Pensare è, […] il termine che dice eminentemente la dimensione essenziale e precipua dell’ente finito; […]
Pensare è porre problemi, cercare risposte nella persuasione intima che, anche di fronte al problema più arduo, non è possibile che la risposta non sia; in breve, pensare è il concretarsi della fiducia che l’uomo, pur nella finitezza testimoniata dal pensare stesso, è capace di verità: di una verità forse parziale, umile nella consapevolezza dei suoi limiti, ma sempre tale da togliere legittimità, con la sua stessa presenza, ad ogni forma di scetticismo[1].
In questo stralcio raschiniano sono presenti i tre concetti che orientano questo mio intervento: verità, errore e menzogna. Vediamo in dettaglio.
Lo scetticismo è la prima menzogna, quella di fondo, quella che nega la possibilità del vero, ma che pretende contraddittoriamente il vero per sé.
Sembrerebbe un atto di umiltà, ma lo scetticismo nasce da una pretesa di assolutezza: non accetta il limite creaturale di fronte alla Verità e, per questo motivo, conclude assolutizzando il limite, spacciandolo per corretta risposta intellettuale e risposta onnicomprensiva. Pura astrattezza, giacché la vita impone scelte e non ammette per sua intrinseca natura che non si abbiano riferimenti e valori, magari discutibili, ma necessariamente presenti. Cosa manca allo scetticismo? Non la coscienza del problema, visto che sottolinea la precarietà umana, ma, ideologicamente, l’accettazione di questo stato. E qui entrano glialtri due concetti, quello della verità e dell’errore.
Ogni riflessione, chiarisce infatti in termini sciacchiani la Raschini, dovrebbe avere la «consapevolezza dell’infinità della domanda e della incompletezza perenne della risposta[2]». Se la risposta è sempre inadeguata, perennemente incompleta, allora l’errore è una sorta di consapevole pedagogica presenza che segna il nostro limite, la nostra autocoscienza di creature. Paradossalmente, lo scetticismo si autoassolutizza perché non ammette l’errore, la parzialità.
È, invece, precisamente questo dislivello che segna l’uomo, l’unico, secondo le parole della Raschini, «sussistente come ente pensante» che «sa di essere tale grazie alla differenza tra la domanda che si pone –in quanto pensante- e il non possedere ancora la risposta[3]».
Questo “non possedere ancora” non è un rinvio nel tempo, come fosse un problema storicamente risolvibile, ma un rinvio oltre il tempo e la storia, giacché la risposta è sovrastorica e sovratemporale.
Non è l’errore, dunque, ma la menzogna il vero avversario della Verità.
L’errore come consapevole precarietà è analogo al sapersi limitati e incompleti: è la nostra sorte ed essenza. In più, l’errore è capace di essere riconosciuto come tale soltanto perché si confronta umilmente con la verità.
La menzogna, invece, è tale perché froda il pensiero, lo rende illuso di assolutezza, lo riveste di una perfezione che non ha e non è.
Errore e verità sono i nostri compagni di viaggio.
La menzogna, come un ladro di notte, insidia e tenta e manipola verità ed errore, trasformando questo in quella. Quando l’errore viene contrabbandato per verità si ha la menzogna.
Quando c’è la menzogna, ammonisce la Raschini, «il senso del limite, segno dell’intelligenza umana che ne è sempre consapevole, viene a cancellarsi, a perdersi. E, col senso del limite si perde l’orientamento. Il mezzo diventa il fine […] che è sempre un segno dell’”oscuramento dell’ intelligenza”»[4], la confusione di ogni relazione e valore.
Ecco lo snodo teoretico che spiega dunque la triade del titolo di questo mio intervento.
È’ proprio l’errore che implica la trascendenza della verità e anticipa e previene la menzogna che pretende, viceversa, l’infallibilità, equiparando indebitamente umanità e perfezione, limite e compiutezza. Paradossalmente, scrive la Raschini,
il “pensare” è il più alto contrassegno della finitezza: tanto che per coloro per i quali Dio esiste si deve piuttosto dire che Dio “non pensa”, se pensare è, profondamente, essere a distanza dalla risposta e avere la consapevolezza di questa distanza[5].
La distanza denuncia la presenza della parzialità e dunque dell’errore. Ma come riconoscere l’errore dalla menzogna senza pericolo di confusione?
Quello che nasce intorno all’ essere –chiarisce la Raschini- all’interno della speculazione filosofica, è […] il problema per eccellenza […] la cui soluzione non sia una composizione di termini risolutiva di un determinato rapporto, ma è data dall’attingere l’unità sottostante dalla quale vengono suggeriti sia i termini tra cui si stabiliscono i rapporti, sia l’intimo nesso dialettico che li compone in mediata armonia[6].
E’ l’essere che fonda ogni relazione gnoseologica.
A questa, alla relazione di conoscenza, di per sé, non compete la produzione della verità, ma solo una partecipazione di essa in essa. Per tale motivo andrebbe chiarito anche il concetto di progresso che non è una linea crescente evolutiva orizzontale perché solo temporale, ma un approfondimento qualitativo, che non segue le scansioni del tempo ma quelle semantiche, sovratemporali, sovrastoriche.
Infatti, se può essere riscontrabile un progresso storico delle scienze, chiarisce la Raschini, «non sembra altrettanto plausibile pensare il medesimo relativamente ad altri campi d’azione del sapere»[7].
Lo squilibrio essenziale e caratterizzante la condizione ontologica dell’uomo, che Sciacca aveva indicato concentrando, in quel concetto, la tradizione platonico-agostiniana e rosminiana, coincide con uno stato di problematicità costante, di interrogazione umana sull’universo e la vita, uno squilibrio che fonda, in virtù delle risposte che vengono di volta in volta date, le tante e diverse forme di civiltà, quella che chiamiamo comunemente “storia”.
Semplificando mediante un discrimen insito nell’uomo stesso e ricordatoci di frequente da poeti, scrittori e filosofi, l’identità da dare a questa storia o civiltà può essere o quello della finitezza animale e naturale o quello della trascendenza.
A ben pensare, tutto ciò che ha avuto ed ha il livello orizzontale dell’animalità e della natura come modello avrà un suo progresso. Crescente e lineare, quantitativo e temporale.
Così, abbiamo creato nei millenni una serie di protesi e strumenti atti a saldare il dislivello che abbiamo colto tra noi uomini e i nostri compagni di viaggio animali.
Lenti in natura, via via, con le nostre protesi, siamo arrivati ad essere gli animali più veloci sulla terra, in cielo ed in acqua.
Visivamente limitati, siamo riusciti nel tempo a costruire strumenti capaci di vedere il microinfinito ed il macroinfinito, come nessun altro organismo in natura sa fare.
Indifesi alla nascita, ci siamo protetti con scelte sempre più sofisticate. E la protezione che abbiamo costruito va dall’abito, dal vestirci, attorno al quale abbiamo costruito significati simbolici secondari, legati al censo, all’autorità, al particolare contesto che si vive sino agli strumenti di difesa-offesa, con armi quasi infallibili.
Incapaci di convivere per natura, abbiamo lottato nei millenni per valori orizzontali, creduti più idonei per edificare società giudicate di volta in volta più giuste o efficienti, laddove le società animali sono perfette sin dall’inizio e, per questo, inalterate nel tempo.
Facciamo luce quando la natura impone il buio e possiamo far buio se la luce naturale ci infastidisce.
Abbiamo levigato e geometrizzato caverne e grotte e le abbiamo trasformate in stanze, abbiamo lavorato alberi e fatte sedie o tavoli o mobili.
In una tale prospettiva domina la tecnè, e questa soprattutto cadenza quello che definiamo comunemente “progresso”. Ma, ci ricorda la Raschini, «non è […] il progresso delle scienze in quanto tale che fa procedere la storia»[8].
Molti uomini hanno deliberatamente rifiutato il progresso e molti altri non lo hanno ancora conosciuto, e tuttavia restano uomini a tutti gli effetti.
Ma nell’àmbito delle risposte allo squilibrio ontologico che ci connota si propone un altro vettore, il cui orientamento non è più orizzontale e non ha più il modello naturale-animale quale suo riferimento, ma quell’essere che è verità compiuta ed entro il quale soltanto ha fondamento ogni conoscenza.
Il primo di questi elementi è la libertà, privilegio solo umano e del tutto assente nel ciclo naturale, di cui rappresenterebbe soltanto un pericolo. Non avremmo libertà se non ci fosse squilibrio, se tra domanda e risposta ci fosse adeguazione, come avviene negli animali con le loro risposte secondo istinto, cioè secondo quella stessa natura che ha posto il problema. Non sono liberi e dunque non sono responsabili di ciò che compiono. Sono perfettamente ciò che devono essere.
Alla libertà leghiamo il senso morale e i valori di comportamento, il grande tema del bene e del male, una realtà del tutto assente in natura.
E cosa dire della bellezza che appartiene al nostro spirito e che reifichiamo nelle cose? Una massa d’acqua che cade da un dislivello all’altro, eventi come il tramonto o l’alba che accadono da milioni di anni, un campo fiorito, i colori, l’armonia, sono elementi che noi solo siamo in grado di intercettare, riscattando il cieco corso degli eventi in una prospettiva di bellezza.
La stessa filosofia, nella sua inutilità funzionale, è esclusivo diritto-dovere dell’uomo, esercitato nella sua libertà.
E, tralasciando altro, ricorda infine l’amore, che non è naturale. La natura è andata avanti da milioni di anni e per milioni di anni senza amore. Né posso confonderlo con l’affezione o il gregarismo. C’è stato bisogno di Dio che ce lo rivelasse e se crediamo che Dio è Amore, vuole dire che il fondamento dell’Amore è trascendente, sovrannaturale, non naturale. Per questo è così difficile da realizzare.
Ebbene, questi pochi elementi che ho ricordato non subiscono progresso. Non lo subiscono perché sono sovrastorici e, dunque, non soggetti al mutamento del contingente naturale ed animale. Se per la prima tipologia di risposta che s’identifica nel progresso storico-culturale si è uomini anche rifiutandolo o ignorandolo, per le risposte che ho da ultimo ricordato si può invece affermare che solo in virtù di esse siamo uomini. Queste e soltanto queste sono lo specifico umano.
Esse ci rendono partecipi della pienezza dell’Essere, di ciò che fonda ogni realtà storica e che permette di riconoscerci come uomini.
Pensando, noi siamo nell’Essere: ebbene, la menzogna è rivestire di compiutezza un mero prodotto del pensiero, confondendo persino oggetto e concetto.
L’essere, di conseguenza, non può essere ridotto a gnoseologia, non può farsi cognizione;
piuttosto –ammonisce la Raschini- fornisce allo spirito la possibilità d’intendere e dunque di conoscere, così che il conoscere stesso risulta ancora una relazione da esso posta ed in esso risolta. Non di qui il conoscere, e di là l’essere, ma il conoscere nell’essere[9].
Questo indica che se si perde di vista l’unità dell’essere e si assolutizza una posizione parziale del pensiero, si cade nell’astrattezza, cioè nella negazione piena dell’astrazione che è invece operazione necessaria e costitutiva del pensiero e si usurpa, in tal modo, la compiutezza dell’essere trasferendola indebitamente in modo risolutivo in un determinato rapporto gnoseologico. Se l’errore è la consapevolezza costante che accompagna la ricerca che la risposta non è mai definitiva, la menzogna è pretendere che un rapporto gnoseologico determinato, negando l’essere ne ruba, nel contempo, tuttavia, le prerogative.
Appena c’è contrapposizione c’è ideologia, c’è la prevaricazione storica su ciò che, in quanto verità, è sovrastorica, c’è la trasformazione di quanto immanente è di per sé effimero e transeunte in un qualcosa che si pretende stabile ed assoluto.
Come avviene nello scetticismo che, piuttosto che possedere consapevolezza del proprio limite superandosi, si assolutizza contraddittoriamente.
Leggiamo ancora da Concretezza e astrazione:
l’essere non è mai esclusione o ripulsa, ma acconsentimento e accoglienza del diverso; respingere o negare è mutilare l’affermazione dell’essere
che, in questo modo,
rimane affermazione relativa, perciò vera e non vera, e dunque triste perché priva della pienezza che la sospinge interiormente[10].
[1] Concretezza e astrazione, Marsilio, Venezia 2000 (2), p. 27. [2] Ivi, p. 11. [3] Ivi, p. 27. [4] Scienza e morale, in Pedagogia e antipedagogia, Marsilio, Venezia 2001, p. 233. [5] Concretezza e astrazione, cit., p. 26. [6] Ivi, pp. 11-12. [7] Ivi, p. 29. [8] Ivi, p. 29. [9] Ivi, p. 12. [10] Cit., p. 23.
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