può essere confusa, appunto come denuncia Rosmini, con quanto quest’uomo può raggiungere con i suoi strumenti, in quanto sarebbe come confondere i mezzi con il fine.
Dunque, a ben vedere, si tratta della riproposizione dell’antico “classico” originario altro bivio: o Platone o Aristotele. Altrimenti espresso, si tratta di ribadire, platonicamente, che l’universale non scaturisce dal particolare, seppure indefinitamente esteso.
Uno degli impegni più significativi perseguiti da Papa Benedetto XVI fu la valorizzazione e la difesa della ragione come capace di verità e di Dio[13] e capace di superare ogni relativismo.
Il logos, dunque, può e deve diventare punto d’incontro e confronto, in quanto rappresenta un possibile e necessario comune denominatore fra gli uomini, un fondamento che permetta la convivenza tramite il rispetto dei principi universali, non negoziabili, come sono la vita, la famiglia o la libertà d’educazione, valori che costituiscono il punto di partenza dell’annuncio cristiano.
La logica interna del “pensiero debole” al quale si rivolgeva Benedetto XVI, è quella votata tutta, invece, ai fatti storici, alla loro urgenza che richiama alla loro soluzione. In nome della volontà di questa soluzione, da trovare in ogni modo, -urgenza che s’impone oggi come nuovo ipse dixit anche al cristiano-, diventa lecito negoziare qualsiasi principio, facendo diventare la maggioranza il criterio di giudizio morale e tramutando, di conseguenza il male in bene e viceversa[14]. Così, basta raggiungere il consenso (lasciamo da parte i modi con i quali si raggiunge) e tutto diventa lecito.
Ma l’universale non segue, non scaturisce dal particolare. Lo precede e lo fonda, illuminandolo ed orientandolo. Da Platone ad Agostino sino a Rosmini, Sciacca sottolinea questa presenza innata, che
è l’idea dell’essere, in universale, che appunto non è “concetto”, ma “idea” e come tale, genitrice di tutti i concetti; non è ricavata discorsivamente, ma intuìta; non è la ragione, ma il lume è l’oggetto della ragione; non è indotta per astrazione, perché ogni astrazione la presuppone e perché non è inducibile dall’esperienza sensibile[15].
Le pretese dell’induzione, fondatrice del metodo sperimentale della scienza e di ogni scientismo, ed ora aggiungo di ogni storicismo come pretesa e pretestuosa indicazione della storia quale magistra vitae- sono quelle di approdare all’universale e alla fedele ricostruzione concettuale della realtà a partire dal particolare esperito. Tale pretesa si compie proprio con l’idealismo, l’ottica che, a ben vedere, -su questo punto affine alla scienza- giudica la realtà coincidente con l’idea che si ha di essa.
Tale coincidenza nasce dalla pretesa di poter conoscere questa realtà, di poterla “tradurre” in termini concettuali, di esserne fedele trascrittore “in numeri e cifre”; dunque di aver raggiunto l’adeguazione del pensiero e della cosa.
In questa adeguazione, il pensiero è la cosa idealizzata e la cosa è pensiero cosalizzato: insomma, di nuovo, l’indifferenza della notte schellinghiana e, a questo punto, anche hegeliana. L’uno si fonde nell’altra, illudendosi, ciascuno dei due elementi, di avere sciolto reciprocamente il problema. Si tratta invece della solita tautologia autofondata, che nulla dice. Si fa passare per soluzione ciò che, viceversa, resta problema, anzi, per dirla con Einstein il più grande dei misteri: la convergenza intelligibile tra natura e pensiero.
Si tratta di un esito, dunque, ancora una volta foriero d’indifferenza, di autoreferenzialità tautologica, di materialismo mascherato, d’idealismo mascherato. In altre parole, di storicismo: la storia spiega la storia.
La pigra diffusione di un certo tomismo ha voluto accentuare questo aspetto di Tommaso, quello induttivo-aristotelico dell’adeguazione dell’intelletto e della cosa, non capendo quale versante pericoloso venisse aperto, che soltanto la sensibilità filosofica di Rosmini prima e di Sciacca dopo hanno perfettamente individuato. Fondare l’universale su una quantificazione estesa e misurabile è una pretesa dogmatica, è spacciare il condiviso ed il generale per universale, significa radicare questo sulle sabbie mobili dell’adesione mutevole, sull’estensione sempre variabile ed ampliabile o vanificabile, su riferimenti, insomma, interscambiabili e dunque del tutto relativi.
L’alterità è conservata e conservabile soltanto se il particolare è preceduto e, dunque, fondato dall’universale: soltanto in questo modo è presente l’autentica dialettica. Se, viceversa, si ha la pretesa di pervenire all’universale secondo gli antichi dettami aristotelici del metodo induttivo poi sperimentale, non si esce dal quantitativo e dal particolare: lo si estende soltanto, lo si ampia ad libitum decretando, ad un certo punto, dogmaticamente, che esso è sufficiente per dichiarare che può bastare, che è un limite così ampliato da diventare senza limiti. Questo metodo, come quello hegeliano, non tratta l’oggetto come alter, ma come semplicemente un alter-ego, cioè il soggetto che fa del suo mondo il mondo, che pretende che il suo soggettivo spazio esperienziale possa farlo approdare alla verità[16].
Credo che il concetto di cattolico non abbia nulla a che fare con questa rincorsa al consenso e con il suo piegarsi alle logiche dell’immanenza. La verità trascende il particolare, non è, credo, una sommatoria che accoglie misericordiosamente tutte le scelte particolari, magari astenendosi dal giudicarle o trovando reconditi particolari per giustificarle. La verità che è carità ama certamente ogni particolare per quel che è, ma senza alcuna necessità di consentire ed accettare e assorbire pericolosamente ciò che non appartiene al logos cristiano, alla dottrina, alla tradizione, alla teologia cattolica: sarebbe una misericordia da “pensiero debole”, che non assegna più alcun compito al logos. L’opposto al Discorso di Ratisbona.
Amare l’altro non significa condividerne le scelte e i valori e se questi non sono compatibili con la Verità della Rivelazione e della Tradizione vanno, con la medesima carità, condannati.
La Chiesa non ha l’obbligo improrogabile di ammodernarsi e se decide di farlo, come avvertiva Sciacca,
lo faccia a fondo, fermo restando il suo magistero infallibile[17],
non negoziabile, in quanto non c’è
discorso di giustizia o di libertà o di che si voglia senza il logos che, di origine divina e non di formazione storica né storicizzabile, ha il suo coronamento nel Verbo incarnato[18].
È ora forse più chiaro il mio disorientamento, perché credo che la Chiesa non possa aprirsi al mondo rinunziando alle sue dottrine, all’assoluta intangibilità delle sue verità eterne, adeguandosi alle opinioni più diffuse del tempo, anche con una democratica e misericordiosa equivalenza delle religioni, tutte votate alla pace e al dialogo e funzionali, per questo, al benessere terrestre.
Il pensiero di Sciacca che qui ora vorrei proporvi, è lungo, ma illuminante e determinante per quanto sto cercando qui di chiarire.
Non mi si obietti, scrive il filosofo siciliano,
che è tempo di fare e trasformare e non di filosofare e pensare, di azione fattiva e non di verità (neanche a dirlo “astratte”), né di misticismo e di preghiera; rispondo, anche se l’obiezione non meriterebbe alcuna risposta: proprio perché non è tempo di questo, il nostro tempo ha più di ogni altro urgente bisogno di questo, ed è nostro compito darglielo anche se lo rifiuta. Che sarebbero mai la Chiesa di Cristo e il Cattolicesimo se si limitassero alla pura azione sociale, alle opere organizzate di progresso materiale, alla predicazione del più terrestre e vuoto umanitarismo e cessassero di essere luce di verità e azione, ma dalla verità illuminata? Né mi si obietti che la filosofia non serve e neanche la teologia ché bastano la sola fede, quella popolare, e l’aiuto al prossimo a soffrire di meno e a vivere meglio. Mi si obbliga a rispondere rispetto all’ultimo punto che qualsiasi associazione è in grado di darlo e che il prossimo non è più tale se Dio non è e non Lo si ama più di noi stessi e dunque anche del prossimo, il che comporta l’essere della verità e dunque il discorso filosofico e teologico[19].
Non è la storia, neppure con l’urgenza drammatica dei suoi innumerevoli problemi, a dirigere ed orientare il comportamento di un cattolico, ma, come ricorda Sciacca,
un sapere fondato in verità; consegue che nessuna cooperazione pratica va realizzata contro questo principio o senza tenerne conto.
Al fondo di questi e di altri equivoci, -è ancora Sciacca a parlare- vi è una specie di logofobia, prodotto della filodoxia[20].
Così, viene messa a tacere l’intelligenza, il “render ragione della speranza che è in noi”, tutto tacitato in nome di un’azione pratica senza dottrina, senza logos, senza, dunque, motivazione che non sia un gregarismo filantropico. E, attenzione a queste affermazioni,
invece di affermare le proprie idee in faccia a quelle degli altri, si accettano quelle degli altri. Non si converte, ci si lascia convertire. Non si conquista, ma ci si arrende. I vecchi amici che sono rimasti sulla diritta via sono ritenuti reazionari… Veri cattolici son ritenuti soltanto coloro che sono capaci di tutte le debolezze e di tutte le compassioni[21].
Queste che ho appena ricordato, non sono mie parole, né affermazioni di Sciacca, ma dell’allora Arcivescovo di Milano Cardinale Montini, poi Paolo VI, che Sciacca cita come un ammonimento, per noi oggi, davvero profetico.
Sono disorientato perché se la storia diventa il luogo dove raggiungere l’Assoluto, così come insegnatoci da Hegel, il logos è schiacciato sulla storia, anzi, è la storia stessa e i suoi bisogni ed il messaggio evangelico diventa una delle tante vie per la ricerca di una felicità umana, di un perfezionismo terreno, di un paradiso terrestre. L’uso pur indebito, come bene sottolineato da Sciacca[22], del termine irenismo, spiega però chiaramente quell’
accondiscendenza a tutto e a tutti per viverci sopra il più pacifisticamente possibile[23].
L’impegno del cristiano nel mondo, doveroso e responsabile, deve essere consapevole che “il passaggio da una vita subumana a una umana” non rappresenta, come avverte Sciacca,
la realizzazione compiuta e perfetta dell’amore cristiano e il fine ultimo del Cristianesimo come tale, che resta innanzitutto e soprattutto quello della salvezza eterna in Cristo, il Salvatore, a imitazione del quale il cristiano deve vivere pensare volere operare e, nella Sua Chiesa[24].
Senza un fondamento trascendente, ogni forma di altruismo decade a livello animale, come mera solidarietà a difesa della specie.
Senza il costante riferimento “celeste” si ha un Cristianesimo deromanizzato e disellenizzato che espelle dalla teologia il soprannaturale ed espelle la stessa teologia, trasformando Cristo ed il suo insegnamento, -sto ricordando ancora alcune affermazioni di Sciacca-, in
un mero messaggio sociale, di pacifismo, di umanitarismo, ecc., un’esortazione all’uomo a purificarsi dei suoi egoismi in vista di un’astratta comunità mondiale. […]
…se il messaggio di Cristo si riduce, secondo il processo detto demitizzante, a una esortazione a costruire questa nuova società e nella sua attuazione si ripone la salvezza donata con il Suo sacrificio riscattatore a ciascun uomo singolarmente e insieme alla comunità dei credenti, esso si fa coincidere con qualsiasi messaggio mondano si proponga gli stessi fini, per cui essere cristiani o essere comunque per una società migliore non fa alcuna differenza se non forse nei metodi, essendo identico il punto di partenza e il fine ultimo che si vuol conseguire.
Infatti un reverendo Padre, che è poi uno de tanti reverendi oggi impegnati in questa impresa, può scrivere che non occorrono più, e non servono, pellegrinaggi ai luoghi santi ed è più cristiano nutrire chi ha fame [25]…
Se così è, allora la risposta cristiana non si differenzia da una risposta laica,
marxista o non, giacché questa della società migliore o perfetta di domani è l’unica risposta laica comunque venga formulata e perseguita[26].
Sono disorientato, perché, dovremmo ricordarlo: “da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”[27]. La persona è fine in quanto “ha in sé la presenza del fine supremo che la trascende”[28], altrimenti la solidarietà altro non sarebbe che filantropismo umanitario: per questo poi, su questa base, tutte le religioni appaiono equivalenti.
Dunque non si tratta, per l’amore cristiano, di un amore confondibile con altri: svaluteremmo la Rivelazione riducendola a qualcosa di sostituibile umanamente. La dedizione cristiana, l’amore, la misericordia non vanno confusi con un irenico abbraccio che tutto rivaluta, tutto giustifica, tutto avalla. La salvezza del mondo non è salvezza nel mondo, con l’uomo che vorrebbe realizzarsi in terra. Il cristiano è straniero e pellegrino su questa terra[29], non conformato a questo mondo[30]. Perché non continuare a ricordarlo?
Il mondo è, invece, il fine dell’Idealismo e dello Spiritualismo che, tuttavia, non sono che naturalismo. Il dialogo con questo mondo è quello che Sciacca definiva con mezzo secolo d’anticipo e con suggestiva colorita semantica “il dialogo proibito”. In questo illuminante paragrafo di Filosofia e antifilosofia Sciacca si chiede se mai il mondo cattolico fosse preparato culturalmente e specifica –filosoficamente, religiosamente, teologicamente- ad accettare il dialogo con le forze che negano il Cattolicesimo nella lettera e nello spirito,
senza correre il pericolo mortale, dico per la cattolicità, che di fatto in alcuni suoi settori sta correndo, di condurlo al puro livello pragmatico, compromettendo le sue verità teologiche e filosofiche con il metodo della conciliazione di cose contrarie e delle concessioni, soprattutto con la riserva mentale di accantonare i principi per un’azione da spendere alla giornata[31].
È straordinario come leggendo il Maestro di Giarre io abbia trovato una eco consolatrice e due spalle teoreticamente possenti per la mia difesa, parole che sanno interpretare completamente il mio personale smarrimento. Così scriveva infatti:
oggi, si resta dolorosamente sconcertati e allibiti di fronte al rumoreggiare di un modulo di dialogo di cedimento, pronto a scendere a compromessi anche su questioni che coinvolgono verità filosofiche religiose teologiche inalienabili e a intendere l’”apertura” della Chiesa al mondo moderno quasi come un pietire da parte di quest’ultima, tutta mea culpa, una conciliazione che l’altro le può sussiegosamente e con molta degnazione concedere[32].
Vedete, sembra si sia lontani chissà quanto dall’idealismo tedesco del quale dovevo parlarvi. Ma ancora una volta, un pur breve passo scacchiano evidenzia che non è così. La posizione dei cattolici, infatti, scriveva Sciacca,
di fronte allo storicismo idealistico immanentista è molto complessa e merita almeno qualche ulteriore chiarimento. Infatti, si tratta di un pensiero che, quando non assume la forma di esasperato utopistico attivismo o l’altra di materialismo marxista, si presenta insidiosamente come la prospettiva più completa di umanesimo, che ha accolto e inverato il meglio del Cristianesimo[33].
Certamente non ho affrontato tanto la raffinatezza intellettuale di Hegel o lo slancio egoico e romantico di Fichte o la serena indifferenza assoluta di Schelling Ma resta, epigono diffuso e banalizzato, -come avviene per tutto oggi-, quell’adorazione del giornaliero, dell’attuale, della cronaca anche più effimera, della storia di chi vive oggi come orizzonte privilegiato e luogo di redenzione tutta umana.
La dialettica hegeliana dell’et-et tutto include e giustifica, al punto da spingere Nietzsche a qualificare un tale atteggiamento come “filisteo”, asservito ai fatti e al variabile storico del quale dare una forma di ospitalità approvatoria a tutti i livelli.
Sono disorientato, perché ogni qual volta si assegna al fatto storico la preminenza sul logos, si castra la verità, la si schiaccia sul mutevole ed effimero che in quel momento viene indebitamente assolutizzato ed eletto a criterio di riferimento. E si piega la Verità a quel mutevole, giustificando l’operazione su un piano di misericordia senza più logos, su un’accettazione senza più consapevolezza della differenza e dell’identità, di distinguere la persona dalla personalità, riunendo il tutto irenicamente, come l’Assoluto schellinghiano e lo storicismo filodosso hegeliano, dove, ancora una volta, in quelle tenebre (tenebre per il logos) che tutto accolgono, “tutte le vacche sono nere”.
Sono disorientato perché strumentalizzare un’alterità fittizia come ha fatto Hegel o togliere ogni dialettica, assimilando l’altro in una acritica unità, in nome di una misericordia valoriale che tutto accetta e, soprattutto, giustifica, sono la medesima cosa: trionfa l’indifferenza, il non distinguere più la differenza, instaurare una relazione adialettica.
Sciacca usa il concetto di “riduzione-sostituzione” graduale, che procede per livelli e che coincide per negazioni successive dell’essere portando ad una sorta di nuovo Cristianesimo, finalmente senza più principi indiscutibili, tutto prono verso il mondano, impegnato, sono parole di Sciacca,
a favorire l’unificazione dell’umanità in una specie di Organizzazione mondiale che uguaglia tutti gli uomini in un uniforme livello di vita, realizzazione terrestre delle promesse messianiche, dove la pace sarà perpetua giacché l’opulenza dà la sicurezza vitale […]. E così il pacifismo il progressismo il modernismo e tutti i temi del laicismo più intransigente dal ‘700 ad oggi diventano temi del “nuovo cristianesimo”, che cessa di esistere come religione e s’identifica con la società empia sposandone i metodi e le finalità[34].
Sono disorientato perché un Cristianesimo mondanizzato è quello che professa, come scriveva Sciacca, un
puro amore del prossimo e impegno nel mondo comportante l’abolizione della “verticale” (Dio) […] Dio è lo stesso mondo al massimo della sua perfezione[35],
perché ciò che è importante è la soluzione dei problemi più urgenti, tutti mondani, nella prospettiva di una speranza terrena dove l’uomo compie il suo destino ed il cristiano esaurisce il suo compito.
Così si può anche assistere a veder delineato Cristo –tutto questo perfettamente anticipato da Sciacca!- non come il Dio Incarnato
liberatore dal peccato, ma un modello di filantropo, il “lead actor” [cioè il “ruolo da protagonista”] per il nostro compito sociale nel mondo; la Chiesa, a sua volta, è una società terrena impegnata con altre forze nella lotta contro la fame, la guerra, una istituzione meramente mondana, il cui solo scopo è di aiutare l’uomo a trasformare e a dominare il mondo[36].
Privata di questa dimensione verticale, della soprannaturalità, la carità cristiana, avvertiva Sciacca,
non è più tale; chi continua a parlarne, parla di filantropia o di che si voglia, fa un discorso non più cristiano, diverso, anzi opposto a quello di Cristo[37],
dove, tanto per fare un esempio che non deve infastidirvi, tra l’impegno di questo cristiano orizzontale –chiamiamolo così- e quello di un militante di “Sinistra e Libertà” o dei “Medici senza frontiere”, non c’è alcuna differenza. E allora perché essere cristiani, visto che l’esser cristiani è ormai un mimetizzarsi perfettamente con il proprio habitat?
Leggo ancora da Sciacca:
disellenizzato e deromanizzato e demitizzato, foglia oggi e foglia domani, “purificato”-“epurato”, affinché si presenti ammodernato e degno di un mondo maturo –unica sua possibilità per essere ammesso al tavolo di giuoco- il Cristianesimo (e il Cattolicesimo) è programmaticamente “abbassato”, steso al suolo in posizione perfettamente orizzontale; e guai a sporgere anche la punta del naso! Dio e la Chiesa, la religione e il sacro sono distrutti […][38].
È una concezione epigonale che non può non richiamare al modello-Hegel, come del resto ricorda lo stesso Sciacca. Questa visione, infatti, è una utopia che divinizza l’uomo e
quella dell’Uomo-Dio è ancora un’antropologia teologica che ha il senso religioso dell’uomo, la cui storia è “storia sacra” come per Hegel[39].
La secolarizzazione del Cristianesimo porta, di conseguenza,
a identificare l’impegno assoluto nel mondo con il fine ultimo dell’uomo singolo e dell’umanità, cioè la struttura mondana […][40]
con la quale entrare in dialogo. Sciacca ha proposto una definizione molto severa che, teoreticamente, non posso che sottoscrivere. Se l’impegno del cristiano nel mondo è così impellente e dominante, si ha soltanto
un rigurgito di protestantesimo privo dei suoi stessi valori cristiani, il quale, sotto la “species” dell’ecumenismo, si è impegnato, stringendo tutte le alleanze, nella distruzione del cattolicesimo[41].
L’11 novembre del 1968, il Santo Padre Paolo VI parlò così ai religiosi di tre Congregazioni. Cito da Sciacca, che ricorda questo intervento pontificio nel suo Gli arieti contro la verticale:
si deve reagire contro ogni tendenza moderna che mirerebbe a far passare in secondo piano, nella vita religiosa, il colloquio con Dio, sia interiore che comunitario, nonché il rito liturgico e sacramentale, per dare il primato o la preferenza ad altri fini umani, buoni in se stessi certamente e degni di essere perseguiti, ma sempre in dipendenza del fine primario, propriamente religioso, che deve ispirare, penetrare e santificare tutto il resto[42].
La paideia cristiana esige che tutto sia servizio per amore di Dio, perché senza un esplicito costante chiaro riferimento ultraterreno, l’impegno del cristiano nel mondo
non può non adeguare l’uomo alla natura o al mondo; per il suo storicismo intransigente, esige la nascita e la formazione storica di tutti i valori e di conseguenza la loro temporaneità e il loro livellamento all’orizzontale del finito,[43]
dove può sostenersi e giustificarsi soltanto attraverso il consenso, la quantità estesa delle adesioni, insomma mediante quel criterio altrettanto transeunte come quello dei riferimenti valoriali. Ma di questo ho già detto in precedenza.
Gli uomini di Dio, ricordava Sciacca,
non sono gli “arrabbiati” del pacifismo, dell’umanitarismo, del secolarismo, né quei cristiani, manipolatori di “nuovi” catechismi e cioè di “elementi di dottrina” non più cristiana, che a un santo “in galleria” preferiscono con i soldi del processo aiutare i popoli sottosviluppati, alternativa artificiosa e stupida[44].
Se perdiamo la necessità del fondamento non storico della storia ecco quell’oscuramento dell’intelligenza di cui parlava Sciacca.
L’attenzione doverosa e amorevole al mondo contemporaneo e ai suoi bisogni, -doverosa e amorevole, ripeto-, è e va sempre inserita nel fondamento del Cristo, della Rivelazione, nel Dio trascendente che ama l’uomo sino al sacrificio di Sé.
Non si è cristiani e cattolici solo perché si è “socialmente impegnati” o si aiuta il prossimo; -ammoniva Sciacca- lo si è perché si ha fede in Dio trascendente –e fede fondata sul lume naturale di verità-, nella divinità di Cristo, Figlio di Dio e nella infallibilità del magistero della Chiesa; si è cristiani e cattolici solo se si crede che la nostra salvezza è soprannaturale e non mondana, anche se sua condizione è il nostro impegno nel mondo[45].
Un Cristianesimo relegato al mero compito della difesa dei diritti e dei doveri dell’uomo tradisce la sua cattolicità: nel suo La Chiesa e la civiltà moderna così scriveva:
la Chiesa che è eterna nella sua verità, ha la possibilità di rispondere a tutte le esigenze dell’umanità di ogni tempo e luogo, proprio tenendo conto delle tradizioni culturali di ciascun popolo; dunque di informare qualsiasi civiltà senza dipendere
da alcuna[46].
E aggiungeva, a conferma della legittimità del bivio che ho qui presentato, che la filosofia idealistica, con il suo immanentismo, si è voluta presentare
come l’autentica conquista dei valori spirituali: dell’autonomia dell’uomo, della libertà, del vero concetto di religione e di Dio, ecc.[47]
inducendo a credere che il regno di Dio possa compiersi in un regno dell’uomo,
libero creatore del suo mondo, della storia: della morale, dell’estetica, della politica, dell’economia, ecc. [48].
La trascendenza è presente solo quando l’idea oggettiva è l’essere pensato nella sua infinità e come tale mai adeguata dal reale finito[49]: del resto “ci hai fatti per te Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”[50]. È pericolosa, dunque, scriveva Sciacca, quell’attitudine,
oggi diffusa, di riporre ogni speranza di avanzamento spirituale nello Stato, nei piani, nell’organizzazione della società, nella politica, nelle riforme, nell’incremento della produzione dei beni di consumo o del benessere, nelle leggi, ecc., in cose che, una volta fatte, rendano quasi automaticamente gli uomini migliori, anzi felici[51],
seducendo i cristiani a prestarsi al gioco.
Termino questo intervento ricordando le parole stesse del Vangelo, quelle che Cristo espresse alle due sorelle che Lo ospitavano, parole che rispondono al bivio propostovi all’inizio e che rappresentano la mia consolazione e la mia speranza: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”[52].
[1] Papa Francesco, 6 ottobre 2014, apertura del Sinodo straordinario sulla Famiglia. [2] M. F. Sciacca, Gli arieti contro la verticale, Marzorati, Milano 1972, p. 30. [3] Ivi , pp. 22-23. [4] La lucidità di Hegel, del resto, lo esprime senza equivoci: “Secondo la mia concezione della logica, -scrive infatti- l’elemento metafisico cade senz’altro e completamente dentro di essa. Posso citare a questo proposito Kant come precursore e autorità” (G. W. F. Hegel, Nürnberger und Heidelberger Schriften, Theorie Werkausgabe IV, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1979, tr. it. di G. Radetti, Propedeutica filosofica, Sansoni, Firenze 1977, p. 252). Analogia è somiglianza. Ed è in virtù di tale somiglianza che si può stabilire una certa comunicazione fra gli enti e Dio, comunicazione che permette di salire per analogia o proporzione dal creato all’esistenza di Dio. Senza alcun elemento comune, infatti, la prova analogica dell’esistenza di Dio non sarebbe possibile. [5] M. F. Sciacca, Interpretazioni rosminiane, Marzorati, Milano 1958, p. 114. [6] Così si confessava Sciacca nel 1954, anzi si ri-confessava, come egli stesso dice, per le premurose insistenze di don Giovanni Rossi, dopo che pubblicamente già si era confessato una prima volta, nel 1944, con la pubblicazione di Il mio itinerario a Cristo, su sollecitazione di don Cojazzi. M. F. Sciacca, Ragione “critica” e Rivelazione, in Giovanni Rossi, Uomini incontro a Cristo, Edizioni Pro Civitate Christiana, Assisi 1954, p. 43. [7] M. F. Sciacca, La filosofia morale di Antonio Rosmini, Marzorati, Milano 1960, p. 97.. [8] G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Prefazione La Nuova Italia, Firenze 1972 (4°R), vol. I, p. 13. [9] Alludo, ovviamente, a Kierkegaard, Schopenhauer a Nietzsche, così come all’intera parte della sinistra hegeliana. [10] Non faccio che applicare le geniali indicazioni che Wittgenstein utilizzò nei confronti di ogni cosiddetta dimostrazione scientifica. Mi permetto di rinviare a tal proposito al mio Dal certo al vero. Per una esplicita fondazione metafisica del pensiero di Wittgenstein, University Laterran Press, Città del Vaticano 2014. [11] Cfr. M. F. Sciacca, Interpretazioni rosminiane, Marzorati, Milano 1963, p. 158. [12] Ivi, p. 63. [13] Cfr. Benedetto XVI, Discorso "Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni" in occasione dell’incontro con i Rappresentanti della Scienza nell’Aula Magna dell’università di Regensburg, del 12-9-2006, testo originale tedesco in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. II, 2, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, pp. 257-267, trad. it. in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 14-9-2006; cfr. pure la lettura di don Pietro Cantoni, Il discorso di Ratisbona, in Cristianità, anno XXXV, n. 339, gennaio-febbraio 2007, pp. 9-12. [14] Cfr. ancora G. Cantoni, Dopo Marx, i maghi? La riscoperta del pensiero magico in una cultura postmarxista, in CESNUR. Centro Studi sulle Nuove Religioni, Il ritorno della magia. Una sfida per la società e per la Chiesa, a cura di M. Introvigne, Effedieffe, Milano 1992. [15] M. F. Sciacca, L’interiorità oggettiva, Marzorati, Milano 1951, p. 32. [16] Andrebbe qui inserita una distinzione attenta tra “verità” e “certezza”, spesso confuse. Non è qui il luogo a procedere, ma è importante che si abbia coscienza di questa distinzione, mai da confondere. [17] M. F. Sciacca, Filosofia e antifilosofia, Marzorati, Milano 1971, p. 66. [18] Ibidem. [19] Ivi, p. 67. [20] Ivi, p. 69. [21] Ivi, p. 72. [22] Cfr. ivi, p. 126. [23] Ibidem. [24] Ivi, p. 132. [25] Ivi, pp. 131-132. [26] Ivi, p. 133. [27] Gv 13,34-35 [28] M. F. Sciacca, La filosofia morale di A. Rosmini, Marzorati, Milano 1960, p. 168. [29] I Pt 2,11. [30] Rm 12, 2a. [31] M. F. Sciacca, Filosofia e antifilosofia, cit., p. 65. [32] Ibidem. [33] M. F. Sciacca, La Chiesa e la civiltà moderna, Marzorati, Milano 1969, pp. 32-33. [34] M. F. Sciacca, L’oscuramento dell’intelligenza, Marzorati, Milano 1972, p. 178. [35] M. F. Sciacca, Gli arieti contro la verticale, cit., p. 54. [36] Ivi, p. 68. [37] Ivi, p. 71. [38] Ivi, p. 84. [39] Ivi, p. 85. [40] Ivi, p. 90. [41] Ivi, p. 101. [42] Cit. in ivi, p. 100. [43] Ivi, p. 124. [44] Ivi, pp. 150-151. [45] M. F. Sciacca, Gli arieti contro la verticale, cit., p. 183. [46] M. F. Sciacca, La Chiesa e la civiltà moderna, cit., p. 24. [47] Ivi, p. 31. [48] Ivi, p. 33. [49] Cfr. M. F. Sciacca, Interpretazioni rosminiane, cit., p. 159. [50] Agostino, Confessiones, 1,1. [51] M. F. Sciacca, La Chiesa e la civiltà moderna, cit., p. 170. [52] Lc, 10, 41-42.
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